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Mercoledì, 06 Maggio 2015 00:00

Il motore della Storia - Intervista a Gallori

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In vista dell'iniziativa di presentazione del progetto "Ritorno al passato", pubblichiamo quest'intervista a cura di Alessandro Zabban

Il motore della storia.
Intervista a Ezio Gallori


1) Hai attraversato anni di grande cambiamento per il Paese, che hanno riguardato anche il mondo del lavoro. Com'è mutata la figura del sindacalista?

Il sindacalista di prima era un personaggio che innanzitutto lavorava, oggi invece la sua figura si è professionalizzata. Per alcuni è diventato un modo per fare carriera: alcuni rappresentanti dei lavoratori sono diventati deputati o dirigenti di azienda (non parlo solo di Moretti, il caso più noto, che è passato dalla Filt-Cgil a dirigere le Ferrovie dello Stato, per poi passare recentemente a Finmeccanica). 

Non voglio dire che si devono precludere le carriere ai sindacalisti, ma sottolineare come sia mutato un ruolo e conseguentemente siano mutate alcune priorità. C'è anche un discorso legato al contesto. Prima lottavamo per lavorare di meno e, dove possibile,  guadagnare di più. Adesso fanno lavorare di più, pagando di meno, sotto la minaccia della perdita di lavoro, con i sindacati che subiscono questo ricatto quasi con timore

C'è stata una mutazione genetica del sindacalista. Ai miei tempi eravamo i primi ad essere licenziati, non ci percepivano come dei burocrati che vivono al di sopra dei lavoratori. 

Non sono mai stato alle scuole sindacali, ma ho sicuramente imparato molto dai sindacalisti che avevo intorno quando sono entrato in ferrovia. Mi ricordo la prima lezione, del 1960. All'epoca ero iscritto al Partito Socialista, realtà ben diversa da quella che è diventata nei decenni successivi. Alla Camera del Lavoro ammisi che non sapevo nulla di come si facesse il sindacalista. Mi risposero: "è facile, è il mestiere più semplice del mondo, perché quando il padrone dice di sì, noi dobbiamo dire di no e viceversa". 

Questo non significava che non dovevamo firmare nulla. Anzi, ho raggiunto più volte degli accordi con le Ferrovie, solo che partivamo da posizioni chiare e i ruoli rimanevano ben distinti

La favola per cui il lavoratore sta meglio quando sta meglio l'azienda è il rovesciamento della realtà: solo un lavoratore con i diritti e un buon salario è in grado di garantire la tenuta della realtà per cui lavora e di tutto il paese.

In questo ambito può essere istruttivo una testimonianza di tante battaglie e trattative. I problemi più grandi li ho avuti quando dall'altra parte c'erano dei ministri che si dicevano compagni (cito l'esempio di Burlando), mentre sono riuscito a firmare con il mangiaoperai Mortillaro. 

Sicuramente è cambiato il mondo del lavoro, ma non credo che sia indifferente il fatto che molti compagni siano poi diventati dirigenti aziendali, ministri, parlamentari, sostenendo che al padrone non si poteva più dire di no.

Per chiudere su questa prima domanda penso sia utile ricordare una pratica del passato, a titolo esemplificativo. Per essere membri del comitato sindacale e potersi anche solo candidare, bisognava aver fatto prima due anni nel  Comitato Attivisti Sindacali, una sorta di gavetta, che consisteva nel passare ogni mese con il bollino a raccogliere le adesioni al sindacato (ognuno di noi rispondeva di 50 lavoratori).

2) L'esperienza del Coordinamento Macchinisti Uniti (Co.MU) è stata una sorta di eccezione rispetto ai sindacati del '900, sopravvissuti nel nuovo millennio. Cosa ha rappresentato? 

Fino agli anni ’70 c’erano delle commissioni interne che regolavano la vita sindacale all’interno dei vari impianti (al fianco dell’organizzazione verticistica).

Uno dei passaggi più belli che abbiamo attraversato è stato quello dei Consigli dei Delegati. Con queste realtà la democrazia nei luoghi di lavoro aveva registrato un notevole passo in avanti (erano un'evoluzione delle Commissioni Interne). I sindacati confederali (Cgil, Cisl, Uil) si resero conto che il controllo gli stava sfuggendo di mano, soprattutto rispetto alle loro divisioni di vertice. La scelta di esautorare le RSU dai processi decisionali ha segnato un momento di rottura nel mondo del lavoro e forse da lì si può leggere l'inizio di una fase che ha portato alle sconfitte degli ultimi decenni.

Ai Consigli dei Delegati si scelse di togliere potere, rimettendo ogni proposta di sciopero al vaglio delle segreterie confederali. Non erano più i lavoratori a dichiarare le lotte, ma i vertici delle loro organizzazioni.

A Firenze, nel 1963, su 780 macchinisti, ce n'erano 300 iscritti al Partito Socialista e 280 iscritti al Partito Comunista. La massa dei lavoratori aveva quindi una fede politica, collocata inequivocabilmente a sinistra. Questo era l'ambiente in cui ci eravamo formati

Un anno la triplice esautorò lo SMA (Sindacato Macchinisti e attività ferroviarie) e chiese ai suoi iscritti di votare secondo il principio per cui quelli della Cgil votavano la Cgil, quelli della Cisl votavano la Cisl e quelli della Uil votavano la Uil. Io (da iscritto Cgil) e altri ferrovieri di Firenze firmammo un appello in cui invitavamo i lavoratori a una doppia votazione, cioè a partecipare sia a quella confederale che a quella dello SMA. La Camera del Lavoro ci annunciò che saremmo stati sottoposti a processo. Peccato che i primi sei firmatari dell'appello risultarono i primi sei eletti nel Consiglio dei Delegati e quindi il sindacato decise di lasciar perdere. 

Abbiamo tentanto di resistere all'esautorazione delle RSU, ma non è stato un percorso pacifico e semplice.  Alcuni delegati della CGIL iscritti al PCI volevano organizzarsi in un “sindacato rosso”, con una sorta di scissione. Mi opposi, perché tra i lavoratori c'erano tante sfumature e sensibilità, anche tra quelli che si ritenevano di sinistra.

Il giornale In Marcia era stata una bandiera dei macchinisti dal 1908. Nel 1979 la Cgil decise di chiuderlo, perché era troppo libero. Il metodo scelto fu democratico. Si chiese tra tutti i lavoratori se ritenevano utile mantenere una rivista di categoria, chiedendo quindi a tutti i ferrovieri di esprimersi su una cosa che riguardava però principalmente i macchinisti (sempre guardati con un po' di invidia, o comunque gelosia, dalle altre categorie di lavoratori delle FS). 

Quindi quando mi proposero di creare un altro sindacato rifiutai, facendo invece rinascere il giornale, che dal primo numero si pose il problema di ritrovare l'unità dei macchinisti su dei valori di classe. Era il 1982.  Per 5 anni abbiamo lavorato in questo modo. Nell’87 cominciammo a dichiarare degli scioperi, sulla base di una regola che prevedeva di raccogliere preventivamente almeno l’80% di adesioni tra i lavoratori. Partimmo da Venezia, fino a far scioperare 9 compartimenti (su 15). 

Nel 1981 con i Consigli dei Delegati avevamo firmato degli accordi favolosi. Smobilitato il personale in lotta, i sindacati andarono dall'azienda ad annullare quelle conquiste. Sapevamo quindi di dover ottenere un riconoscimento autonomo rispetto ai confederali. Ci sono voluti 31 scioperi, prima di essere accettati come controparte. Fu il Parlamento ad arrendersi e riconoscere l'esistenza del Co.M.U., una realtà  che ancora non avevamo legalizzato.

Le strutture bisogna verificarle, non inventarleFu fatto un referendum, con cui 13.000 macchinisti si espressero per la nascita del Coordinamento. Anche io mi convinsi che era necessario fare un passo in avanti, nonostante venissi della Cgil, che consideravo la mia mamma. Comunque essere iscritti al Co.M.U. non implicava la revoca dall'altro sindacato, si poteva avere la doppia tessera.

Tra le cose più significative della nostra realtà c'è stato lo statuto, che ricordava i soviet e i consigli di fabbrica. Decidemmo di sospenderlo e di rimetterlo in discussione dopo le lotte, anziché strutturarci prima ancora di partire con il nuovo percorso di lotte. Se ci siamo costituiti con un atto notarile è stato perché l'azienda aveva bisogno di un interlocutore formalmente riconoscibile. 

Avevamo tentato delle strade per impedire la formazione dei ceti burocratici, propri di ogni organizzazione sindacale o politica. Ad esempio nessuno poteva essere distaccato e tutti rimanevamo tra i lavoratori. Dopo una decina di anni qualcosa iniziò a incrinarsi, ma questa è un'altra storia, per cui mi fermo qui.

3) Ci permettiamo anche una domanda forse più naïf. Qual'è stato il momento di lotta sindacale che ti ha regalato maggiori soddisfazioni?

Non è facile rispondere. La lotta di per sé era un momento di soddisfazione. Nella mia vita ho partecipato a 181 scioperi, molti dei quali ho direttamente organizzato. Non erano sempre dei colpi di cannone, abbiamo anche sparato colpi di rivoltella, comunque micidiali. Scioperi di cinque minuti causavano comunque enormi danni all'azienda (quindi non sono stati 181 giorni di sciopero). Non a caso la legge 146/1990, che riguarda il diritto di sciopero, è stata fatta contro di noi. Hanno inziato a parlare di diritto degli utenti e a nascondere dietro un'apparente tutela della democrazia la cancellazione del diritto allo sciopero. Oggi anche uno sciopero che ottiene l'80% di adesioni rischia di passare inosservato. Nelle commissioni di garanzia sugli scioperi (una delle novità introdotte negli anni '90) persino Rifondazione Comunista, il partito teoricamente più vicino alle lotte e agli scioperi, non ha mai messo lavoratori, ma piuttosto avvocati e altre figure professionali che non si sono riuscite ad opporre alla degenerazione a cui siamo arrivati.

Più che la maggiore soddisfazione a livello individuale, posso dirvi qual'è stato il maggiore successo che abbiamo ottenuto. Con la contrattazione sindacale del 1992 abbiamo conquistato un contratto impensabile fino a pochi anni prima e decisamente all'avanguardia rispetto al punto a cui siamo ritornati oggi

Non era solo una questione di salari (con lo stipendio quasi raddoppiato) e di orari di lavoro. Avevamo ottenuto il riconoscimento di nuovi diritti, prima non previsti.  Il punto centrale fu però quello di riuscire a trascinare tutti i ferrovieri, ottenendo una vittoria non esclusiva per i macchinistiAvevamo dimostrato quanto sosteneva Foa, mentre oggi viene negato quasi da tutto il sistema politico e dell'informazione. Non è vero che le conquiste di pochi vanno a danno dei molti. Si tratta di sfondare sul terreno della lotta, così da aprire il campo anche agli altri. Più diritti e più salario per i macchinisti costrinsero i sindacati ad ottenere analoghi miglioramenti per gli altri lavoratori delle ferrovie. Il nostro punto di forza era che fermavano i treni. Con il nostro vantaggio siamo riusciti a garantire anche gli altri. L'opposto della guerra tra poveri che ci viene proposta oggi (pensate a quelli che vogliono mettere in contrapposizione i pensionati con i precari).  

Il padrone non è mai sazio, sta al lavoratore lottare per avere sempre maggiori diritti. Lui dice di no e noi diciamo di sì. Ci siamo mossi sempre fedeli a questo insegnamento. Dopo le conquiste del 1992 mi invitarono persino a un pranzo  con dei membri dell'ambasciata statunitense, per capire come avevamo fatto a scardinare il sistema.

Ci tengo a ricordare un ultimo episodio. Credo che siamo stati gli unici a scioperare contro la Guerra del Golfo. Riuscivamo a tenere insieme le rivendicazioni della categoria con le lotte politiche più generali, senza mai legarci a partiti o vertici sindacali, ma sempre partendo dalla partecipazione e dalla lotta dei lavoratori.

4) Il Partito Comunista Italiano occupa la memoria diffusa del paese quando si parla di sinistra. Tu però non ne hai mai fatto parte.

Ero un libertario prima e lo sono oggi, tanto è vero che non ho mai goduto di grandi simpatie nei partiti. Un'eccezione forse c'è stata, all'inizio, nel PSIUP. Poi quel partito si è diviso. In seguito ho attraversato Democrazia Proletaria, in cui c'è sempre stato di tutto. Ho sempre cercato un rapporto genuino con il movimento. Nel Comune in cui sono stato consigliere comunale furono inquisiti due sindaci del PCI, bruciati nel modo più assoluto, non tanto perché avevano allungato la mano quanto perché avevano dato il pretesto per allungarla. Tutto quello che abbiamo ottenuto è stato a viso aperto, senza mai cercare favori. Forse per questo ci ricordano poco volentieri.

Ultima modifica il Martedì, 05 Maggio 2015 15:44
Alessandro Zabban

Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all'arte in tutte le sue forme.

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