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Giovedì, 20 Settembre 2018 00:00

I mondi a venire, secondo Danowski e Viveiros de Castro

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Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine di Danowski e Viveiros de Castro (di seguito, “gli Autori”1), per i tipi di Nottetempo, è dichiaratamente più un saggio politico, che si vuole inserire nel filone emergente delle riflessioni sull'Antropocene, che un lavoro scientifico, come gli autori dichiarano nella nota 25 a pagina 62.
In questo articolo, quindi, cercheremo di concentrarci sugli aspetti più strettamente politici, lasciando gli aspetti scientifici a margine. Dobbiamo però da subito confessare una difficoltà non irrilevante: nel testo antropologia, filosofia e politica sono strettamente collegate e messe a confronto, e quindi non sempre è possibile (o legittimo) separarle criticamente.

Il testo in questione è la versione ampliata e aggiornata di un contributo ad un volume collettaneo curato da Émile Hache, pubblicato nel 2014. Di Danowski purtroppo non sono reperibili pubblicazioni tradotte oltre a Esiste un mondo a venire?; dalle scarne informazioni che offre la minibio sul retro di copertina e da una rapida ricerca in rete si può apprendere che è una filosofa brasiliana che si occupa di filosofie dell'ambientalismo presso una prestigiosa istituzione di Rio de Janeiro. Viveiros de Castro invece ormai in Italia è un nome noto al di là dei confini disciplinari, soprattutto in virtù del suo Metafisiche cannibali, edito dalla veronese Ombre Corte. L'antropologo – anche lui brasiliano – si è occupato nello specifico di alcune popolazoni dell'Amazzonia, elaborando nel corso del suo notevole lavoro etnografico una particolare forma con cui restituire la cosmologia amerindia, ciò che ha significativamente battezzato “prospettivismo”; ed il materiale etnografico occupa uno spazio centrale anche in questo testo “politico”.

Riassumendo brutalmente l'interessante presentazione viveirosdecastriana, gli amerindi con cui l'antropologo ha dialogato concepirebbero un'essenza umana universale e primordiale, che si sarebbe poi stabilizzata nella diversità delle forme animali: un giaguaro per esempio conterrebbe quindi un qualcosa di umano, e in grazia di ciò vedrebbe, dalla sua prospettiva, gli altri giaguari come esseri umani – altri indi, con cui si condivide una koiné politica – e gli esseri umani viceversa come gustosi pecari (una sorta di suini, Pecari spp.) o come pericolosi membri di società animali avversarie. Gli amerindi (quelli considerati dall'antropologo) sono consapevoli di questo antropomorfismo universale, a cui uniscono un panpsichismo per il quale ogni cosa – dalle rocce al terreno – “è piena di anime” intenzionali, e da questa doppia consapevolezza deriverebbe da un lato la necessità di trattare “politicamente”le collettività degli altri animali-umani e l'esistente in generale, tenedo in considerazione conseguenze delle azioni e punti di vista in gioco, e d'altro canto un ethos volto alla riproduzione di un presente differenziato (“etnografico”, come lo definisce Viveiros de Castro) contro ogni rischio di sfaldatura nell'indifferenziazione del primigenio e nel caos.

Bisogna ammettere che il prospettivismo e l'antropologia di Viveiros de Castro, e la sua ambizione di “prendere sul serio” le filosofie indigene forniscono lo spunto più fertile e la parte migliore del nostro Esiste un mondo a venire?. Lodevole anche l'idea di fondo di far dialogare questo sapere amerindio con la filosofia “europea” e la filosofia politica di stampo ambientalista, un dialogo che – ci narrano gli autori – localmente sta già avvenendo nel senso di una appropriazione amerindia del lessico ecologista “bianco”. Partendo da questo materiale, gli autori scelgono di operare un'integrazione tra ciò che Viveiros de Castro ha capito e restituito della cosmologia amerindia e un settore ben preciso della filosofia continentale, ovvero Latour e la sua Actor-Network theory, soprattutto, e gli echi di Deleuze (“un certo” Deleuze postmodernista e antigauchiste, si potrebbe dire tra il serio ed il faceto, non certo “il” Deleuze poststrutturalista né, tantomeno, Deleuze “e basta”, nella sua complessità e politicità radicale) che in questa capita di sentire. 

Bruno Latour, filosofo e sociologo francese di fama internazionale, da anni lavora allo sviluppo e alla divulgazione di una originale visione della realtà sociale e materiale, fatta2 di “attanti” umani e non umani, concepiti rigorosamente “sullo stesso piano”, e delle reti nelle quali si svolge la loro esistenza; fuori dagli ambienti specialistici però è forse più noto però per il suo impegno nell'ambito dell'ambientalismo, un impegno teorico svolto a volte in parallelo, a volte “a partire” dalla lettura “a rete” della realtà cui abbiamo accennato. Dalla dialettica di affinità e divergenze tra questo materiale latouriano – a volte riproposto con un'enfasi poco critica e forse eccessiva – ed il pensiero amerindio Danowski e Viveiros de Castro cercano di trarre una sorta di filosofia pratica e una politica per pensare tanto il conflitto ambientale in corso e futuro, letto come scontro tra “Umani” o “Moderni” – uomini ed entità politico-economiche passivamente o attivamente responsabili dell'ecocidio in atto – e “Terreni”, quanto il futuro “mondo dei Terreni”, il mondo a venire che Danowski e Viveiros de Castro scorgono oltre l'orizzonte della catastrofe ambientale.

“Umani”, “Moderni” e “Terreni” sono categorie inventate appunto da Latour, che non sfuggono – come Danowski e Viveiros de Castro ammettono – ad una certa vaghezza costitutiva: gli “Umani” si identificherebbero all'incirca con quello che spesso viene chiamato “l'Occidente” o il “Primo mondo” capitalistico, nel campo dell'”Umano” militerebbero però anche i BRICS, in virtù della via ecocida allo sviluppo economico che avrebbero intrapreso in questi ultimi decenni; per quanto riguarda i “Terreni”, in Latour sono un insieme difficile da afferrare, che oscilla da un gruppo ristretto di pensatori indipendanti seguaci di Latour al «popolo di Gaia», un insieme di collettivi in un modo o nell'altro “attaccati alla Terra”3.

E questa seconda definizione sembra essere quella scelta anche da Danowski e Viveiros de Castro. La cecità dei “Moderni”, che ha portato nel giro di pochi decenni il sistema-mondo sull'orlo del baratro, sarebbe da attribuire, secondo gli Autori, alla loro metafisica antropocentrica, che vedrebbe la dimensione dell'umano come suprema rispetto al resto dell'esistente e trascendente rispetto alla dimensione “ambientale” e che sarebbe quindi incapace di comprendere alternative come le “cosmopolitiche” amerindie.

Partito dalla rassegna di alcune “paure della fine” e le “mitologie della fine” che allignerebbero tanto nella cultura pop quanto nella filosofia più elitaria, Esiste un mondo a venire? trova il suo fulcro politico proprio nella denuncia di quelle concezioni che, nell'opinione di Danowski e Viveiros de Castro, mascherano o manifestano questo antropocentrismo. Un trattamento particolarmente duro è riservato nel testo al cosiddetto accelerazionismo di sinistra, una tendenza intellettuale di origine anglosassone che, in somma sostanza, predica l'”accelerazione” dei processi di sviluppo tecnologico-cibernetici della (post)modernità, da strappare (come i vecchi “mezzi di produzione”) semmai dalle mani dei capitalisti “neoliberisti”.

In quest'ottica tutti i problemi di vincoli esterni verrebbero risolti dall'umanizzazione totale del mondo, e da una transumanizzazione dell'umano. Ma l'accelerazionismo, nel contesto della sinistra occidentale contemporanea, è una corrente ultra-ultraminoritaria, che – da quanto ci risulta – non è sposata organicamente da nessun partito dotato di una minima rappresentatività, in nessuna parte del mondo; il fatto che Danowski e Viveiros de Castro dedichino uno sforzo così ampio (soprattutto a confronto con quello speso contro i transumanisti di destra, o contro le visioni ambientali più “classiche” di matrice liberale o conservatrice, quasi ignorate nel testo) a contrastare teoricamente un avversario così esiguo lascia nel lettore la sensazione che l'accelerazionismo sia usato come comodo proxy della sinistra in generale, sospetto suffragato dagli strali che qua e là nel saggio gli autori lanciano più o meno ingenerosamente contro il socialismo in tutte le sue forme, pur dimostrando un certo apprezzamento per una sinistra ambientalista post-sessantotto, che per gli Autori sarebbe stata ingiustamente cancellata dalla meno meritevole sinistra “produttivista”.

Tra i pochi che si salvano gli Zapatisti del Chiapas, ma solo perché avrebbero «presto smesso di appoggiarsi alla vecchia escatologia rivoluzionaria “marxista” (in realtà, cristiana da cima a fondo) con cui l'Europa, grazie ai suoi insopportabili intellettuali-chierici, continua a voler controllare le lotte di liberazione dei popoli che stanno tracciando il proprio cammino»4. Se queste parole di Danowski e Viveiros de Castro vogliano esprimere un forte sentimento ambivalente nei confronti della sinistra, “ti odio perché ti voglio bene”, come spesso accade nel pensiero ecologista-radicale e come sarebbe in parte giustificato dall'agghiacciante disprezzo mostrato storicamente da settori di sinistra per l'ambiente, oppure un più franco antisocialismo, lo lasciamo all'interpretazione.

Nel complesso la lettura non lascia indifferenti, spesso preoccupa, ogni tanto fa arrabbiare. Convince il dialogo tra saperi convenzionalmente concepiti come distanti, così come il confronto tra cultura pop euroamericana e filosofia di stampo accademico.

Convincono meno i toni, spesso inutilmente esasperati, così come risultano da respingere da un lato la liquidazione spicciola operata dagli Autori degli abitanti delle società “occidentali” come una massa di «automi obesi [sic!], teleguidati mediaticamente, stabilizzati psicofarmacologicamente»5 (en passant, immaginiamo che Danowski e Viveiros de Castro si escludano dal novero di questa massa indistinta), e d'altro canto il sottile scetticismo scientifico – contro una presunta «Big Science»6 venduta agli interessi corporativi ma anche contro un altrettanto presunto «oracolo mistico di una Natura venuta a detronizzare le vecchie divinità»7 – che si manifesta in alcune pagine di questo Esiste un mondo a venire?. Sia chiaro, Danowski e Viveiros de Castro non sono affatto degli oscurantisti scientofobici: la ratio del libro sta nel cambiamento climatico, un fenomeno su cui è stata la scienza a lanciare l'allarme, e che scienziati allarmati continuano a rammentare all'opinione pubblica e alla politica.

È appunto una questione di come si comunica, di come si dicono le cose, anche le peggiori; purtroppo non siamo sicuri che Esiste un mondo a venire? riesca a dire tutto ciò che pure avrebbe da dire.


1 Di seguito quanto viene citato letteralmente sarà riportato tra virgolette caporali («»), in corsivo e corredato di opportuna nota a pié di pagina.

2 Brutalizziamo nuovamente un pensiero complesso per ragioni divulgative e di sintesi. Chi fosse interessato ad approfondimenti accessibili su Latour e sull'Actor-Network Theory può recuperare il numero 1/2017 della rivista Politica&Società, Il sociale e le sue tracce: la politica dell'Actor-Network Theory.

3 Déborah Danowski ed Eduardo Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, Nottetempo, Milano 2017, pp. 196-198

4 Ibid. p. 222

5 Ibid. p. 202

6 Ibid p. 189; p. 207

7 Ibid. p. 188

Immagine nel pubblico dominio ripresa liberamente da wikimedia.org

Ultima modifica il Mercoledì, 19 Settembre 2018 20:00
Amilcare Cipriani

«Uomo di poche idee, semplici ma ferme».

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