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Sabato, 08 Ottobre 2016 00:00

Mine - Esordio italiano tra Europa e Hollywood

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Lo chiamavano Jeeg Robot e Veloce come il vento sono pellicole meno ignoranti e più progressiste, cionondimeno si può uscire dalla sala cinematografica di Mine con una sensazione positiva rispetto al cinema italiano. Nel caso della pellicola di Fabio&Fabio si tratta di una produzione europea (italo-spagnola) e statunitense, ma alla regia ci sono due italiani, al loro primo lungometraggio, dopo diverse esperienze anche in ambito di post-produzione e videoclip.

Un film occasionalmente di genere, imbevuto di uno stile legato alla comunicazione commerciale, dove archetipi narrativi di massa (thriller, film di guerra, horror) si inseguono in un equilibrio piacevole.

Un cecchino si ritrova da solo, nel deserto, con il piede su una mina: non può muoversi e dovrà aspettare oltre due giorni l'arrivo di soccorsi annunciati. Non è una trama capace di ipotizzare grande tensione. Il rischio in questi casi è sempre molto alto, rispetto alla possibilità di scadere in un abuso di analessi, introspezioni o fantasiose trovate narrative. Il passaggio da una versione di due ore e mezzo a quella di 106 minuti deve aver contribuito molto all'ottima impressione finale.

Il convincente Armie Hammer, in un film molto diverso da quelli in cui è solito recitare, dà corpo ad un cavaliere senza macchia “cupo e maledetto”. Raramente si vede il cecchino da solo sullo schermo, mentre le remore morali compaiono pretestuosamente solo in apertura. Non si tratta di un'opera tesa ad interrogarsi sulla guerra, o su cosa spinga un uomo ad accettare di ucciderne altri. Sullo sfondo appaiono diverse letture riflessive, ma in modo analogo ai film dell'Ispettore Callaghan.

Alla base ci sono un immaginario ed un'estetica (rivendicati) nati negli anni Ottanta, tra prodotti statunitensi e giapponesi, secondo un'affermata narrativa (popolare) italiana capace di ottime sinergie con l'altra sponda dell'atlantico.

La figura del berbero è una sintesi di quella semplicità capace di farsi amare e criticare allo stesso tempo. Sottile è il confine tra familiarità e banalità.

Il produttore inglese Peter Safran rivendica il passaggio dallo spagnolo Buried (un uomo rinchiuso in una bara) a Mine (un uomo bloccato in mezzo a uno spazio aperto), ma il film funziona a prescindere dalle capaci strategie pubblicitarie.

Un prodotto di rapido consumo, fruibile e gradevole, con alle spalle 5 settimane di riprese a Fuerteventura (Canarie).

Quando una pellicola si presenta come film di genere ma ne travalica i canoni con naturalezza siamo sempre davanti a qualcosa che vale la pena vedere, in grado di regalare piacere agli occhi.

Vi ritroverete con un ginocchio a terra, cercando di resistere alla tempesta di sabbia che travolge, incapaci di andare avanti, avvolti da una valida colonna sonora.

Ultima modifica il Venerdì, 07 Ottobre 2016 15:19
Dmitrij Palagi

Nato nel 1988 in Unione Sovietica, subito prima della caduta del Muro. Iscritto a Rifondazione dal 2006, subito prima della sconfitta de "la Sinistra l'Arcobaleno". Laureato in filosofia, un dottorato in corso di Studi Storici, una collaborazione attiva con la storica rivista dei macchinisti "ancora IN MARCIA".

«Vivere in un mondo senza evasione possibile dove non restava che battersi per una evasione impossibile» (Victor Serge)

 

www.orsopalagi.it

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