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Venerdì, 27 Luglio 2018 00:00

Balene perdute e ritrovate nella storia del Mediterraneo

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Balene perdute, balene ritrovate

Il Mediterraneo è tante belle cose, ma apparentemente non è un mare da balene; la popolazione dell’unica balena che regolarmente si ritrova nelle nostre acque, la balenottera comune, è ridotta e apparentemente in decrescita, e a considerare le fonti storiche ed etnografiche, non sembra sia comunque mai stata particolarmente numerosa.

Mentre i toponimi, la letteratura e l’arte figurativa strabordano di delfini e, in una misura di poco minore, di foche (ormai anch’esse molto rarefatte), la balena nelle culture mediterranee è un animale al limite del mitologico, è “il Leviatano che Tu hai creato perché [nel mare] si diverta”. Eppure non è stato sempre così: dai resti fossili sappiamo che curiosi cetacei simili a capodogli, balene e grandi delfini vivevano in corrispondenza dell’attuale Salento oltre sette milioni di anni fa, e più tardi, nel Pliocene, tra due e cinque milioni di anni fa, solcavano il mare le balene i cui resti sono emersi nelle vigne del Senese e dell’Astigiano. E anche senza riportarci a tempi così remoti, un recentissimo studio pubblicato da Ana S. L. Rodrigues e collaboratori sulla prestigiosa rivista Proceedings of the Royal Society sembrerebbe suggerire che le balene mediterranee fossero molto più abbondanti e diversificate ancora in tempi storici.

Il lavoro in questione consiste in un’analisi di frammenti di ossa di cetaceo trovate in Spagna e Marocco in associazione con insediamenti umani di epoca pre-romana e romana (grossomodo tra il 400 a.C. e il 400 d.C.), condotta attraverso una doppia identificazione molecolare, basata sia sulle caratteristiche del collagene, che si sono rivelate uno strumento appropriato per distinguere tra specie di balena, sia su sequenze di DNA antico quando è stato possibile ottenerlo (per una breve discussione di cosa sia e come possa essere usato il DNA antico si veda qui). Con una certa sorpresa, mentre alcune delle ossa appartenevano a specie ancor oggi presenti nell’area, un osso si è rivelato appartenere ad un elefante (probabilmente un esemplare dell’ormai estinto elefante del Nordafrica, quello di Annibale, per capirci), ma la maggior parte dei campioni ha mostrato corrispondenza con due specie di balena oggigiorno assenti nel Mar Mediterraneo, la balena franca boreale (Eubalaena glacialis) e la balena grigia (Eschrichtius robustus).

La balena franca boreale è una specie che sopravvive con una popolazione piuttosto ridotta (stimata a non oltre trecento esemplari) nell’Oceano Atlantico nord-occidentale, e per quanto sia stata attivamente cacciata nelle acque europee a partire dal Medioevo, ne è ad oggi assente in linea di massima, con sporadici avvistamenti di esemplari occidentali. La balena grigia è un mistero ancora maggiore: questa specie, a differenza della maggior parte delle balene, vive principalmente sottocosta, a basse profondità, e questa sua caratteristica ha contribuito alla sua scomparsa dalla massima parte dell’areale storico. Mentre un tempo la specie era presente tanto nell’Oceano Atlantico quanto nell’Oceano Pacifico, sembra sia stata estinta nelle acque europee già in età Tardo-Antica, nel diciassettesimo secolo nell’Atlantico occidentale; nel Pacifico occidentale, tra la Corea e il Mare di Okhotsk, resiste una popolazione di poco più di un centinaio di individui, probabilmente destinata ad una lenta estinzione, mentre l’estinzione della principale popolazione, che migra lungo la costa occidentale degli Stati Uniti tra l’Alaska e la California del sud, è stata scongiurata da leggi ad hoc e ha permesso alla popolazione di tornare ad una quota di ventimila esemplari.

Cito questi numeri non per attenzione maniacale ai dettagli, ma per far capire al lettore le dimensioni delle popolazioni di balena attualmente esistenti: tutte le balene grigie esistenti al mondo non raggiungono un quarto degli abitanti di Pisa, tutte le balene franche boreali corrispondono grossomodo ad un paesino di montagna, di quelli che lentamente si spopolano. Si tratta di animali a crescita lenta, che possono vivere svariate decine di anni, o in alcuni casi secoli e sono estremamente sensibili ad un gran numero di disturbi antropici che ne aumentano la mortalità anche in assenza di caccia diretta, e che, in base alle stime di diversità genetica disponibili, sono oggi drammaticamente ridotte in numero rispetto a solo pochi secoli fa. Abbastanza curiosamente, nonostante la balena franca boreale e la balena grigia siano di fatto estinte nell’Atlantico orientale, ambedue le specie sono state segnalate in Mediterraneo solo pochi anni fa, anche se, con la lunghezza delle generazioni di queste specie, è plausibile si tratti di sporadiche visite turistiche e non di un inizio di ricolonizzazione.

Dato che non è plausibile che le ossa di questi animali venissero trasportate a grande distanza dal luogo della cattura, la conclusione raggiunta da Rodrigues e collaboratori, che tanto le balene grigie, quanto le balene franche boreali fossero regolari nel Mediterraneo, quanto meno nella zona più occidentale da essi considerata, sembra poco discutibile. Il Mediterraneo è da sempre un mare oligotrofico, quindi povero di nutrienti e conseguentemente di plancton, ma è significativamente più calmo dell’oceano, e l’idea che le popolazioni orientali di queste due specie lo utilizzassero come area nursery, dove partorire e svezzare i piccoli, sembra piuttosto ragionevole. E considerato che già nel Medioevo le due specie erano una estinta, l’altra drammaticamente rarefatta nelle acque europee, non sembra nemmeno irragionevole l’ipotesi che la caccia in epoca pre-romana e romana abbia contribuito a questa rarefazione, e in definitiva all’abbandono di aree di nursery che, per quanto comode e climaticamente favorevoli, esponevano le balene e i loro piccoli ad una pressione antropica intollerabile.

Alcune delle conclusioni tratte dagli autori dell’articolo sembrano tuttavia poco sostanziate dai dati, che sostanzialmente ci dicono che in epoca romana queste due specie non erano irregolari nell’estremo Mediterraneo occidentale; non ci permettono di affermare che lo stesso valesse per il resto del Mediterraneo (e considerate le caratteristiche piuttosto peculiari del Mar di Alboran è in realtà implausibile); non ci permettono di affermare che queste specie fossero altrettanto comuni, o addirittura più comuni delle specie tuttora viventi in Mediterraneo: se abbiamo trovato più ossa di queste specie è principalmente perché, essendo più lente e meno adatte ad immersioni prolungate (e, se l’ipotesi dell’area nursery è corretta, impedite a fuggire dalla presenza di un balenotto), erano più semplici da catturare delle altre.

L’ultima ipotesi poco suffragata dalle prove disponibili, infine, è quella secondo cui i Romani avrebbero avuto un’industria baleniera svariati secoli prima dei Baschi medievali. Come molte ipotesi di rilettura critica della storia antica, si tratta di un’ipotesi affascinante; ma, molto probabilmente, sbagliata. Se la scarsità dei resti esaminati, e la limitata area geografica considerata, dovrebbero già suggerire di considerare con molta cautela questa ipotesi, un esame anche cursorio della letteratura latina mostra che gli antichi Romani – come del resto tutti i popoli mediterranei – avevano una scarsissima dimestichezza con i grandi cetacei, che a livello lessicale erano sistematicamente confusi con squali, tonni e pesci spada sotto la generica dicitura di cetus, “grande pesce” – e, in effetti, tra gli autori antichi il solo Aristotele identifica correttamente le affinità tra cetacei e mammiferi terrestri, mentre l’idea che si tratti di pesci rimane predominante in tutta l’Età Antica e nel Medioevo.

L’uso di un termine generico introduce anche una confusione terminologica per quanto riguarda gli impianti di condizionamento di “grandi pesci”, le cetariae; Rodrigues e colleghi suggeriscono che, oltre alla classica lavorazione di tonni, squali e pesci spada, questi impianti potessero essere impiegati per il trattamento di carne e grasso di grandi cetacei. Se, però, i cetacei erano oggetto di caccia commerciale, e lo erano all’interno dei confini dell’Impero Romano, risulta inspiegabile la loro assenza in una tradizione culinaria che, almeno nell’Età Imperiale, si crogiola nell’eccesso, nella stranezza e nell’esotismo. Nelle narrazioni naturalistiche contemporanee, la balena è sempre confusa con il grosso pesce, il cetaceo predatore viene confuso con quello planctofago nella creazione di una sorta di chimera con la stazza della balena e le fameliche mascelle dell’orca, che probabilmente è anche qualcos’altro, più vicino a squali che in Mediterraneo sono stati comunque sempre più comuni dei grandi cetacei.

Questa colossale, vorace, archetipica balena classica (imparentata con il “grande pesce” del profeta Giona, e da cui discendono più recenti “grandi pesci” letterari come l’orcaferone di Horcynus orca di D’Arrigo, o il Terribile Pesce-cane di Pinocchio) mostra che le balene nel Mediterraneo non sono mai state un’osservazione comune, che le culture mediterranee non sono mai giunte ad interfacciarvisi come ad una risorsa naturale di uso frequente, e che molto probabilmente, comunque, non ce ne sono mai state abbastanza da sostenere una vera e propria industria; e che, conseguentemente, immaginare i mari greci e siciliani solcati dalle poderose schiene di branchi di immensi cetacei non è altro che un legittimo ma inconcludente volo di fantasia. La scomparsa delle balene franche boreali e delle balene grigie dal Mediterraneo rimane molto probabilmente la conseguenza della caccia da parte dell’uomo; ma è verosimile che quegli animali fossero abbastanza pochi e abbastanza vulnerabili da essere suscettibili anche ad un prelievo occasionale, senza il bisogno di ipotizzare un’industria baleniera romana che verosimilmente non è mai esistita.

Immagine ripresa liberamente da wikipedia.org

Ultima modifica il Giovedì, 26 Luglio 2018 19:08
Joachim Langeneck

Joachim Langeneck, dottorando in biologia presso l'Università di Pisa, nasce a Torino il 29/11/1989. La sua ricerca si concentra principalmente sullo studio di processi evolutivi negli invertebrati marini, con sporadiche incursioni nell'ambito dell'etica della scienza, in particolare a livello divulgativo.

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