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Lunedì, 09 Ottobre 2017 00:00

Ho visto un 2049 che voi umani non potete nemmeno immaginare

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Ho visto un 2049 che voi umani non potete nemmeno immaginare

Blade Runner 2049 ****1/2

USA 2017.

Genere: Fantascienza/Azione/ Noir/ Poliziesco.

Regia: Denis Villeneuve.

Cinematographer: Roger Deakins.

Sceneggiatura: Michael Green, Hampton Fancher

Cast: Harrison Ford, Jared Leto, Ryan Gosling, Robin Wright, Ana De Armas, Sylvia Hoeks, Dave Bautista.

Durata: 2h e 43 minuti.

Produzione: Scott Free

Distribuzione: Sony Pictures

Uscita italiana: 5 Ottobre 2017

Trailer italiano qui

Formati: 2D, 3D e IMAX

25 giugno 1982. I cinema di tutto il mondo furono (gradualmente) invasi da un film destinato a cambiare per sempre la fantascienza: sto parlando di "Blade Runner" di Ridley Scott. Eppure fu un flop al botteghino. È stato il tempo e il passaparola del pubblico a farlo diventare un cult e un capolavoro di genere difficilmente eguagliabile.

Nel 2007, quando Ridley Scott editò la versione "Final Cut", finalmente venne fatta giustizia anche con il finale. Se ricordate bene, la prima versione era improponibile per via di quell'orrendo epilogo (fintamente) consolatorio con la voce fuori campo del protagonista e la ripresa aerea con i due piccioncini (Deckard e Rachel, interpretati da Harrison Ford e Sean Young). Fu decisiva la volontà del produttore. Scott dovette ubbidire utilizzando "ritagli" della sequenza iniziale di Shining di Stanley Kubrick (guardate qui). Una roba che i fan di tutto il mondo stentarono a comprendere. Tutto ciò stonava sia con il tono del resto del film sia con il finale del libro di Philip K Dick.

Al resto ci pensò il celebre monologo (improvvisato sul set) del replicante Roy Batty (Rutger Hauer), diventato famoso in ogni angolo del globo (qui). Il film era ambientato nel novembre 2019 e oggi possiamo dire che ci siamo quasi.

All'epoca il capolavoro Ma gli androidi sognano pecore elettroniche? di Philip K Dick (da cui è chiaramente ispirato) era considerato roba da eretici. La regressione è ormai inesorabile e inevitabile, il qualunquismo e la mediocrità stanno prendendo il sopravvento. Mancano solo le buche nelle strade e i politici contro cui puntare il dito. Lo scrittore americano, scomparso proprio nel marzo 1982, è (quasi) diventato un profeta. La descrizione della metropoli sovraffollata e multietnica (con forti connessioni asiatiche), della solitudine degli umani che non provano grandi emozioni, dei dilemmi della bioetica contemporanea sono diventati realtà.

35 anni dopo Denis Villeneuve (Prisoners, Arrival, La donna che canta, Sicario) ha deciso che era tempo di proseguire (e non di morire). Ridley Scott, con la sua Scott Free, ha prodotto il film. Dopo aver visto la pellicola, francamente devo dire che la scelta è logica e ponderata per le oltre 2 ore e 40 di durata (che scorrono piuttosto agevolmente).

Villeneuve sta crescendo sempre di più. Ha riunito Roger Deakins e ha alzato il rischio rispetto alla precedente collaborazione di Sicario. Il colpo di genio è stato quello di non fare né un remake (stile Star Wars) né una furba operazione nostalgia (vedi Trainspotting 2 qui). Il sequel riprende il mito di Blade Runner e amplia il concetto del predecessore con diligenza e qualità. Non è un capolavoro, ma è un cinema autoriale di gran livello che mira (ovviamente) a valorizzare il marchio. Speriamo che non venga ulteriormente serializzato, perchè Blade Runner non è materiale da serie Tv.

Tuttavia alla fine posso dire tranquillamente, per il contesto sociale di oggi, che questo è Cinema allo stato puro.

Temevo fortemente questo film. Fortunatamente è andata oltre le più rosee aspettative e di fronte alla fotografia di Roger Deakins mi sono dovuto inchinare (giuro, l'ho fatto pubblicamente). Da anni non vedevo qualcosa di così bello e funzionale al racconto. Poi alla fine, sugli echi della musica di Vangelis, gli occhi e qualche ispido pelo di barba mi si erano leggermente inumiditi.

All'ingresso in sala ho avuto una visione non bellissima: un uomo sulla settantina si è sputato in una mano (con tanto di "rigurgito" in dolby surround 5.1) e se l'è passata in quei pochi capelli che gli rimanevano sulla testa.

Ho incrociato le dita. L'attesa saliva. Buio in sala.

Il film inizia dal termine dell'opera di Ridley Scott. Sono passati oltre 30 anni. Los Angeles, 2049. I cambiamenti climatici (toh, che caso!) hanno causato un drammatico innalzamento del livello del mare. Un enorme muro (Trump, stai buono non parlavamo di te!) è stato costruito per proteggere la città che però è inabitabile. La povertà e le malattie sono piaghe difficili da debellare. Gli umani che non sono abbastanza in salute per andare nelle colonie extra mondo vengono lasciati indietro. Non esiste cibo fresco (altro tema importante) e gli abitanti sopravvivono con il junk food (cibo spazzatura molto comune negli Stati Uniti) modificato da Wallace, venduto con macchine automatiche. Mancherebbero solo i vegani e poi sarebbero a posto anche nel 2049.

Non ci sono più gli estinti Nexus 6. Sono stati progressivamente sostituiti dai replicanti Nexus 9. Questa nuova "razza" è stata perfezionata. Queste creature sono addomesticabili e docili. Tuttavia l'agente di polizia K (Ryan Gosling), dell'unità "blade runner", viene incaricato di trovare i modelli precedenti. L'ordine in questa società è ancora utopia.

Durante le indagini scopre un potente segreto destinato a scardinare i precari equilibri. Così si mette sulle tracce dell'agente Deckard (Harrison Ford), sparito da oltre 30 anni, per poterne capire di più. Nel frattempo però il potente nemico, il visionario estremista erede di Tyrell, Niander Wallace (Jared Leto), non vuole che il segreto venga rivelato e farà di tutto per impedirne il relativo svelamento.

Villeneuve è molto ambizioso ("non c'è arte senza rischio" - ha detto in conferenza stampa) e non ha paura dell'inevitabile confronto. La casa di Deckard, arredata in un certo modo, è perfino terreno di critica con l'industria dell'intrattenimento letterario, musicale e cinematografico (cosa che a me ha fatto piacere). Infatti si rimembrano tempi migliori, come quelli di Stevenson (splendido il richiamo all'Isola del Tesoro), Elvis e Sinatra. Il lavoro del regista canadese è ineccepibile visivamente parlando, è una sorta di architetto, nello stile dell'Inception di Nolan. Non c'è la trottolina, ma c'è il cavallino di legno con una data misteriosa. Oltre al cinema del regista di Dunkirk (a cui Villeneuve spesso si è ispirato nei suoi film precedenti), ci sono sprazzi di Kubrick (l'uso della luce gialla nella scena alla reception mi ha ricordato Shining) e tantissimo Matrix delle neo sorelle Wachowski. C'è perfino l'Eletto (tranquilli, non è chi credete) e anche l'alter ego dell'agente Smith (scoprite l'identità del personaggio al cinema), con annessa scena di lotta ben coreografata.

Villeneuve arriva a dirci anche di più sul futuro che sarà tinto di rosa. Le donne in questo film hanno un ruolo fondamentale, le attrici sono tutte meravigliosamente in parte.

Ma questo Blade Runner 2049 è soprattutto forte visivamente parlando. È ambientato in una società (quella contemporanea) perennemente in bilico tra virtuale e reale.

La cosa stupenda è che nel film le due cose spesso si confondono e le persone tendono a non sapere distinguere l'una dall'altra. Un po' come nella vita di tutti i giorni. Il personaggio di Gosling, ad esempio, è un emblema di tutto ciò, soprattutto nella sua sfera privata ed intima. Per produrre tutto questo sfarzo, Villeneuve ha voluto girare su un set analogico, senza ricreare le ambientazioni in studio con il green screen (in stile Nolan, per intendersi). Se nel film di Ridley Scott fecero scalpore gli effetti visivi di Douglas Trumball della Lucas Film (oggi tristemente finita nel tritacarne Disney), le scenografie stile Metropolis di Fritz Lang e l'uso intensivo di specchi ricoperti da scotch light per creare una maggiore riflessione di luce, qui invece l'originalità (finalmente qualcosa di nuovo!) è nella fotografia dell'eterno Roger Deakins che regala gioie cinefile inestimabili, sulla scia dell'estetica del danese Nicolas Winding Refn e del recente Ghost in the shell. L'uso dei colori è perfetto e rivoluzionario, soprattutto per la vasta gamma di tonalità di bianco, grigio, giallo ocra e rosso che nel film hanno un loroperchè. Il cinematographer (faccio felice il maestro Storaro), già collaboratore dei Coen e dello stesso Villeneuve in Sicario, regala un qualcosa di indelebile e ammaliante. Se non gli dessero l'Oscar a questo giro, sarebbe veramente un'ingiustizia difficile da sopportare.

A dar manforte al regista canadese ci sono anche le musiche dell'onnipresente Hans Zimmer, che omaggia i magnifici temi del maestro greco Vangelis, e attori comprimari di livello: Sylvia Hoeks (ricordate la donna che faceva perdere la testa al povero Geoffrey Rush ne La migliore offerta di Tornatore?), l'ex wrestler Dave Bautista visto in Spectre e I Guardiani della Galassia, la veterana Robin Wright (House of Cards, Millennium) e la bellissima sorpresa Ana De Armas che regala una scena d'amore destinata a diventare un cult (sulla scia di quel capolavoro chiamato Her, firmato Spike Jonze).

Harrison Ford, nonostante l'età, ci regala un Deckard invecchiato, ma ancora combattivo ed efficace. Entra in scena solo dopo un'ora e mezzo, ma il suo carisma è innegabile: il pubblico si aggrappa a lui e, perchè no, alle sue rughe. Mentre su Jared Leto (in versione Creatore con look alla Gesù e atteggiamento da guru alla Steve Jobs) e Ryan Gosling ho qualcosa da dire. Il primo non mi ha entusiasmato e tende a strafare (come se volesse rifare il Joker di Suicide Squad in versione shakespeariana), mentre il secondo sembra un po' ingessato. L'effetto La la land è ancora in circolo. Come disse Sergio Leone delle due versioni di Clint Eastwood, anche Gosling sembra averne due: al posto del cappello eastwoodiano, c'è il Ryan con l'espressione da ferita sanguinolenta oppure senza (infatti il film inizia con uno scontro in stile western tra K e un contadino).

Il problema però più importante del film si manifesta più che altro a livello di sceneggiatura, alcuni dialoghi non sempre filano. Michael Green e Hampton Fancher non valgono David Webb Peoples del primo film, ma bisogna dire che riescono a colmare il vuoto tra il primo ed il secondo film con l'introduzione del cosiddetto Blackout. Questo "personaggio" è un impulso elettro-magnetico su larga scala, che ha distrutto quasi tutti i dati digitali e ha costretto K a tornare in azione invece di stare dietro a un monitor a ricercare informazioni. Il tutto è un'allegoria che invita l'umanità di tornare all'analogico, sporcandosi le mani e a incontrare persone vere. Se tutto questo non vi basta, ecco che Villeneuve riesce nell'impresa di trovare una linea comune con i suoi (stupendi) film precedenti.

Ed ecco che la fantascienza umanista sperimentata nello splendido Arrival (recensione qui) torna, qua e là, a fare capolino. Una cosa non da poco. Altri registi moderni si sarebbero incartati come il Robert De Niro di Brazil. Ma Villeneuve non si accontenta e decide efficacemente di parlarci anche di etica e bioetica, ponendo quesiti importanti. Un esempio: qual è il confine tra obbedienza cieca di un replicante e "un impianto" ricreato con ricordi artificiali? Lascio a Voi l'ardua sentenza. L'unica certezza è che questo è Cinema ambiziosissimo. Avete letto bene, con la C maiuscola (da vedere rigorosamente nella sala buia sul maxischermo). Ebbene sì, nel complesso, per il tempo che viviamo, lo affermo: ho viste cose che voi umani... Speriamo solo che questi momenti non vadano perduti come lacrime nella pioggia. Perchè se c'è una cosa che non riusciamo più a fare, è immaginare il nostro futuro.


La frase da ricordare

"Ogni progresso della civiltà è nato sulle spalle degli schiavi, i replicanti sono il futuro"


I punti di forza

La fotografia di Roger Deakins è da antologia ed è originale.
Gli omaggi a Inception, Shining, Her e Matrix sono notevoli e per niente banali.
L'uso delle tonalità dei colori (giallo ocra, rosso, bianco e grigio) al servizio del racconto.
Villeneuve gira un film dai temi etici e contemporanei (cambiamenti climatici, ambiente, povertà, malattie, sovrappopolazione, il cibo industriale).
Gli attori comprimari e la regia funzionali alla storia.
Il cast femminile di prim'ordine. Su tutti Ana De Armas che spiazza tutti con una scena d'amore cult, in stile Her di Spike Jonze.
Il realismo del set e l'ambizione del regista.
La cura maniacale di ogni dettaglio.
La coerenza artistica della filmografia di Denis Villeneuve.
Denis Villeneuve rischia tantissimo elevando la sfida.


I difetti

Ryan Gosling, a tratti, sembra ingessato in stile "La la land". Ha due espressioni: quella con la ferita e quella senza ferita.
Qualche difetto di sceneggiatura, qualche dialogo farraginoso.
Jared Leto (Dio con look di Gesù, in versione guru alla Steve Jobs) sembra scimmiottare il suo Joker di Suicide Squad.
La probabile serializzazione pseudo televisiva che potrebbe innescare.

Ultima modifica il Lunedì, 09 Ottobre 2017 00:55
Tommaso Alvisi

Nato a Firenze nel maggio 1986, ma residente da sempre nel cuore delle colline del Chianti, a San Casciano. Proprietario di una cartoleria-edicola del mio paese dove vendo di tutto: da cd e dvd, giornali, articoli da regalo e quant'altro.

Da sempre attivo nel sociale e nel volontariato, sono un infaticabile stantuffo con tante passioni: dallo sport (basket, calcio e motori su tutti) alla politica, passando inderogabilmente per il rock e per il cinema. Non a caso, da 9 anni curo il Gruppo Cineforum Arci San Casciano, in un amalgamato gruppo di cinefili doc.

Da qualche anno curo la sezione cinematografica per Il Becco.

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