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Lunedì, 14 Ottobre 2013 00:00

Unione Sovietica e Stalin (1922-53) - [parte 5/9]

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5. Il difficile equilibrio tra realismo politico e progetto utopista

La XVII° Conferenza del nostro partito ha affermato che uno dei compiti fondamentali per l'attuazione del secondo piano quinquennale consiste nel distruggere le sopravvivenze del capitalismo nell'economia e nella coscienza degli uomini. È un concetto assolutamente giusto. Ma possiamo dire di aver già superato tutte le sopravvivenze del capitalismo nell'economia? No, non possiamo dirlo. E tanto meno […] nella coscienza degli uomini. Non possiamo dirlo […] anche perchè esiste ancora un accerchiamento capitalistico, che si sforza di ravvivare e di stimolare le sopravvivenze del capitalismo nell'economia e nella coscienza degli uomini nell'URSS, e contro il quale noi bolscevichi dobbiamo tener sempre le polveri asciutte. È chiaro che queste sopravvivenze non possono non costituire un terreno favorevole per rianimare, nella testa di singoli iscritti al partito, l'ideologia dei gruppi antileninisti battuti.
(Stalin, Problemi della direzione politica e ideologica; 26 gennaio 1934)

 

Un'adeguata modalità di lettura dell'epoca staliniana dovrebbe tener conto sia dei compromessi ideologici (portati avanti per questioni contingenti e strutturali) nella costruzione dell'URSS, sia della volontà da parte del PCUS dapprima, del solo Stalin poi, di mantenere in vita un'alterità radicale rispetto ai sistemi capitalistici borghesi. Nel ventennio '20-30s si è quindi cercato di pervenire ad un difficile equilibrio tra le necessità imposte dal realismo politico (comprendente lo stato d'eccezione permanente) e la volontà di costruire effettivamente una forma di socialismo capace di restare agganciata all'ideologia del marxismo-leninismo. In questo capitolo ci concentreremo sulla politica interna portata avanti dal regime, sviluppando le problematiche della politica estera nel prossimo capitolo. Senza poter analizzare nella totalità i provvedimenti presi dalla dirigenza si è scelto di privilegiare quattro aspetti di analisi: una fenomenologia dei “Filosofi-Re” e dell'etica razionale che li contraddistingue; il nesso tra industrializzazione pianificata, collettivizzazione delle campagne e uso del terrore nella pacificazione della questione contadina; il progetto operaista e anti-intellettuale portato avanti da Stalin; il consenso popolare come conseguenza della ristrutturazione dei rapporti di produzione, del miglioramento materiale e culturale delle condizioni di vita e dell'eliminazione di ogni ideologia razzista.


a) I Filosofi-Re e l'etica razionale tra potere e Terrore

E' possibile compiere una simile trasformazione radicale dei vecchi ordinamenti borghesi senza rivoluzione violenta, senza dittatura del proletariato? È chiaro che non è possibile. Pensare che una rivoluzione simile possa compiersi pacificamente, nel quadro della democrazia borghese, adattata al dominio della borghesia, significa o aver perduto la ragione e ogni nozione del senso comune, oppure rinnegare in modo aperto e brutale la rivoluzione proletaria. Occorre insistere tanto più fortemente e categoricamente su questa affermazione in quanto ci troviamo in presenza di una rivoluzione proletaria la quale ha vinto per ora in un solo paese, circondato da paesi capitalistici nemici e la cui borghesia non può non essere appoggiata dal capitale internazionale. Ecco perchè Lenin dice che «la liberazione della classe operaia è impossibile non soltanto senza una rivoluzione violenta, ma anche senza la distruzione dell'apparato del potere statale che è stato creato dalla classe dominante.
(Stalin, dall'opera Questioni del leninismo, lezioni tenute all'Università Sverdlov nell'aprile 1924)


Al termine del capitolo precedente si è accennato al fatto che quelle che furono identificate come pratiche “staliniste” figlie degli errori e delle colpe di un unico individuo, sarebbero invece da ricondurre più complessivamente alla cultura bolscevica, inserita in uno sfavorevole contesto socio-politico. Rita Di Leo ha usato l'espressione di “filosofi-Reper parlare di Lenin, Stalin e degli altri intellettuali componenti l'originario partito bolscevico: essi erano tutti (tranne Stalin che aveva origini più umili) intellettuali di estrazione sociale borghese che avevano tradito la propria classe di appartenenza in nome di un progetto ideale di emancipazione universale dell'umanità. A tale riguardo la Di Leo sottolinea il ruolo giocato da quella “etica razionale” con cui i filosofi, in nome del supremo progetto e di una consapevolezza storica e filosofica “superiore” per grado di coscienza della violenza capitalistica, seppero accettare e giustificare come un dato inevitabile il fatto che un cambiamento rivoluzionario non potesse essere svolto senza far ricorso alla violenza; Bettanin ha scritto chiaramente: “l'apporto maggiore della nuova documentazione è stato sinora il ridimensionamento di un genere storiografico, pur non privo di momenti di interesse, che spiega il terrore con le psicopatologie dei principali dirigenti, in particolare di Ezov, Stalin e Berija. […] Vi sono dunque buone ragioni per concentrare l'attenzione sulla cultura politica più che sulla personalità dei protagonisti del terrore”. Sulla somiglianza tra la cultura politica dei bolscevichi e la “mentalità soldatesca” si vedano le segnalazioni di Martov (fatte nel 1919) sul “desiderio di ottenere nell'immediato trascurando le condizioni oggettive”, sulla “mancanza di un interesse reale per la necessità della produzione sociale, che portava a considerare il punto di vista del consumatore superiore a quello del produttore”, sulla tendenza “a risolvere i problemi politici con l'uso immediato della forza armata, togliendo di mezzo ogni possibilità di ricorrere a una soluzione democratica”.

Più in generale si accettava l'idea che la razionalità ultima del progetto avesse già in sé una tensione etica tale da giustificare ogni atto o evento sgradevole e violento che fosse necessario per eliminare gli ostacoli che si frapponevano alla realizzazione del progetto. La conseguenza fu che l'etica razionale fu il principio con cui Stalin potè giustificare (a sé stesso prima ancora che agli altri membri del partito) l'eliminazione del dissenso politico, sociale e intellettuale, con annessa la pretesa di dover “rieducare” il popolo al progetto attraverso i gulag. Ma l'etica razionale non fu uno strumento usato ed accettato dal solo Stalin, bensì da tutta la vecchia guardia bolscevica (Lenin, Kamenev, Zinov'ev, Trockij, ecc.) per giustificare già dal 1917 il ricorso alla rivoluzione, l'instaurazione della dittatura del proletariato, il terrore, le deportazioni dei popoli, i gulag, le purghe, i processi agli oppositori, ecc. Tutte queste misure, presenti a livello quantitativo abnorme durante la lunga epoca staliniana, furono messe in pratica, in maniera condivisa ed unanime nella prima fase della rivoluzione russa, trovando in Lenin e Trockij (ma non solo loro) due teorizzatori di primo piano. Così Trockij: “Chi rinuncia per principio al terrore... rinuncia al dominio politico della classe operaia, alla sua dittatura rivoluzionaria. E chi rinuncia alla dittatura del proletariato, rinuncia alla rivoluzione sociale e pone una croce sul socialismo”.

Così Lenin: “Ogni grande rivoluzione, e in particolare la rivoluzione socialista, anche se non ci fosse una guerra esterna, è inconcepibile senza una guerra interna, cioè una guerra civile... E in una rivoluzione così profonda, tutti gli elementi di disgregazione della vecchia società, inevitabilmente assai numerosi e collegati soprattutto con la piccola borghesia... non possono “non manifestarsi”. E questi elementi disgregatori non possono “manifestarsi” altrimenti che moltiplicando i delitti, gli atti di teppismo, la corruzione, la speculazione e altre malefatte di ogni genere. Per far fronte a tutto questo ci vuole tempo e ci vuole un pugno di ferro”. A questo punto il lettore potrebbe essere tentato di dar ragione a Francois Furet, che per anni ha sostenuto come l'origine di ogni male non sia in sé lo stalinismo, ma il progetto comunista rivoluzionario nel suo complesso. Se la storia iniziasse nel 1917 avrebbe probabilmente ragione Furet, ma se si considerano i decenni, i secoli, i millenni precedenti, i bolscevichi avrebbero buon gioco a ribattere che pochi anni di violenze per creare un regime privo di soprusi riscattino ampiamente una storia umana bagnata nel sangue dell'oppressione dei pochi sui molti.

L'etica razionale giustificava le violenze di uno stato d'eccezione in cui era in gioco la vita stessa di chi nell'ottobre del 1917 aveva partecipato alla presa del Palazzo d'Inverno. A questo riguardo è noto come Lenin e i marxisti ricordassero bene gli orrori della repressione della Comune di Parigi, esito cui non si intendeva certo rassegnarsi passivamente. Se la rivoluzione era legata strettamente con l'esito di una guerra dall'esito incerto non v'era infine motivo, nell'ottica dei filosofi-Re, di fare a meno degli strumenti di coercizione e violenza che erano stati usati in passato dalla Russia zarista e dall'Occidente imperialista-colonialista. In una società disumanizzata quale era quella di inizio '900, “nessun intellettuale osò mettere a confronto il giustizialismo popolare degli anni venti e trenta contro borghesi e intellettuali con i secoli di dominio feudale, aristocratico, borghese sul popolo”.

Ultima modifica il Domenica, 27 Ottobre 2013 22:20
Alessandro Pascale

Nato nel 1985, laureato in Scienze Storiche, lavoratore precario e aspirante professore di Storia e Filosofia con certificazione TFA già ottenuta. Tesi e tesine svolte su "Berlinguer e il compromesso storico", "Popular Music politica. Un'analisi storico-sociale sul contesto italiano", "Stalin e l'URSS (1922-1953)", valutate sempre con il massimo dei voti. Dal 2008 faccio militanza nel PRC tra Valle d'Aosta e Lombardia. Convinto che il 90% delle risposte del presente si trovino nello studio attento e ponderato del "nostro" passato.

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