Venerdì, 02 Novembre 2018 00:00

Dalla lotta contro gli stereotipi di genere alla prevenzione della violenza – parte I

Scritto da
Vota questo articolo
(8 Voti)

Un incontro con Elisa Guidi e Fiorella Tonello

Nel mese di ottobre a Montelupo Fiorentino si è svolto il progetto CITIES-CAFÉS, il laboratorio di cultura e cittadinanza, con la rassegna “Voci e colori in città”, ovvero una serie di incontri su tematiche molto attuali alla presenza di esperti di vari settori. Considerato il successo dell’edizione precedente Montelupo ha voluto scommettere nuovamente su questa interessante rassegna invitando ospiti di rilievo per sviluppare riflessioni sulla politica al tempo dei populismi, sul destino dell’ex ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo, sui cambiamenti climatici e il loro impatto sul nostro pianeta e sulle nostre vite, l’immigrazione e le motivazioni che spingono gli esseri umani a lasciare i propri paesi, l’agricoltura e l’alimentazione sostenibili, o, sulla violenza e gli stereotipi di genere e le strategie preventive per contrastarli.

Cifra caratterizzante gli incontri è stata la volontà di evitare le semplificazioni, mirando a scandagliare e approfondire, grazie alla presenza di esperti, temi complessi dell’attualità. Altro elemento topico della rassegna è la tensione, il rapporto tra il particolare e il generale: temi che sembrano di portata strettamente locale – come la discussione sull’ex Opg di Montelupo – diventano problematica macroscopica – il destino degli ospiti dei manicomi psichiatrici dopo la loro chiusura è tema che riguarda tutto il territorio nazionale – o, viceversa, tematiche universali come quella dell’immigrazione e dell’integrazione toccano profondamente e da vicino la propria comunità locale e il proprio territorio, che dovrebbe mettere in atto misure miranti a favorire l’accoglienza delle persone straniere e le loro possibilità di radicamento e coinvolgimento nella vita sociale e cittadina della comunità locale.

Questo articolo prende spunto da uno degli incontri incentrato sulla prevenzione e il contrasto agli stereotipi di genere e alla violenza di genere, problematica che sicuramente abbraccia, interscambiandoli, particolare e universale, di cui hanno parlato Elisa Guidi e Fiorella Tonello sabato sei ottobre presso la Casa del Popolo Erta di Montelupo. Titolo della interessante conferenza “Contrastare la violenza sulle donne attraverso la promozione dell’uguaglianza di genere. Sradicare gli stereotipi come strategia preventiva”. Tematica sempre urgente e di cui è sempre necessario parlare e porre all’attenzione dei cittadini perché ancora oggi gli episodi di violenza, fisica e/o psicologica sulle donne non sono certo finiti, come ci ricorda quasi ogni giorno la cronaca, sebbene la maggior parte degli abusi avvenga entro le mura domestiche, mentre i casi delle donne stuprate e uccise che diventano icone di questo tragico fenomeno e che vengono spesso strumentalizzati dalla politica (l’ultimo caso è quello della giovane Desirée) sono una minoranza.

Ancora oggi, nel XXI secolo il corpo della donna non smette di essere spazio pubblico, oggetto politico su cui intervenire, da giudicare, da possedere, da disprezzare; da cui viene strappata autonomia e indipendenza, e su cui vengono proiettati pregiudizi e stereotipi, asserzioni che diventano atti performativi e non più solo descrittivi. Corpi su cui vengono cucite rappresentazioni e costruzioni simboliche senza tener conto della libertà della donna e della sua identità di persona. La violenza trova le sue radici nella concezione del genere, della differenza di genere e sul modo di considerare non solo le donne ma tutte le minoranze sessuali, che deriva dall’esistenza di modelli basati sull’eteronormatività e sull’opposizione di maschile e femminile, sui criteri di normalità e anormalità – derivanti dalla medicina, la psichiatria, la psicologia, le convenzioni umane…), scartando fuori tutto ciò che non è inquadrabile perfettamente in queste tematizzazioni, in queste definizioni che diventano strutturanti un certo tipo di realtà, diventano norme che agiscono sui corpi e sui soggetti.

È tristemente recente la notizia dell’approvazione, in Consiglio Comunale di Verona, del decreto “pro life” che di fatto criminalizza l’aborto e le donne che vorrebbero ricorrere a tale pratica. Pratica che, ricordiamolo, è stata una grande conquista civile, politica e culturale, per le donne in primis ma anche per l’affermazione di diritti che interessano l’intera collettività e che ha trovato legittimazione istituzionale con la legge 194 del 1978. È quasi incredibile pensare che esistano politici che ritengono ancora che l’unica prerogativa della donna sia fare figli, che essere madre e moglie sia la sua unica natura; politici che affermano che le donne che vorrebbero abortire vadano “obbligate a non farlo” (parole del ministro Fontana), che in maniera totalmente astorica, anacronistica, affermano la naturalità della famiglia formata da una coppia composta da un uomo e una donna e che, anziché riconoscerla come assetto sociologico, storico e culturale che muta nel tempo e che è concepita diversamente da altre culture (segno, anche questo del relativismo culturale del concetto di famiglia negando la sua presunta naturalità), disconoscono qualsiasi altro tipo di famiglia. Spaventa che in una società che la nostra Costituzione sancisce come laica, negli ospedali pubblici sia presente una percentuale altissima di medici obiettori e agisca una forte pressione psicologica e colpevolizzante nei confronti delle donne che vogliono interrompere la loro gravidanza.

Sembra di tornare ai tempi in cui la caccia alle streghe e agli eretici era “giustificata” da un potere della Chiesa e della religione che oggi, nelle società occidentali laiche dovrebbero dismettere il proprio ruolo e lasciar cadere la propria ingerenza quando si tratta di politiche civili, sociali, economiche, culturali. O per lo meno, non stupisce che la massima autorità ecclesiastica sia contraria all’aborto o al matrimonio omosessuale (sebbene espressioni come quelle usate da papa Francesco riguardo ai medici che praticano l’aborto, definiti come sicari, siano aberranti), quello che però è maggiormente inaccettabile è che la politica sia condizionata dalla rigidità cattolica, da una mentalità oscurantista, bigotta, rigidamente chiusa alle conquiste di civiltà e all’evoluzione dei tempi che rende totalmente anacronistiche, oltre che profondamente discriminatorie e irrispettose della dignità e della possibilità di felicità di gruppi di esseri umani, politiche contrarie all’interruzione di gravidanza, politiche “pro-life”, politiche omo-transfobiche, politiche contrarie al matrimonio omosessuale o all’adozione da parte di coppie omogenitoriali.

Tutto questo accade ancora oggi perché di fatto la nostra società e la nostra cultura, oltre ad essere ancora plasmate da un retaggio esasperatamente cattolico e bigotto, sono ancora società patriarcali intrise di sessismo, maschilismo, machismo; sono società fondate sul modello eteronormativo (il sesso, l’identità sessuale viene pensata a partire solo dall’eterosessualità) e sul binarismo di genere. Bigottismo, machismo, eteronormatività, sessismo e binarismo di genere creano un amalgama profondamente pericoloso e lesivo delle libertà delle donne e di ogni altra minoranza, se per minoranza intendiamo ciò che si oppone al modello predominante, che è ancora quello patriarcale ed eteronormativo, il modello dell’uomo bianco eterosessuale e possibilmente ricco che richiama il vecchio homo oeconomicus. Un apparato ideologico così strutturato va a cementificare stereotipi e pregiudizi che finiscono per radicarsi nelle mentalità, nei sistemi di pensiero, nella visione del mondo, nella Weltanschauung della nostra società, nei suoi comportamenti e nelle reazioni di fronte a determinati comportamenti discriminatori o particolarmente lesivi e violenti.

Oggi i sopra citati provvedimenti “pro life”, i manifesti che in maniera ignobile fanno apparire come vittime di sfruttamento o addirittura come prodotti di mercato bambini allevati da coppie omogenitoriali, fino ad arrivare a violenze quotidiane sulle donne (il tasso di femminicidi, soprattutto nella sfera domestica, è ancora molto elevato) o sulle minoranze sessuali (si pensi a tutti i casi di ragazzi omosessuali che vengono picchiati, ma che purtroppo fanno meno scalpore e trovano minor spazio sulle cronache dei media mainstream sul caso della ragazzina stuprata, senza nulla togliere alla sua estrema gravità ovviamente), sono segnali allarmanti di un sistema di credenze e valori oscurantista, oppressivo, maschilista e machista; sono sintomi di una visione del mondo limitata, ristretta, incapace di assecondare il progresso sociale e culturale e le conquiste fatte in ambito di diritti civili, incapace di aderire a una realtà che esiste e che solo persone bigotte, ignoranti, maschiliste e violente non riescono a vedere né tantomeno ad accettare.

Sono stati i pregiudizi nei confronti delle donne a provocare la loro forte subalternità in ogni ambito, a radicare nel pensiero di molti uomini, ma anche in quello delle donne stesse, la convinzione della loro inferiorità mentale biologica o della loro inadeguatezza a certe professioni ritenute di ambito esclusivamente maschile (come la scienza, ma anche la scrittura) o che le hanno relegate nella dimensione privata a scapito di quella pubblica per molto tempo. Tutt’oggi, anche se progressi, fortunatamente, ci sono stati, questi pregiudizi e retaggi di convinzioni simili permangono ancora e la parità di diritti non è stata raggiunta (si pensi ai livelli di stipendio delle donne, più bassi di quelli degli uomini nella gran parte dei paesi occidentali, o alla mancanza di diritti fondamentali in quasi tutti i paesi medio orientali), così come non ancora inquinata da tali pregiudizi risulta la percezione delle donne per molte persone di sesso prevalentemente maschile – tanto per citare un esempio recente, basti leggere le dichiarazioni riguardo al rapporto tra donne e fisica, o più in generale scienza, del fisico Marco Strumia durante una presentazione al Cern.

Ancora oggi dunque sulle donne, così come su altre “categorie” in posizione di minorità (omosessuali, transessuali, intersessuali etc…), agiscono stereotipi performativi e ingabbianti la complessità e la pluralità delle infinite possibilità di espressioni umane. Un quadro, quello degli stereotipi di genere e della violenza che in gran parte da essi deriva, che ha ben mostrato Elisa Guidi, che ha fatto luce anche sul significato preciso di termini come stereotipo e pregiudizio. Guidi è studiosa di psicologia sociale e di comunità, docente a contratto presso l’Università degli Studi di Firenze, vice presidente di LabCom e vincitrice del prestigioso riconoscimento per la migliore tesi di dottorato sul contrasto alla violenza contro le donne per il 2017, promosso dalla Delegazione parlamentare italiana presso l’Assemblea del Consiglio d’Europa, organizzazione internazionale che promuove i diritti umani e l’identità culturale europea.

Guidi ha portato il fenomeno della violenza di genere attraverso una ricerca metodologica, analitica e sperimentale parte dei suoi studi sul tema, concentrandosi prevalentemente sul tema degli stereotipi che agiscono ancora così prepotentemente non solo sul corpo e la personalità delle donne ma che affondano le proprie radici nell’intera collettività di donne e uomini, finendo per essere interiorizzati e agiti in maniera quasi inconsapevole, come se descrivessero una vera e propria realtà anziché una sua estrema semplificazione, quando non addirittura una sua deviazione. Per questo, secondo Guidi, un lavoro sugli stereotipi può essere un primo passo, un primo atto di strategia preventiva per contrastare il fenomeno della violenza di genere. La psicologa propone tre concetti chiave strettamente collegati e richiamantesi tra loro, l’uno conseguenza dell’altro: stereotipo, pregiudizio e discriminazione.

Per stereotipo si intende una credenza ampiamente diffusa su alcuni gruppi: ha una funzione descrittiva ma anche prescrittiva sul comportamento di alcuni grippi umani. La funzione dello stereotipo può essere del tutto neutra o addirittura positiva, in quanto possono essere utili a orientarci nel mondo, fungono da punti di riferimento che ci permettono di individuare contesti che possono ad esempio farci sentire a nostro agio e contesti che invece impariamo, anche sulla base di semplificazioni, ad evitare. Insomma, senza semplificazioni sarebbe molto più complesso vivere e sarebbe anche difficile dare una descrizione di se stessi e degli altri, sebbene queste non possano mai ridursi a degli stereotipi.

Lo stereotipo assume una radicale negatività quando la sua funzione diviene quella di esercizio di potere e di controllo su gruppi di persone. Il primo passo è dunque quello di riconoscere e ammettere l’esistenza di stereotipi che condizionano il nostro vivere in società, ma esser consapevoli della loro potenziale pericolosità laddove lo stereotipo diventa l’unico metro di giudizio e di controllo di determinati gruppi umani o anche individui singoli fino a giustificare in nome di estreme semplificazioni che assumono valore asseverativo, assertivo, azioni violente o discriminanti nei loro confronti.

Dallo stereotipo deriva il secondo termine chiave, ovvero quello di pregiudizio. Con quest’ultimo si intende un atteggiamento negativo verso altri basato unicamente sulla loro appartenenza di gruppo. Il sessismo ad esempio è un tipo di pregiudizio nei confronti delle donne. Infine, dal pregiudizio che resta di per sé una situazione mentale, un sistema di pensiero, si arriva alla discriminazione vera e propria, che è l’atto del pregiudizio in potenza. Il pregiudizio è potenzialmente fonte di discriminazione e quando essa accade, si manifesta in tutta la sua pericolosità, in tutta la sua aberrazione, in tutta la sua violenza, che si tratti di una violenza verbale, psicologica o di una violenza fisica. Per discriminazione si definisce pertanto l’effettivo comportamento volto ad escludere, emarginare, isolare, ledere alcuni gruppi e può essere interpersonale, collettiva o istituzionale.

La convenzione di Istanbul, approvata dalla dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 7 aprile 2011 e che costituisce il primo grande traguardo a livello di normazione europea sulla prevenzione e il contrasto alla violenza sulle donne e alla violenza domestica, all’articolo 3 introduce termini e concetti chiave, come quello di violenza diretta verso un gruppo preciso di individui – le donne – trattandola come violazione dei diritti umani: la violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione nei confronti delle donne e si intendono tutti gli atti di violazione di genere che determinano o sono suscettibili di provocare danno fisico, sessuale, psicologico o economico o una sofferenza alle donne, comprese le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica o privata”. Inoltre per la prima volta il concetto di genere trova una sua collocazione e una sua tematizzazione precisa, marcando il suo aspetto di costrutto sociale: con genere si intendono “ruoli socialmente costruiti, comportamenti, attività e attributi che una data società ritenga appropriato per le donne e gli uomini.”

Sebbene la Convenzione di Istanbul sia un grande passo in avanti, rimane elevato, a livello internazionale, il grado di diseguaglianza di genere. Secondo un’indagine volta a valutare gli indici di eguaglianza di genere considerandola in otto domini (settori) principali, ovvero lavoro, denaro, conoscenza, tempo e salute, l’Italia si posizionava alla 26esima posizione nel 2005, dunque una posizione piuttosto bassa, sebbene nel 2015 sia salita fino ad arrivare al 14esimo posto. Inoltre in una scala di misurazione che va da 1 a 100, dove 1 rappresenta la massima differenza di genere mentre 100 l’eguaglianza perfetta, l’Italia si posiziona al 62,2, la Grecia solo al 50 mentre la Svezia all’82,6, coprendo perciò una delle posizioni migliori.

Questi parametri sono utili agli stessi Paesi per poter valutare il proprio grado di discriminazione di genere e possibilmente intervenire, con politiche miranti a ridurre il grado di differenza di genere e arrivare a livelli di eguaglianza migliori, che permettano una parità di diritti, di opportunità e persino spazi di vivibilità più accessibili per tutti e tutte, indipendentemente dal proprio sesso. Cifre ancor più allarmanti sono fornite dall’ultimo rapporto Istat attestante la percentuale del ben 31% di donne comprese tra i 16 e i 70 anni che hanno subito una qualche forma di violenza fisica, sessuale o psicologica. Le forme più gravi di violenza risultano essere quelle perpetrate da partner o ex partner.

Esistono molti modelli che cercano di descrivere la violenza di genere e la violenza domestica nello specifico, Guidi ha scelto di seguire il modello ecologico dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Questo modello prende in considerazione e collega fattori individuali a quelli interazionali e soprattutto a fattori legati alla comunità e alla società in cui si vive: esistono infatti norme tradizionali legate al genere; norme sociali che in qualche modo, magari indirettamente e semi-consapevolmente, giustificano e in qualche modo legittimano la violenza. Siamo infatti bombardati di stereotipi che interiorizziamo e che dettano e performano i nostri comportamenti, determinano certe reazioni di fronte ad alcuni avvenimenti. Proprio per questo la prevenzione per contrastare il fenomeno della violenza partendo da un lavoro di sradicamento degli stereotipi costituisce una priorità dell’Unione Europea.

Un’efficace strategia preventiva è fornita dall’approccio bystander “che ha lo scopo di dare ai membri di una comunità un ruolo attivo nel ridurre il fenomeno, promuovendo un senso di responsabilità, fornendo competenze di aiuto […] e favorendo quindi un cambiamento delle norme sociali”. Un ruolo attivo da parte dei membri di una comunità contribuisce alla loro responsabilizzazione e alla sensazione di essere utili ed efficaci. Essenziale è fornire informazioni, strumenti e competenze per poter prevenire e contrastare il fenomeno.

[Continua nei prossimi giorni]

 

Immagine di TitiNicola ripresa liberamente da commons.wikimedia.org

Ultima modifica il Giovedì, 01 Novembre 2018 15:34
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

Devi effettuare il login per inviare commenti

Free Joomla! template by L.THEME

Questo sito NON utilizza alcun cookie di profilazione. Sono invece utilizzati cookie di terze parti.