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Venerdì, 13 Aprile 2018 00:00

Diario di una maestrina – parte I

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Simonetta Soldani a “Un libro per la vita” [I]

Un intervento quasi commovente quello di Simonetta Soldani, l’8 aprile, durante il penultimo appuntamento della rassegna “Un libro per la vita”, presso l’Auditorium di Piazzale della Resistenza di Scandicci.

La manifestazione, arrivata alla sua IV edizione è curata da Raffaele Palumbo e realizzata con il patrocinio della Regione Toscana e la città metropolitana di Firenze e ha visto un ciclo di appuntamenti domenicali partiti dal 5 novembre 2017 e che si concluderà con un evento straordinario domenica 18 maggio. Durante la rassegna, i relatori di volta in volta invitati presentano un libro a loro scelta che gli ha cambiato, per qualche ragione, la vita. Simonetta Soldani, docente di Storia Contemporanea e di Storia politica e sociale dell’età contemporanea presso l’Università degli Studi di Firenze, tra le fondatrici della Società italiana delle storiche (SIS) e della Società italiana per la Storia Contemporanea (SISSCO) e membro della rivista di storia contemporanea Passato e presente (attiva dal 1982), ci ha parlato di un piccolo, non troppo conosciuto, libro biografico: Diario di una maestrina, pubblicato dalla maestra Maria Giacobbe nel 1957.

Il diario è una raccolta genuina e sincera di testimonianze, esperienze, ricordi duri e al contempo toccanti, se non struggenti, vissuti dalla stessa Maria durante il suo periodo di insegnamento in alcune frazioni del nuorese, in Sardegna, luoghi poveri e disagiati, al limite della civiltà, che appaiano come appartenenti a epoche lontane, estranee, dimensioni quasi surreali, dimenticate dai primi tentativi di progresso e ammodernamento che toccavano altre zone più “avanzate” e ricche del nostro paese. Infatti l’impressione che ha la stessa Soldani quando legge il diario di Maria, ai tempi in cui frequentava il ginnasio, è proprio quella di avere a che fare con l’immagine di un’Italia sconosciuta, e che, pur nella sua contemporaneità le appariva congelata in un passato remoto irriconoscibile.

La Soldani dice di aver comprato, a quel tempo, l’edizione della Laterza, cosa strana considerando che i libri più economici e più facilmente reperibili, erano a quel tempo quelli pubblicati dalla Bur, ma, in questo caso si trattava di un libro che aveva vinto la Palma d’oro dell’Unione donne italiane e dunque facilmente reperibile. Vi sono state diverse edizioni del Diario ma negli ultimi due o tre anni è stato ripubblicato soltanto da case editrici sarde, come se si trattasse di un’opera che può suscitare interesse soltanto nella realtà locale sarda, come se fosse un fenomeno quasi folkloristico o comunque appartenente alla sola identità sarda e non nazionale.

Sintomo, anche questo di un identitarismo e di un settarismo localistici sempre più tipici non solo del nostro territorio ma della nostra stessa mentalità, sempre più ovattata e concentrata su ciò che ci è più prossimo, su ciò che ci riguarda strettamente da vicino, incapace di partorire una visione unitaria, più olisitca, in grado di abbracciare orizzonti più ampi, in grado di costruire percorsi e realtà collettivi e comuni, portando, al contrario a cesure, incolmabili fratture e cieche divisioni, rappresentate in maniera più lampante dalle differenze abissali tra il nord e il sud, così come tra centri e periferie. Un’unità, quella italiana, che purtroppo, ancora oggi non può dirsi pienamente realizzata nel suo animo e nel suo spirito, se non su un piano meramente geografico e diplomatico e giuridico.

Soldani racconta di esser rimasta folgorata già al ginnasio dal diario di Giacobbe ma sono state poi successive letture, in momenti diversi della vita, a farle (ri)scoprire il suo significato profondo e la sua potenzialità di risultare attuale, tanto che la professoressa ammette di farne uso durante i suoi corsi universitari, per parlare ad esempio di analfabetismo e analfabetismo funzionale, piaga dei nostri tempi e che si distingue da quello massivo degli anni ’50, in cui la maggior parte delle persone adulte non sapeva scrivere il proprio nome. Quello di oggi non è l’incapacità di leggere e scrivere quanto di comprendere, rielaborare e memorizzare ciò che si legge; oppure usa Diario di una maestrina per sottolineare quanto la scuola sia stata importante e utile per formare una base comune identitaria nell’Italia dell’epoca, ma quanto ancora oggi sia difficile costruire una coesione nazionale, come accennavamo sopra.

Bisogna ricordare che questa biografia è molto lontana dalla vulgata sui libri inerenti alla scuola e all’istruzione che ne vorrebbe fare una sorta di “libri cuore”, idilliache opere che contengono maestri eroici e commoventi riscatti di studenti dati per perduti, che rappresentano straordinari percorsi di inclusione e formazione. Purtroppo non sempre la scuola è riuscita, nella realtà, a creare questi percorsi di inclusione: basta limitarci a guardare i dati sull’analfabetismo funzionale appunto o sulla dispersione scolastica, sul basso numero (rispetto alla media europea) di studenti universitari, o consultare i dati Istat che presentano la scuola come un fenomeno ancora elitario.

Il Diario di Maria Giacobbe non fa sconti alla durezza della realtà dell’insegnamento e delle situazioni in cui lei stessa si è trovata a insegnare, e vi si scorge l’intento di voler sottolineare con nettezza l’estraneità dei programmi scolastici rispetto alle realtà vissute dai ragazzi, l’incapacità della scuola di dialogare veramente con la dimensione di vita reale di coloro cui è diretto l’insegnamento, aprendo così abissi di incomunicabilità che portano i ragazzi a non intravedere nella scuola e nell’istruzione una strada alternativa al lavoro nei campi o, problema principale della Sardegna degli anni ’50, al banditismo, né a immaginare mondi diversi e ruoli diversi per se stessi. Maria Giacobbe è consapevole di tutto questo e infatti cercherà sempre di impostare il suo insegnamento partendo da quello che i suoi studenti conoscono, dalle cose quotidiane, ad essi familiari, cercando sempre un incontro comunicativo laddove sembrerebbe impossibile, considerando soprattutto il fatto che nei paesini montanari sardi non si parlava ancora l’italiano ma solo dialetti, diversi da frazione a frazione.

Maria ha alle spalle una biografia familiare bella e intensa. Il padre, Dino Giacobbe, ingegnere, faceva parte del Partito d’Azione Sardo e fu perseguitato in quanto militante antifascista; dopo varie peripezie e fughe, tra Marsiglia, Parigi, va a combattere in Spagna e finisce in un campo di concentramento vicino Perpignan nella regione chiamata Occitania, in Francia, da cui però riesce a fuggire. Grazie a una telefonata a Bruno Trentin riesce ad andare prima a Bruxelles e poi negli Stati Uniti, dove però non potrà esercitare la sua professione di ingegnere. Tornerà in Sardegna dalla famiglia solo a guerra finita. Anche la madre di Maria, maestra elementare fino al 1937, conosce episodi di persecuzione fascista: in seguito a una lettera in cui elogiava uno studente che era morto combattendo contro i franchisti in Spagna, viene arrestata. Durante il fascismo e in particolare nel 1926, all’indomani delle leggi fascistissime vengono chiuse più di 3000 scuole dal regime fasciste in quanto sospettate (e spesso a ragione) di antifascismo.

Maria nasce nel 1928 a Nuoro ma nel 1957 si sposa con un danese e si trasferisce in Danimarca. Forse anche grazie all’impronta combattiva e militante, agli ideali di giustizia e di lotta comunista del padre (ma anche della madre) anche Maria è consapevole che il sapere, la cultura, come ogni battaglia, non devono essere una conquista individuale, un tesoro da custodire in privato, ma forme di organizzazione e strutturazione sociali, forme collettive, conquiste che devono essere alla portata di tutti, un tesoro da condividere per rendere la società migliore. Spirito che leggendo il suo diario si percepisce, tanto che arrivati alla fine della lettura, dice Soldani, ci sentiamo più ricchi. La Giacobbe racconta sì storie drammatiche, durissime, ma lo fa sempre tessendo un filo di speranza, lasciando sempre individuare una ragione di ottimismo, un senso di positività, una luce in mezzo alla desolazione e al disagio.

Sono gli anni, quelli in cui scrive Maria, in cui si comincia a parlare di rinnovamento della scuola ma non mancano voci ferocemente critiche: nel 1955 Sciascia pubblica sulla rivista Nuovi Argomenti un articolo severissimo nei confronti della scuola. Si tratta delle Cronache scolastiche, un affresco impietoso della scuola del suo tempo, scuola analoga a quella che racconta Maria, ma che nelle trenta pagine di articolo non viene risparmiata né illuminata con un qualche barlume di speranza, di ottimismo. Qui si respira il sapore della sconfitta desolata, dell’irredenzione, della salvezza impossibile, dell’irrimediabilità e della sconsolata amarezza. “Non amo la scuola” confessa Sciascia, ritenendola chiusa e trincerata in una miope autoreferenzialità, incapace di dialogare e colloquiare nel mondo e col mondo a cui si rivolge e in cui dovrebbe incidere, la cui cecità viene punita dall’abbandono scolastico e dall’amarezza di tutti coloro che la “compongono”, insegnanti, studenti, famiglie degli studenti. Il diario di Giacobbe si potrebbe identificare come una sorta di controcanto rispetto a questa lancinante e spietata durezza con cui Sciascia tratteggia la scuola.

Senza risultare edulcorato o conciliante, la testimonianza della maestra Maria lascia emergere quella delicata, senza risultare ingenua, fiducia nel cambiamento, nella possibilità di incidere in qualche modo, nell’utilità e nella possibilità di piccoli miglioramenti, piccoli ma preziosissimi traguardi che solo attraverso l’insegnamento e il contatto tra maestri e allievi, sono possibili. Quello che descrive la Giacobbe, pur nell’attenta e lucida consapevolezza delle situazioni di estremo disagio, di tremenda povertà e di quasi inconcepibile durezza della vita dei bambini e soprattutto delle bambine sardi degli anni ’50, che racconta minuziosamente, non è un orizzonte irrimediabilmente serrato come quello che appare nelle Cronache di Sciascia, ma un orizzonte che si schiude al futuro, al cambiamento possibile, alla consapevolezza che si deve e si può fare qualcosa, che si può incidere, magari un minimo, nelle realtà, nelle aspettative, nella capacità di sviluppare un pensiero, di imparare un po’di italiano, di conoscere mondi diversi da quelli cui sono abituati, dei propri allievi.

È forse proprio questa consapevolezza che spinge la giovane insegnante a chiedere, nel bel mezzo di una guerra contro i banditi che dilaniava la Sardegna (di cui Maria era a conoscenza anche dopo i resoconti sui “Banditi di Fonni” e sui “pastori di Orgosolo”, entrambe frazioni di montagna poco distanti da Nuoro, su Nuovi Argomenti), con una presenza ossessiva di polizia che distruggeva la pastorizia e in cui gli stessi pastori diventavano banditi (si veda anche il bel documentario di Vittorio De Seta), di andare a insegnare a Orgosolo. Nella primavera del 1948 ottiene la prima supplenza in una delle frazioni più disagiate e drammatiche della Sardegna, Solitrà, sotto Olbia, oggi invece meta turistica per la bellezza del suo paesaggio incastonato tra mare e montagne. In questa frazione non esiste nemmeno una casa che sia stata costruita prima degli anni ’50; ce ne sono tre costruite tra il ’50 e il ‘75 ma tutte le altre risalgono agli anni successivi al 1970. Questo per dare l’idea del luogo sperduto e poco urbanizzato che doveva essere Solitrà, privo di quelli che noi consideriamo i minimi simboli della società civile: una chiesa o un cimitero, nonostante vi vivessero circa 400 persone.

Gli abitanti della frazione tenevano le bare con i morti sotto al letto perché il prete raggiungeva quelle frazioni solo tre volte all’anno e soltanto con la sua benedizione si poteva allora predisporre il trasporto della bara fino al cimitero situato a tre km di distanza. In questi luoghi di montagna la vita delle donne era aspra e dura: venivano impiegate per lo più per togliere le pietre dal terreno, così da fare muretti che lasciassero spazio a piccoli pezzi di terra in cui poter piantare almeno un ulivo. Leggere queste cose nel 1957, dichiara Soldani era qualcosa di stupefacente: quella era un’Italia a me contemporanea ma allo stesso tempo irriconoscibile, antica, straniera, inafferrabile. Conoscevo la povertà, la riconoscevo nelle giacche strappate e piene di toppe dei compagni di classe, me ne rendevo conto dal fatto che di 30 bambini delle medie solo 3 siamo andati alle superiori mentre tutti gli altri all’avviamento al lavoro per contribuire ai bisogni della famiglia, ma niente di assimilabile alle storie che raccontava Giacobbe”.

Quest’ultima parla anche di un’altra, toccante e persino commovente esperienza di insegnamento, avvenuta in una scuola popolare. Le scuole popolari erano scuole serali e gratuite dalle 19.00 alle 22.30 per maschi adulti totalmente analfabeti per ottenere almeno il livello inferiore delle elementari, ovvero il diploma di terza elementare. Maria, come gli altri maestri che insegnavano alle scuole popolari, riceveva un piccolo compenso per insegnare a questi uomini grandi e grossi che usciti dal lavoro venivano a imparare a scrivere e leggere in una stanza al piano terra di un edificio inabitabile in periferia, senza vetri alle finestre e con grandi panche dove gli alunni dovevano appoggiare il loro foglio e chinarsi per terra per scriverci sopra. La Giacobbe descrive questi “omaccioni” con un rispetto e un amore tali da risultare toccanti e commoventi.

Uno di questi adulti aveva raccontato a Maria che la sua mamma insieme al quinto figlio (il suo fratellino più piccolo) aveva allattato anche quattro maialini, dei quali tre era riuscita a vendere per comprare un po’ di formaggio per la numerosa famiglia. Episodio che colpisce la maestra che capisce che a questi uomini non può importare niente quando gli parla di leggi, della Costituzione, perché quello che gli interessa è mangiare. “Chi sono i ricchi?” chiede spesso Maria ai suoi allievi e la risposta che si sente dare da loro è sempre la stessa: “sono quelli che possiedono pane e legna”. Gli anni ’50 che emergono da queste testimonianze sembrano un’epoca quasi cinquecentesca, in cui la povertà è estrema, non si mangia, non si ha legna per scaldarsi, si fanno figli per avere più braccia da lavoro, si manda le donne a fare lavori duri quanto quelli degli uomini.

[continua domani]

Immagine ripresa liberamente da capoterra.net

Ultima modifica il Giovedì, 12 Aprile 2018 15:10
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

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