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Lunedì, 07 Gennaio 2019 00:00

Il ritorno di Mary Poppins tra le contraddizioni del capitalismo

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Ogni volta che da bambino guardavo Mary Poppins (1964) la battuta che più mi rimaneva in mente era sempre quella dello spazzacamino Bert, che dice ai bambini (i quali hanno appena provocato un panico finanziario): «Voi avete la mamma che si occupa di voi, e Mary Poppins, e l’agente Jones, e me. Chi si occupa di vostro padre, ditemelo un po’. Quando gli accade qualcosa di brutto che cosa fa? Deve sbrigarsela da solo. A chi può raccontarlo? A nessuno. E a casa non parla dei suoi guai. Lui continua a fare il suo lavoro, senza lamentarsi, solo e silenzioso». Forse era perché mio padre lavorava in banca come George Banks, e gli assomigliava perfino fisicamente, e in effetti non gli avevo mai sentito proferire uno sfogo per motivi di lavoro.

Quella battuta di Bert rende una contrapposizione frontale che è tipica del film del 1964. La tesi è costituita dal mondo imperialista britannico, di cui George Banks fa l’apologia nella prima canzone del film, A British nanny (la quale «must be a general, the future empire lies within her hands»). Prima di rincasare e cantare quest’aria Banks viene interrogato da un altro esponente dell’establishment imperialista, l’ammiraglio Boom, al quale dice che la sterlina desta l’ammirazione del mondo.

L’antitesi era costituita, naturalmente, dal rifiuto dei bambini di farsi integrare nell’imperialismo fase ultima del capitalismo, rifiuto che trovava numerosi appigli: Bert e la working class rappresentata dall’esercito di spazzacamini; lo zio Albert che per sconfiggere la solitudine e la depressione ride fino a volteggiare contro il soffitto; la signora Winifred Banks che, in una variante meno drammatica della Nora di Casa di bambola, è sì un’esponente borghese ma preme per rompere quel sistema (è un’attivista suffragista); la vecchia poverissima che, sulle scale della cattedrale di Saint Paul, vende sacchetti di mangime per piccioni a 2 pence l’uno; e naturalmente Mary Poppins che è il detonatore di tutte queste tensioni.

Il contrasto tra queste due posizioni era reso non soltanto dalla durezza dei dialoghi e dall’assoluta estraneità del padre ai racconti fantastici dei bambini, ma anche da una colonna sonora riempita di pathos, di marcette e che raggiunge talvolta toni titanici. (Personalmente ho perfino suggerito Feed the birds come eventuale inno nazionale per la Repubblica britannica.)

La sintesi, quando arriva, non è meno tragica. La radiazione di George Banks ha tutto il cerimoniale di un’esecuzione (l’uomo viene scortato da due severissimi custodi alla cadenza di un rullo di tamburi) e infatti di lui si sospetta il suicidio; quanto al signor Dawes padre, presidente della banca, ci rimette davvero la vita: la sua redenzione arriva solo a prezzo dell’estremo sacrificio. Il vegliardo banchiere muore letteralmente dalle risate. Nel momento apicale del confronto tra i bambini e il padre, convocato per essere licenziato, alla consegna dei 2 pence e alla domanda se questi potranno sistemare tutto il funzionario di banca risponde solo con un adultissimo «Grazie».

L’atmosfera de Il ritorno di Mary Poppins è, sotto l’aspetto del contrasto, del tutto diversa. Tesi e antitesi non si affrontano in modo così spiccato, e anzi appaiono sfumate l’una dentro l’altra. Michael Banks, l’ex bambino accudito da Mary Poppins nel 1910, è molto più affettuoso con i suoi figli di quanto non fosse suo padre con lui. Quando infine perde le staffe, fatto per il quale i bambini gli chiedono scusa, è addirittura lui a scusarsi con loro, mettendo a nudo la propria fragilità e la sofferenza per la scomparsa della moglie. A questo punto è il figlio minore (!) a confortarlo, ripetendogli la lezione appresa da Mary Poppins che i nostri cari non ci lasciano mai veramente.

Ma anche i bambini non sono le piccole pesti della generazione precedente, pronte a giocare tiri di ogni tipo alle povere tate. Anzi, laddove loro padre voleva usare 2 pence per nutrire i piccioni invece che per investirli in banca, i suoi due figli più grandi hanno imparato bene a conoscere il valore del denaro e dell’economia: lo si vede nelle cure che mettono per fare diligentemente le compere così come nell’idea di vendere un vecchio ricordo della madre per poter fare fronte all’ipoteca.

La colonna sonora è, per larga parte del film, una serie di variazioni sulle tracce della pellicola del 1964: ma il loro contrasto viene sempre smorzato appena prima di raggiungere il climax, e la chiusura resta sempre in sospeso.

Lo scioglimento della narrazione non raggiunge le vette tragiche del primo film: tutto lo scotto pagato dal nuovo presidente della banca è di essere dimissionato dal vecchio zio e di non poter librarsi nell’aria con un palloncino, a differenza degli altri personaggi. Però il minore iato tra il mondo degli adulti e quello dei bambini è tenuto insieme, narrativamente, da un’innovazione che forse può passare inosservata come una delle tante battute circondate dall’intrico della trama, ma che in realtà ha una rilevanza radicale.

Per la prima volta viene avanzata l’ipotesi che gli eventi fantastici del 1910 (il tè sul soffitto, il salto nel disegno di gesso) non siano mai accaduti realmente e siano stati soltanto frutto dell’immaginazione dei bambini. Le uniche cose reali sarebbero state la crisi bancaria (poi risolta positivamente), i due pence (che si scopre hanno fruttato molti interessi in vent’anni) e la vecchia venditrice di mangime, che era stata vista anche dal signor Banks («ma certo che la vedo! Credi forse che io non veda più in là del mio naso?»).

La situazione del 1930, invece, è anche troppo reale. I Banks sono sull’orlo della rovina economica e anche stavolta la salvezza e trasformazione della famiglia ruotano attorno a del denaro: non più 2 pence, però, bensì 20.000 sterline in titoli azionari. L’imperialismo finanziario prebellico («sarai azionista di ferrovie in Africa, dighe in Canadà, flotte sopra i mari, canali che uniscon gli oceani tra loro»), che poteva ancora essere contestato in nome di una pristina semplicità del risparmio di 2 pence, adesso non solo non può essere trasceso, ma nella propria rovina trascina con sé l’intera popolazione. La riprova? Quando alla fine del film il signor Dawes Jr., vero e proprio deus ex machina, licenzia il nipote questi gli contesta di aver raddoppiato i profitti della banca – a danno, gli rinfaccia lo zio, dei portafogli dei clienti.

Quand’è che gli adulti Michael e Jane tornano a credere al mondo fantastico di Mary Poppins? Quando “il tempo è stato riportato indietro”: dopo aver riscattato l’ipoteca grazie a cinque pietosi minuti concessi da una manomissione del Big Ben. Questo tempo riportato indietro è naturalmente anche metaforico: la famiglia Banks torna al tempo felice di vent’anni prima e, assieme agli altri personaggi, prende addirittura il volo grazie a palloncini formidabili. Perfino il vegliardo ammiraglio Boom riesce, grazie a uno di essi, a sollevarsi dalla sedia a rotelle, in una geniale ripresa della scena finale del Dottor Stranamore («Mein Führer! Io cammino!»). Ma questi due invalidi che si rialzano sono in realtà specularmente opposti: con Stranamore Kubrick denunciava come i rischi di sterminio non fossero finiti con il nazismo, le cui pulsioni sanguinarie erano anzi pronte a rialzarsi sotto nuove forme; nel Ritorno di Mary Poppins, invece, a rialzarsi è solo un fantasma, l’ombra di un reperto del passato, un sogno.

È significativo come nel 1910 gli esseri umani stessero coi piedi saldamente piantati a terra, padroni dei loro aquiloni, mentre nel 1930 sono essi in balìa (felicemente) dei palloncini, che li fanno fuggire da una realtà brulla e impauperita. E, tra l’altro, i Banks spiccano il volo e riscoprono la fantasia solo dopo aver rimesso le mani sulle 20.000 sterline, segno che “il denaro non fa la felicità, figurati la miseria”.

Ma, a conti fatti, tutto è bene quel che finisce bene? No. C’è un ulteriore protagonista che percorre tutto il film e per il quale la situazione di partenza e quella di arrivo non risultano poi così distanti. Si tratta del lampionaio Jack, che come lo spazzacamino Bert vent’anni prima assume il ruolo di rappresentante della classe operaia. E la funzione di questa classe è notevolmente cresciuta nel giro della generazione trascorsa.

Se nel primo film l’unico aiuto degli spazzacamini era quello di stringere la mano al signor Banks («Oh, papà, tutti quegli spazzacamini ti hanno stretto la mano. Sarai la persona più fortunata del mondo»), nel sequel forniscono un sostegno ben più tangibile: danno la scalata al Big Ben e ne assumono il controllo, consentendo ai Banks di salvare la propria casa. Il Big Ben è la torre del Parlamento, ma non è necessario addentrarsi in questa metafora politica per cogliere il ruolo dei lampionai.

Tale ruolo viene esplicitato nella canzone che cantano in coro, un vero e proprio inno di mestiere. Nella canzone la luce viene in soccorso del lampionaio che sa accenderla nei momenti di peggiore sconforto e abbattimento e che, accendendola, rende un beneficio a tutta la collettività. Nell’impossibilità di citare tutti i versi significativi del brano possiamo limitarci alla prima delle due semistrofe che ne compongono il cuore: «And when the fog comes rolling in, just / keep your feet upon the path / Mustn’t mope and frown or worst lie down / don’t let it be your epitaph». Qui conta non solo lo scritto, già di per sé significativo, ma i rimandi che si possono contare a celebri canti del movimento sindacale anglosassone: naturalmente The Red Flag, l’inno del Labour, ma anche Keep your eyes on the prize o l’australiana We belong to the union.

Gli spazzacamini non vivono più in una loro sottocultura, con i visi anneriti, nell’oscurità notturna e spostandosi di tetto in tetto, ben lontani dalla vita cittadina. Se nel 1910 Bert apriva il film entrando in scena come uomo-orchestra – uno dei suoi mille lavoretti di contorno – il Jack del 1930 è un lampionaio a tempo pieno, ed è come tale che apre il film, chiudendo gli otturatori delle lampade a gas alle luci dell’alba quando Londra si risveglia. La figura di Bert restava avvolta in un alone del medesimo fantastico da cui promanava Mary Poppins. Non conosciamo né un prima né un dopo, a parte il fatto che ha un vecchio zio. Jack invece provvede a informarci della sua vita: è un personaggio realissimo, tanto che vent’anni prima, passando per viale dei Ciliegi, salutava i piccoli Banks che lo guardavano dalla finestra.

Nel 1930 Jack è ancora un proletario e batte ancora le strade. Ma anche la piccola Jane Banks è cresciuta, e ha preso il posto della madre: suffragista questa, sindacalista la figlia – per la precisione, attivista della Society for the Protection of the Underpaid Citizens of England. È interessante che venga citata non la disoccupazione, ossia la maggiore piaga della Grande Depressione nei cui anni è ambientata l’azione, bensì la sottoretribuzione: fu questa a ispirare (“not a penny off the pay, not a minute on the day!”), nel 1926 il grande sciopero generale, l’unico nella storia britannica. Nonostante il suo fallimento esso lasciò un’eco duratura, tanto che nel 2001 McEwan lo usò in Espiazione per caratterizzare così un personaggio: «l’agente Vockins […] si rifiutava di esibire il contegno che ci si sarebbe aspettati da un poliziotto. […] In paese correva voce che prima di arruolarsi in polizia fosse stato un sindacalista. Qualcuno l’aveva visto, ai tempi del grande sciopero generale, distribuire volantini su un treno».

La simpatia che si instaura tra Jane e Jack non si condensa, alla fine del film, in un amore dichiarato o in una relazione. Qui il lieto fine manca. Può sembrare una nota stonata fuori posto nell’equilibrio di chiusura, e infatti è l’unico punto narrativo che non chiude la vicenda, lasciandola aperta. La casa di viale dei Ciliegi è salva, la Banca Dawes recupera un’etica finanziaria, Michael Banks ritrova la fantasia dell’infanzia; tutta la situazione è mutata. Eppure la crisi economica perdura, Jack lavora ancora per strada e Jane è ancora una sindacalista. Il rapporto tra i due personaggi – e tra le forze che essi simboleggiano – è ancora aperto e da scrivere.

 

Immagine © Walt Disney Pictures/Walt Disney Italia, liberamente ripresa da ciakmagazine.it

Ultima modifica il Domenica, 06 Gennaio 2019 18:46
Jacopo Vannucchi

Nato a Firenze nel 1989. Ho conseguito la laurea triennale in Storia con una tesi sul thatcherismo e la magistrale in Scienze storiche con una ricerca su Palazzuolo di Romagna in età risorgimentale. Di formazione marxista, mi sono iscritto ai Democratici di Sinistra nel 2006 e al Partito Democratico nel 2007.

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