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Martedì, 16 Ottobre 2018 00:00

Questione climatica: un problema intrinsecamente capitalistico?

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L'ultimo report dell’Ipcc ha fatto sobbalzare il mondo intero. Gli obiettivi minimi di contenimento del riscaldamento globale a un livello di riscaldamento medio del pianeta di massimo 2°C, con l’ambizione di abbassare l’obiettivo a 1,5°C, starebbero clamorosamente fallendo, anche per via della deliberata violazione da parte di Paesi come gli Stati Uniti che considerano il riscaldamento globale una "bufala". Gli impatti ambientali e sociali del riscaldamento globale si moltiplicheranno e i media occidentali sembrano ignorare deliberatamente il problema.

Piergiorgio Desantis

Il riscaldamento globale e la questione ambientale non sono più temi in coda a tutti gli altri problemi delle nazioni sviluppate e in via di sviluppo. È, o almeno dovrebbe essere, il primo tema da affrontare da parte dei governi.

Si riscontrano, tuttavia, notevoli passi indietro dell’Occidente: primo fra tutti l'uscita degli Usa dagli accordi, già molto blandi, di Parigi. Diversamente, in Oriente il problema del clima e dell’ambiente è preso seriamente in considerazione. La Cina, soprattutto, ha elevato il tema ambientale nel 19° congresso del PCC a asset strategico e volano di sviluppo della nazione tutta. A ciò conseguono già dati significativi ovvero la riduzione del 54% delle polveri sottili a Pechino (e in diverse altre città), mentre in tutta la Cina è del 4,5% (vedi qui).

Il vero problema resta il modello di sviluppo. Abbiamo capito, ormai, che per il capitalismo reale la questione ambientale è compatibile solo se si coniuga con il profitto immediato. È sempre più necessario in Occidente, soprattutto a sinistra, fuoriuscire da questo modello, ormai obsoleto, e iniziare a costruire un modello alternativo, imparando dal passato ma con il pensiero al futuro. Questo sforzo non è più rinviabile perché è in pericolo il pianeta stesso.


Diletta Gasparo

La questione climatica assume, via via che il tempo passa, importanza sempre maggiore. Si tratta di un tema cruciale, di cui le penne del Dieci Mani hanno giustamente sottolineato il collegamento a doppio filo con il modello di sviluppo capitalistico. È, infatti, proprio sul piano sistemico che andrebbe affrontata la cosa per provare a salvare, in questo caso letteralmente, il pianeta.

Sottolineare come l'accelerarsi del cambiamento climatico sia effetto di un capitalismo che sta letteralmente fagocitando la terra, consumando materie prima ed emettendo gas serra, per garantire uno determinato stile di vita ad una parte della popolazione mondiale (ma facendone pagare le conseguenze materiali agli altri) è utile anche a livello sociale, per noi che ci definiamo militanti di sinistra, per capire come affrontare al meglio il tema quando ci raffrontiamo con la società che ci circonda.

Il punto è che oramai è passata l'idea, soprattutto tra i più progressisti tra di noi, che il sistema economico possa essere riconvertito in senso green. Quante sono le pubblicità che promuovono prodotti che "fanno bene all'ambiente", le pratiche di bike o car sharing che si stanno diffondendo o i comitati contro l'inceneritore o la discarica? Il punto, in realtà, è che lo stile di vita che ci "garantisce" questo sistema costa troppo da un punto di vista ambientale: per quanto il nuovo carburante sia ecofriendly, la sua produzione ha comunque comportato un grosso dispendio di energia e di gas, così come per quanto alcuni rifiuti possono essere riciclati, non potranno mai essere lavorati ad impatto zero e scomparire del tutto dalla superficie terrestre.

Questo commento non vuole essere un inno al ritorno ad una vita di stenti quanto piuttosto una piccola provocazione: credo che ognuno di noi abbia il dovere di acquisire la massima consapevolezza possibile che gli permetta di ridurre al minimo "il proprio" impatto ambientale (qui un test che permette, in modo approssimativo, di calcolare la propria impronta ecologica sul pianeta). Sapendo però che il problema è a livello di quantità e di modalità di produzione. E che, soprattutto, è una questione che sta allargando la faglia tra sfruttatori e sfruttati nel mondo.


Alex Marsaglia

Già nel 2030 ci troveremo a vivere con un grado e mezzo in più. Il riscaldamento globale infatti potrebbe superare la soglia di 1,5 gradi dai livelli pre-industriali già fra 12 anni, se i Paesi continueranno a produrre gas serra come oggi. In base a tali proiezioni nel 2100 arriveremo a +3 gradi e gli ultimi accordi stipulati dai grandi della terra contengono misure molto blande, inoltre l'Accordo di Parigi del 2015 è stato più volte criticato per la sua inefficacia avendo messo d'accordo solo Cina e Unione Europea.

Il processo industriale divenuto sempre più frenetico è giunto a immettere nell’atmosfera sempre maggiori quantità di gas, le conseguenze sono quelle che abbiamo già davanti ai nostri occhi: aumento della volatilità delle piogge con la destabilizzazione dei rifornimenti di cibo e acqua; maggior incidenza di eventi meteo estremi come uragani sempre più frequenti e più forti; l’acidificazione dell’acqua di mare con la perdita di buona parte dell’ecosistema marino e della fauna ittica; una riduzione dell’abitabilità di alcune regioni e conseguenti migrazioni; infine l’aumento del livello del mare.

Il successo del contenimento di un processo così grave è affidato a degli accordi quanto mai fragili per via dei costi da sostenere. Infatti, si calcola che solamente per contenere il riscaldamento globale entro il grado e mezzo servono investimenti ingenti: una spesa annua pari al 2,5% dell’intero Prodotto interno lordo mondiale per almeno 20 anni. Gli accordi per la riconversione energetica per le economie già sviluppate arriverebbero a drenare tutte le risorse investite, frenando la crescita di mercati già strutturati per andare a creare nuovi mercati green ed è essenzialmente per questo che Trump ha giudicato "poco convenienti" tali accordi, rifiutandoli in toto. Nulla di nuovo, il destino del mondo resta in mano alla legge del profitto che riesce a prevaricare anche il sapere della scienza e la razionalità che vorrebbe preservare l'ecosistema ideale alla sopravvivenza umana.


 Dmitrij Palagi

Il conflitto capitale-ambiente come parte del conflitto capitale-lavoro non è una novità. Una declinazione però mai realmente affermatasi nel campo del comunismo del Novecento, almeno come caratteristica qualificante per l'opinione pubblica e l'elettorato diffuso. Ancora oggi le principali organizzazioni sindacali si confrontano con difficoltà su tematiche in cui l'occupazione finisce per essere usata come minaccia da parte del mercato, per giustificare precarietà o licenziamenti.

La decrescita o le eterogenee proposte delle varie formazioni "verdi" si sono imposte, in assenza di complesse proposte alternative.

Con la crisi economica molta sensibilità "equa e solidale, a basso impatto ambientale" è stata trascinata via, essendo troppo spesso legata alla presunzione riformista di una globalizzazione del volto umano.

La credibilità degli allarmi sul riscaldamento globale è almeno in parte minata, anche se prevalentemente si è affermato una sorta di disinteresse. "Una soluzione si troverà... Intanto dobbiamo cercare di arrivare a fine mese, anche nell'occidente in cui si fanno quattro finanziamenti per un telefono ultimo modello e un televisore di fronte al quale insultare i flussi migratori".

Un ragionamento sulla sostenibilità dei modelli di sviluppo non può essere relegato alla dimensione astratta. Occorre trovare pratiche capaci di ipotizzarlo nella vita reale e quotidiana delle vittime di ogni mutamento climatico. Di chi non si potrà permettere risorse primarie, mescolate a nuovi diritti, tutti esclusivamente sul mercato e a pagamento.


Jacopo Vannucchi

In un mio articolo di gennaio osservavo la possibilità di un nuovo secolo nelle lotte per i diritti, quello della lotta per i diritti ambientali, ossia per giusti ritmi di vita e per la sopravvivenza stessa degli ecosistemi che conosciamo.
 
L’ex senatore repubblicano Chuck Hagel, che sostenne Obama nelle sue due presidenziali e fu poi nominato Segretario della Difesa, motivava così la propria opposizione alle armi nucleari: «Una volta che l’hai usata, non puoi più tornare indietro». Naturalmente lo stesso vale per tutte le armi, e anche un solo colpo di pistola sparato per errore può uccidere una persona senza che si possa tornare indietro. Ma la minaccia esistenziale della bomba atomica rende molto più terribile la prospettiva di immaginare un mondo a posteriori dal quale non si possa tornare.
 
Gli effetti del riscaldamento climatico sono certamente meno immediati di quelli atomici, ma, nel lungo periodo, sono persino più devastanti, provocando la sommersione delle coste, la sparizione di intere specie viventi in mare e in terra, la diffusione di fenomeni estremi quali uragani o siccità. Nella prima metà degli anni Sessanta due decenni di esplosioni atomiche avevano portato al raddoppiamento dell’attività radioattiva del Carbonio-14 nell’atmosfera terrestre. La firma del bando parziale sugli esperimenti nucleari nel 1963 ha portato a una graduale diminuzione e al rientro di fatto ai livelli naturali a cavallo del millennio.
Invertire gli effetti del mutamento climatico non è né così facile né così rapido. Sventare questa minaccia, per alcuni aspetti più grave della bomba atomica, si sta rivelando più ostico per due motivi. Anzitutto, mentre gli effetti del fungo atomico sono immediatamente visibili, quelli del riscaldamento climatico sono graduali e, come ricordava Al Gore, affini al principio della “rana bollita”: questa salterebbe immediatamente via se gettata in acqua bollente, ma se posta in acqua tiepida riscaldata poco a poco viene facilmente bollita viva senza resistenza.
Il secondo motivo, però, è relativo al sistema economico. La produzione di bombe atomiche non è co-essenziale al sistema economico, essendo di fatto una produzione di nicchia; inoltre, il danno ambientale viene arrecato dalle bombe che esplodono, non da quelle che sono meramente prodotte.
L’emissione di gas serra, invece, è al momento un dato strutturale del sistema produttivo capitalista: sia perché contemporaneo alla produzione stessa (con un impatto sempre maggiore delle emissioni dei grandi server informatici), sia perché la ricerca e l’applicazione di fonti di energia non inquinanti risulta sconveniente nell’immediato se il principio cui si punta è quello del profitto trimestrale o annuale.
Laddove esiste un potente regolatore pubblico dell’economia, su basi di interesse collettivo, invece, gli obiettivi sono diversi. La Cina ha raggiunto con tre anni di anticipo l’obiettivo 2020 sul taglio alle emissioni di anidride carbonica ed è il primo Paese al mondo per investimenti nelle rinnovabili (54% dei nuovi gigawatt da fotovoltaico nel mondo nel 2017). Insomma: un altro mondo è possibile, se è socialista.

Alessandro Zabban

La retorica dell’innovazione ha per molti anni fanno credere che ci fosse una “via capitalistica alla conversione ecologica”. L’impatto rivoluzionario della tecnologia digitale e della rete ha indotto molti a pensare che i cambiamenti climatici potessero essere risolti accelerando l’applicazione delle nuove tecnologie alla realtà senza mettere in discussione il sistema sociale soggiacente. Ancora oggi molti quando sentono parlare di innovative modalità di pulire gli oceani o di surrogati biologici della plastica si entusiasmano pensando che la soluzione ai problemi ambientali sia a portata di mano.

Ben vengano queste tecnologie, ci mancherebbe, peccato però che complessivamente le emissioni di gas serra aumentano in continuazione, i danni ambientali sono già enormi e la volontà politica di dare una risposta forte a una situazione così critica siano del tutto insufficienti. Occorrerebbe ogni tanto ricordarsi che la scienza non opera nell’iperuranio ma è molto spesso il riflesso delle strutture economiche e delle concezioni culturali della società. E le nostre società non sono esattamente adatte a risolvere il problemino dei cambiamenti climatici. Spogliato della sua aura sacra, il mito del progresso tramite il dominio tecnico della natura (che è la causa e non la soluzione al cambiamento climatico) si riduce oggi alla arida logica del profitto. Forse qualcuno avrà pensato che la sensibilità dei consumatori avrebbe responsabilizzato le imprese a cambiare il loro modello produttivo, o che queste ultime sarebbe state attratte dalle possibilità di profitto offerte dall’industria “green”. La mano invisibile avrebbe riportato a una situazione di equilibrio persino la natura! Ma l’ecosistema non si autoregola in funzione degli egoismi individuali e l’ambiente non è esattamente un’industria. Pensare che sia tale è proprio il motivo per cui siamo ora qua, sull’orlo del baratro. Se a questo si aggiunge che la logica consumistica non si è affatto attenuata ma bensì accentuata e che le disuguaglianze redistributive su base geografica, esito di una globalizzazione predatoria, incidono come un macigno sul boom demografico di molti paesi del terzo mondo o in via di sviluppo, si capisce che questo sistema è il meno adatto a fronteggiare la minaccia più grave che l’umanità si trova davanti.

Il modello però sta in piedi, non tanto per la fantomatica stupidità dell’essere umano (che è un concetto che ha poco senso) ma perché chi ora si sta arricchendo mettendo a frutto quelle logiche capitalistiche distruttive sa che potrà cavarsela molto meglio di fronte alle crisi ecologiche rispetto a chi ora vive in aree a rischio desertificazione o in capanne in zone colpite frequentemente da uragani e tifoni. E proprio per questo non ha nessuna intenzione di abbandonare il sistema che gli permette un salvacondotto per le zone sicure di un pianeta che si appresta ad essere sempre più disuguale, con enormi sacche di povertà, rischi ambientali e penuria di risorse e qualche oasi di benessere e tranquillità ad appannaggio di chi oggi potrebbe ma non vuole fare in modo che le cose cambino. Non è la stupidità a muovere l’umanità ma gli interessi contrapposti di classe.


Immagine di copertina di Leonhard Lenz liberamente ripresa da www.commons.wikimedia.org
Ultima modifica il Martedì, 16 Ottobre 2018 00:04
Dieci Mani

Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al "tema della settimana". Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).

A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.

www.ilbecco.it/diecimani.html

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