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Lunedì, 16 Luglio 2018 00:00

Il pappagallo bianco di Federico II tra storiografia e provincialismo

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Il pappagallo bianco di Federico II – Una breve immersione nella storiografia provinciale

Nelle ultime due settimane è giunta alla ribalta una notizia apparentemente rivoluzionaria per quanto riguarda la storia medievale; un esame approfondito di una copia del trattato “De arte venandi cum avibus” (il cui originale, ad oggi perduto, era attribuito allo stesso Federico II, ma probabilmente non è autografo) ha rivelato la presenza tra varie miniature di tipici uccelli europei di un cacatua dalla cresta gialla, Cacatua sulphurea, uno degli uccelli emblematici del continente australiano.

La maggior parte delle versioni rivolte al grande pubblico è caratterizzata da toni sensazionalistici e da un lessico che implica che la storia medievale debba essere ampiamente riscritta, in particolare per quanto riguarda le conoscenze geografiche degli europei medievali. Il pappagallo bianco di Federico II, finora trascurato dai medievisti, secondo queste versioni sarebbe la chiave per una rivoluzionaria revisione della storiografia medievale. Val la pena di spiegare perché non è così, e perché questa lettura è figlia di una visione provincialista della storia umana, assolutamente anacronistica in un contesto globalizzato come il nostro.

Per cominciare, non solo il cacatua di Federico II è noto ai medievisti da decenni, come peraltro affermano gli stessi autori dello studio; se vi erano incertezze, erano sulla precisa attribuzione specifica del pappagallo in questione, ma in nessun modo era stato messo in discussione che fosse un pappagallo tipico dell’Australasia e fosse arrivato alla corte di Federico II. È grazie alla precisione cronachistica dello stesso Federico che possiamo ricostruire almeno l’ultima parte dell’inconsueto viaggio del pappagallo, che arrivò in dono dal sultano d’Egitto al-Malik Muhammad al-Kamil, presumibilmente tra il 1228 e il 1230, quando i due monarchi erano impegnati, principalmente per ragioni diplomatiche, in un intenso scambio di animali – è da rimarcarsi che stando alle fonti al-Kamil ricevette un pregiato girfalco d’Islanda, all’epoca considerato il miglior rapace per la falconeria, e un orso bianco, il che mostra da parte di Federico II uno sforzo almeno pari a quello di al-Kamil nel procurare creature rare e meravigliose per il proprio serraglio e per farne dono.

Il cacatua di Federico II è quindi una realtà storica, e l’accurato esame dei disegni nel “De arte venandi cum avibus” rappresenta una conferma, ma non molto di più. Ma da qui ad affermare che l’Australia era già stata scoperta quattrocento anni prima della sua scoperta “ufficiale” ce ne corre; è infatti implausibile che il cacatua provenisse dall’Australia continentale, mentre è molto più plausibile che provenisse in origine dall’attuale Indocina, che rappresenta il limite settentrionale della distribuzione di questa specie. Inoltre, questa specie era già popolare da diversi secoli come animale da compagnia nella Cina imperiale, per la sua bellezza, ma soprattutto la sua intelligenza e la capacità di imparare alcune parole; è quindi possibile, in linea di principio, che il cacatua in questione sia già nato in cattività in un’area molto più semplice da raggiungere dell’Australasia.

Tanto gli arabi quanto i cinesi avevano, all’epoca, delle tecniche di navigazione decisamente più avanzate degli europei, e delle rotte commerciali più ampie e affidabili; per quanto in questo periodo l’impatto sulle culture europee dei commerci con l’Oriente sia ancora limitato, queste vie si stanno per aprire, e sebbene per diverse generazioni ancora saranno sostanzialmente deputate al commercio di beni di lusso, si tratta comunque di un enorme cambiamento di prospettiva rispetto a circa un secolo prima, in cui tutto ciò che si trovava ad est della Mesopotamia era considerato sostanzialmente una terra poco men che mitologica. Va rimarcato, comunque, che i commerci tra il Medio Oriente musulmano e la Cina imperiale erano aperti da secoli, che l’Indonesia in particolare era una regolare meta commerciale per gli arabi fin dall’ottavo secolo dopo Cristo, e che uno scambio di questo tipo non deve sorprenderci.

Mentre il continente australiano, dopo la prima colonizzazione dall’Asia meridionale, sembrerebbe essere rimasto relativamente indisturbato fino al 1600, è comunque possibile che l’Australasia sia stata più o meno regolarmente visitata da almeno due culture – la cultura cinese e quella araba, che all’epoca erano provviste delle tecnologie e delle conoscenze necessarie per un viaggio che per un europeo era praticamente impensabile – e lo sarebbe rimasto per un altro paio di secoli. Nemmeno questa è una nozione particolarmente nuova, e può sorprendere soltanto chi, cresciuto in una prospettiva storiografica eurocentrica quanto ingenua, parta dal presupposto che la nostra cultura, e soprattutto la sua classe egemone, sia sempre stata l’avanguardia dell’umanità.

Il pappagallo bianco di Federico II testimonia a favore delle capacità diplomatiche e commerciali di una civiltà: quella araba Ayubbide; riguardo all’Europa dice semplicemente che un potente sovrano europeo era in grado di riconoscere i vantaggi della diplomazia nei confronti di una civiltà presentata come un nemico storico, ma non è inopportuno aggiungere che, mentre i dotti europei e arabi si scambiavano trattati, nozioni, letteratura e matematica, Federico II fu sostanzialmente l’unico governante europeo a prendere sul serio questo contatto anche dal punto di vista politico.

Il sensazionalismo costruito intorno al cacatua di Federico II è sostanzialmente la conseguenza di una storiografia provinciale, basata sull’eurocentrismo con cui ci sono state trasmesse date, nomi e accadimenti, senza inquadrarli in un discorso di maggior respiro, che tenga conto di processi globali (che sono sempre esistiti nella storia dell’umanità, se pure su scale temporali più lente rispetto ad oggi) e di meccanismi economici. Il principale problema del nostro sistema educativo, in particolare in riferimento alla storia, è che, dopo essere stato strutturato in piena epoca coloniale, non è mai stato sottoposto a revisione. Una versione assolutamente faziosa e irrealistica della storia, che presenta le civiltà occidentali come la continua punta di diamante della cultura umana, ha ormai perso il suo significato ideologico, ma continua ad essere presentata come una realtà di fatto.

La storia delle grandi esplorazioni è un tema emblematico di questa stortura: nulla esiste realmente fino a quando non lo scoprono degli europei, e se possibile una spedizione ufficiale sovvenzionata da una potenza nazionale – per fare un accenno ad un altro periodo presentato sistematicamente in una luce irreale, prima di Cristoforo Colombo il continente americano era già stato scoperto da almeno due popoli europei in maniera indipendente, dai vichinghi islandesi e dai pescatori baschi; più che ad una reale assenza di informazioni, la loro sistematica svalutazione deriva dall’impossibilità di trasformare queste scoperte in potere politico.

A questo deve essere aggiunto che l’articolo originario, e i commenti originali degli autori riportati da testate giornalistiche australiane, non condividono questo provincialismo storico. Anzi, per quanto il pappagallo appartenesse a Federico II, il punto focale dell’articolo è per l’appunto la civiltà araba Ayubbide, la sua potenza commerciale e le sue capacità diplomatiche, tali da far sì che un sovrano potesse ricevere orsi bianchi dall’Islanda e pappagalli dall’Indonesia senza muoversi dal suo palazzo in Egitto. La necessità di insistere sugli aspetti sensazionali serve ad ottenere più visite e più click (cioè a vendere di più), ma deriva anche dalla scarsa formazione, e dall’ancor più scarsa disponibilità a consultare un esperto, che mostra la maggior parte dei giornalisti. Questo, beninteso, non è un problema limitato alla divulgazione in ambito storico, ma permea qualsiasi tentativo di divulgazione scientifica da parte di non addetti ai lavori.

Il pappagallo bianco di Federico II è un caso paradigmatico di questa storiografia provinciale ed eurocentrica, e deriva da una rappresentazione del Medioevo come un’epoca buia ed uniforme, di completa perdita della cultura umana, da cui l’umanità è riuscita ad uscire solo grazie agli sforzi intellettuali e tecnologici del Rinascimento. Sappiamo, oggi, che questa narrazione è falsa; che intere civiltà hanno avuto una cultura avanzatissima proprio in quei “secoli bui”; che hanno contaminato la loro cultura con la cultura occidentale, e viceversa; che il Medioevo occidentale, se pure arretrato rispetto al Medio Oriente e all’Estremo Oriente contemporanei, era tutto men che intellettualmente torpido; che le merci, gli uomini, le idee, le informazioni viaggiavano e si mescolavano. Sarebbe il momento di superare questa visione stereotipica della storia umana in generale, e del Medioevo in particolare. Inquadrandolo in un contesto storico meno provinciale e meno stereotipico, il pappagallo bianco di Federico II risulta magari meno sconvolgente, ma ci permette di aprire gli occhi su un Medioevo affascinante, complesso e di cui si parla troppo poco.

 

Immagine ripresa liberamente da theguardian.com

Ultima modifica il Sabato, 14 Luglio 2018 18:39
Joachim Langeneck

Joachim Langeneck, dottorando in biologia presso l'Università di Pisa, nasce a Torino il 29/11/1989. La sua ricerca si concentra principalmente sullo studio di processi evolutivi negli invertebrati marini, con sporadiche incursioni nell'ambito dell'etica della scienza, in particolare a livello divulgativo.

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