Sabato, 09 Dicembre 2017 00:00

Avevano ragione Bunuel, Marx e Paolo Vi: i killer della società sono sempre borghesi

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Avevano ragione Bunuel, Marx e Paolo Vi: i killer della società sono sempre borghesi

Prima dei botti di fine 2017, eccoci di fronte a un fine settimana di fine novembre ricchissimo. Oltre al terzo capitolo di Smetto quando voglio (vedi qui), sono usciti altri due film che, in maniera diversa, pongono il problema della borghesia. Dall'Ottocento a oggi non è cambiato assolutamente niente. Ecco le recensioni di un remake di un noto giallo di Agatha Christie (Assassinio Sull'Orient Express) e di un film francese d'autore (Happy end), diretto dal maestro tedesco Haneke. Cosa hanno in comune?
Le risposte le trovate qui sotto.

Assassinio sull'Orient Express ***1/2
(USA 2017)
Genere: Giallo / Avventura
Regia: Kenneth BRANAGH
Sceneggiatura: Michael GREEN
Cast: Kenneth BRANAGH, Johnny DEPP, Penelope CRUZ, Willem DAFOE, Judi DENCH, Michelle PFEIFFER, Daisy RIDLEY, Josh GAD, Derek JACOBI, Olivia COLMAN
Durata: 1h e 52 minuti
Distribuzione: 20th Century Fox
Trailer italiano qui
Uscita: 30 Novembre 2017
Frase cult: Nonostante quello che pensano le persone c’è giusto e sbagliato. E niente in mezzo

È tempo di remake e franchise. Il cinema, ultimamente povero di idee originali, cerca le ispirazioni dalla letteratura. Dopo un possibile ciclo di pellicole tratte dai romanzi di Jo Nesbo (L'uomo di neve è stato il primo capitolo), ecco i bestseller gialli di Agatha Christie. Dopo la recente uscita de "Il mistero di Crooked House" (nei cinema a fine ottobre), ecco "Assassinio sull'Orient Express". La Christie lo scrisse a Istanbul e faceva parte di una serie di storie a puntate scritte negli anni '30 per il giornale "The Saturday Evening Post". Nel 1974 Sidney Lumet ci fece un film con Albert Finney nei panni di Poirot. Arriva adesso nelle sale il remake di questa pellicola. Che non sarà la sola, visto che è già stato annunciato il sequel "Assassinio sul Nilo" (a cui allude il finale di questo film in stile Marvel). Ci voleva un attore/regista teatrale come Kenneth Branagh a riportare all'attenzione del pubblico un cinema fatto di performance e di maschere. Un'opera molto british, con tanto di tocco old style e un po' di William Shakespeare.

È un blockbuster (a medio budget, considerando il cast stellare) da 55 milioni di dollari (ne ha già incassati 160!), condito di sottile humour inglese, con movimenti di macchina dinamici, qualche pianosequenza ardito e itinerante e qualche carrellata tra i vagoni del treno. Come hanno già fatto recentemente Quentin Tarantino per "The hateful eight" (vedi qui) e Christopher Nolan per "Dunkirk" (vedi qui), anche Branagh ha usato il formato 70mm per dar maggior definizione ai fotogrammi. Questo "Assassinio sull'Orient Express" è un tipico film invernale che fa sentire la voglia di andare al cinema per uscire dalla morsa dell'aria fredda: non a caso c'è la contrapposizione tra la ricostruzione degli esterni, ricoperti da una spessa coltre innevata, e il calduccio a bordo del treno a vapore. Mancano solo la copertina e un buon tè con il limone. Fortunatamente il film è tutt'altro che soporifero. Sembra di essere in "Snowpiercer" (vedi qui), solo che stavolta c'è un omicidio avvenuto a bordo. Dimenticate la lotta di classe per raggiungere la vetta della locomotiva (che rappresentava il potere), qui ci sono un mucchio di sedentari borghesi assiepati nel lussuoso vagone ristorante.

A sconvolgere gli ospiti del treno diretto da Istanbul verso Calais (altra coincidenza con "Happy end" di Haneke), arriva lui, il celebre investigatore belga Hercule Poirot (Kenneth Branagh, il primo ministro di "I love radio rock"), con baffoni narcisi e fin troppo pronunciati, assieme al suo assistente Bouc. Era atteso a Londra con la massima urgenza, ma il direttore del treno ha chiesto che Poirot risolvesse il caso. A dir la verità lo avevano richiesto anche sul Frecciarossa, ma l'investigatore ha optato per l'Orient Express. L'indagine si districherà in una spirale di segreti con una miriade di passeggeri tutti sospetti: la missionaria spagnola Pilar Estravados (Penelope Cruz), l'austero professore tedesco Gerhard Hardman (Willem Dafoe), la principessa russa Natalia Dragomiroff (Judi Dench), l'infido businessman americano Samuel Ratchett (Johnny Depp), con l' assistente Hector (Josh Gad) e il valletto Edward (Derek Jacobi), la vedova americana impertinente Caroline Hubbard (Michelle Pfeiffer), la giovane governante Mary Debenham (Daisy Ridley di Star Wars), il conte Andrenyi e sua moglie, il venditore di automobili e la cameriera della principessa russa. Poirot scopre che Ratchett è stato ucciso. Lui ha visto soltanto una donna dal kimono rosso che correva per il corridoio. Non ha prove certe. Il giorno dopo lui e Bouc raccolgono indizi che sembrano indicare che sia stato un uomo.
A causa di una burrasca, il treno verrà fermato in territorio jugoslavo. Mentre vengono effettuate le riparazioni del mezzo, tutti i sospettati vengono interrogati. Tutto porterà al vecchio caso Armstrong e a un criminale italiano (tanto per cambiare), Cassetti. Ma cosa c'entrano questi borghesi con questa vicenda?

Le indagini condurranno Poirot su terreni inediti, scoprendo un filo che lega diversi personaggi. Ma con loro anche lui finirà per sconvolgere le sue abituali regole. Le bugie sono una costante nei rapporti interpersonali. C’è chi mente di continuo, chi qualche volta a fin di bene e chi è vittima delle bugie altrui. I bugiardi sono ovunque e nascondono le loro menzogne tra le pieghe di una storia d’amore, nei rapporti di lavoro, in famiglia, nelle amicizie o, come in questo film, dentro un crimine. La bugia è ormai una parte di noi. Ed è il motivo principale che mette a dura prova la nostra capacità di fidarci degli altri e, perché no, anche di noi stessi. Bisogna dare atto a Kenneth Branagh di conoscere bene il suo lavoro. C'è molto cuore, molta partecipazione, un cast di stelle di alto livello (Michelle Pfeiffer e Josh Gad i migliori) che non rubano la scena al protagonista (cosa assai intelligente) e una messa in scena elegante e raffinata. La trama è sempre seducente, avvincente e senza tempo. Il problema è districarsi fra tutte le sfumature psicologiche dei personaggi in meno di due ore, cosa che invece è particolarmente sviluppata nel libro.

L'intento qui è sicuramente l'intrattenimento, non tanto la sostanza. Ma non è assolutamente vero che manca la politica. Tutti questi personaggi sono esponenti borghesi sprezzanti, egoisti, viscidi, crudeli e senza scrupoli. Anche Poirot, ossessionato dallo squilibrio della società, verrà inebriato dal lato oscuro di questi individui. Inoltre c'è da dire che il messaggio finale è molto pericoloso e il rischio della legittimazione della giustizia fai da te (considerata sbagliata, ma per certi versi necessaria) è assai alto. Perchè questa è in realtà una ricerca di equilibrio insita nell'essere umano. Molte persone hanno dedicato tutta la loro vita per carpirne il vero valore. In questo bisogna dire che il film di Branagh è molto moderno, perfettamente in linea con le inquietudini e le paure dei giorni nostri. Perché a bordo dell'Orient Express ci siamo anche tutti noi, nel bene e nel male.

Top
- L'atmosfera e la fotografia d'altri tempi
- L'uso efficace del 70mm, il pianosequenza iniziale
- Un cast di attori piuttosto in forma (su tutti Dench e Pfeiffer)
- Il contrasto tra il freddo degli esterni e il caldo degli interni che riesce nell'intento di riportare lo spettatore in sala (lo dice il botteghino)
- La recitazione old style e condita dal sottile humour inglese

Flop 
- Johnny Depp, Penelope Cruz e Willem Dafoe sono penalizzati dal copione
- E' un film che doveva osare di più. E' abbastanza verboso nella parte centrale e, per rientrare nelle due ore di durata, poi comprime alcuni personaggi
- La probabile serializzazione che nascerà dopo questo episodio (il sequel è già stato annunciato) con strizzatina d'occhio alla Marvel
- La lunga e necessaria introduzione dei personaggi nella prima parte si contrappone alla lentezza della parte centrale. La sceneggiatura di Green non sempre è fluida

 

Happy end ***
(Francia, Austria, Germania 2017)
Regia: Michael HANEKE
Sceneggiatura: Michael HANEKE
Cast: Isabelle HUPPERT, Toby JONES, Jean Louis TRINTIGNANT, Mathieu KASSOVITZ
Durata: 1h e 47 minuti
Distribuzione: Cinema
Uscita: 30 Novembre 2017
In concorso al Festival di Cannes 2017
Trailer qui
La frase cult: Va tutto benissimo.

Non esiste regista europeo che abbia analizzato l'essere umano nelle sue più intrinseche contraddizioni come il tedesco Michael Haneke. Nella sua filmografia spiccano il remake di Funny Games, Niente da nascondere, La pianista, Il tempo dei lupi, Il nastro bianco, Amour. Nel maggio 2017 al Festival di Cannes è stato presentato "Happy end", dramma altoborghese bunueliano sulla famiglia. Ma in quest'opera ci sono forti analogie con "Niente da nascondere". Se ricordate bene c'era una tredicenne che con il suo I-phone riprendeva i problemi della madre che somministrava farmaci a lei stessa e al suo criceto (che poi sarebbe uno di noi). E poi una telecamera di sorveglianza che riprende il crollo in un cantiere che causa una vittima (problema sempre più diffuso nel mondo del lavoro, specie nell'edilizia). Stavolta in "Happy end" si parla di un crollo familiare che si fa emblema di una società senza valori.

Siamo a Calais. La scelta della location non è casuale perché nella cittadina francese c'è una sorta di inferno a cielo aperto dove i profughi sono in attesa di "esser spediti" come un pacco postale verso la Gran Bretagna alla ricerca di un posto migliore dove vivere. Manca solo la canzone "Welcome to jungle" dei Guns n roses a far da colonna sonora e poi si sarebbe a posto. In mezzo a questo sfondo, c'è una ricca famiglia altoborghese che vive lì con totale indifferenza. La camera di Haneke indugia tra i personaggi dicendoci che la loro felicità è apparente. La nobiltà della famiglia Laurent è ormai in via di estinzione. Il lavoro è una cosa fastidiosa e le decisioni importanti vengono lasciate ai dipendenti (cosa non sempre saggia). Come accade sempre più spesso oggi, non esistono piani imprenditoriali e questo origina, di riflesso, anche un notevole abbassamento dei guadagni (e di prospettive future) per tutti. Il padre di famiglia Georges (Jean Louis Trintignant, indimenticabile interprete di "Amour" di Haneke e de "Il sorpasso" di Dino Risi) sta per compiere 85 primavere. Sua moglie è morta (il modo non ve lo dico), lui è in sedia a rotelle. E' lui che ha creato un'azienda capace di sfamare più generazioni. Non ne può più e vorrebbe ammazzarsi. Sembra l'ideale sequel di "Amour", il film precedente di Haneke (presentato a Cannes 2012). Non a caso Georges era anche il protagonista dell'altra pellicola. È stato messo parte, naturalmente. Il timone dell'azienda è in mano alla figlia Anne (Isabelle Huppert dello splendido "Elle" vedi qui) e al problematico nipote Pierre che consuma la sua vita tra alcool e una movimentata vita notturna. La donna cerca di compattare la famiglia, ma deve fronteggiare anche un grave incidente. Come in "Niente da nascondere" c'è una vittima che pesa sulla coscienza di Anne e Pierre. La coperta in casa Laurent sembra essere sempre corta. La puoi tirare dai piedi o dalla testa, ma da qualche parte rimani scoperto.

Infatti c'è un altro problema familiare: l'irresponsabile fratello di Anne, Thomas (il regista di film cult come L'odio e I fiumi di porpora, Mathieu Kassovitz), si è risposato ed è "costretto" a portarsi in casa anche Eve, la figlia nata dal precedente matrimonio. L'ex moglie sta male e non può occuparsi della figlia adolescente. Thomas è più preoccupato dalle chat erotiche con donne che conosce appena piuttosto che della sua famiglia. Ed è proprio Eve con il suo cellulare a "fare la regista", riprendendo cosa accade in questa stramba famiglia.

Emblema di un cinema d'autore che non riesce più a portare il pubblico in sala. La gente si affida a internet, a youtube, alle serie tv (fate un grossissimo errore, sappiatelo). Francamente "Happy End" è ineccepibile per intenti e messaggio, molto meno per la messa in scena che soffre di una lentezza eccessiva specie nella prima parte. Lo sguardo, come al solito cinico e disilluso, stavolta (per buona parte del film) è quello più scialbo di un telefonino, non più di una telecamera. Eve vive in un mondo di pura illusione come gli adolescenti di oggi che si parlano su Whatsapp anche quando si trovano l'uno di fronte all'altro (se non Vi è mai capitato, ve lo dico io è qualcosa di allucinante). Ma il crollo più evidente non è solo quelli dei valori della società occidentale (cosa già piuttosto evidente), ma soprattutto quello della classe dirigente europea.Sembra di essere ai tempi della caduta dell'Impero Romano. E' un' Europa vecchia, trita che parla ancora di classi. Infatti sta morendo perchè semplicemente non esistono più le categorie di una volta. L'indifferenza (suicida) di una classe sociale votata all'egoismo e all'infelicità perenne, ricalca quella del bellissimo "fascino discreto della borghesia" di bunueliana memoria. La migliore analisi la fece Ugo Casiraghi sull'Unità il 18 aprile 1973 quando, analizzando il film sopra citato, scrisse che la classe borghese è "incapace di pensiero, nemmeno sfiorata dal dubbio, improduttiva e parassitaria, assisa sulle proprie voglie animalesche e banali come su un trono di cartapesta, con tutti i suoi pilastri protettivi (il clero, l'esercito, la polizia), conserva ormai se stessa più sulla base dell'inazione che dell'azione. Il suo potere è indissolubilmente legato alla sua impotenza". Oggi i risultati di questi effetti sono visibili alla luce del sole. E non è un caso che Haneke ambienti la storia a Calais. Questo "allungare il brodo" per tirare a campare è un immobilismo che, secondo il regista, porterà prima o poi a un cambiamento. Il motivo del razzismo verso i profughi è inteso come una minaccia a questi vincoli, a questa paura di "estinzione". In Italia lo stiamo vedendo. Pochi giorni fa l'Istat ha pubblicato i dati relativi a un abbassamento consistente delle nascite. Il film di Michael Haneke, sullo sfondo, parla anche della famiglia e dell'incapacità dei borghesi europei di adattarsi ai cambiamenti della società. Il tanto agognato happy end è solo un lontano ricordo. O meglio una farsa. Ecco perché fare i borghesi è un gioco terribilmente pericoloso.

Top
- Cast di attori bravissimi (Isabelle Huppert, Toby Jones, Jean Louis Trintignant e Mathieu Kassovitz da applausi)
- La feroce critica alla superficialità borghese e alle nuove generazioni
- I richiami a Bunuel e al "fascino discreto della borghesia"
- La scena del pranzo borghese. Osservazione acutissima di Haneke
- L'attualità di questo film con i temi europei più scottanti (immigrazione, caduta dei valori, indifferenza, la supremazia tecnologica, l'incapacità della classe dirigente)
- La continuità con le opere precedenti, ovvero Amour e Niente da nascondere
- La metafora finale

Flop 
- L'eccessiva lentezza della prima ora rende il film un po' indigesto e soporifero
- Non è un film positivo e molta gente non lo vorrà vedere. Ma è tremendamente necessario e attuale
- Haneke calca la mano su alcune sue ossessioni. Chi ha visto i suoi film precedenti, capirà

Ultima modifica il Venerdì, 08 Dicembre 2017 18:20
Tommaso Alvisi

Nato a Firenze nel maggio 1986, ma residente da sempre nel cuore delle colline del Chianti, a San Casciano. Proprietario di una cartoleria-edicola del mio paese dove vendo di tutto: da cd e dvd, giornali, articoli da regalo e quant'altro.

Da sempre attivo nel sociale e nel volontariato, sono un infaticabile stantuffo con tante passioni: dallo sport (basket, calcio e motori su tutti) alla politica, passando inderogabilmente per il rock e per il cinema. Non a caso, da 9 anni curo il Gruppo Cineforum Arci San Casciano, in un amalgamato gruppo di cinefili doc.

Da qualche anno curo la sezione cinematografica per Il Becco.

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