Erdogan ed UE: una relazione imbarazzante ma stabile

L’approvazione referendaria, seppur con stretto margine, della riforma costituzionale voluta da Erdoğan segna una ulteriore tappa nel processo involutivo del regime turco e nel tentativo di stabilizzazione autoritaria. Le congratulazioni provenute a Erdoğan dalle potenze mondiali (Stati Uniti, Russia, Cina) e dagli attori regionali, non solo sunniti (pensiamo all’Iran), tradiscono l’interesse di Realpolitik al rafforzamento di equilibri che garantiscano la pace, sia pure armata, nell’area.

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Il quadro mediorientale ha preso da qualche settimana a cambiare tutta la sUa parametratura; al tempo stesso le sue prospettive continuano ad apparire indeterminate. L'evoluzione di tale quadro ha il suo evento decisivo nella vittoria di Aleppo da parte del regime siriano, della Russia, dell’Iran e dei loro alleati minori.

A essa ha corrisposto una serie di fatti politici di grande portata, su iniziativa della Russia. la capacità di iniziativa degli stati Uniti, di converso, dato anche il risultato delle lezioni presidenziali, che già era debolissima e incoerente è precipitata a zero, essi sono stati addirittura esclusi da parte russa, finché sarà presidente Obama, dalla discussione in avvio sulle sorti politiche e istituzionali della Siria.

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Mercoledì, 06 Luglio 2016 00:00

Erdoĝan annaspa

L’attentato all’aeroporto di Istanbul, stando alla stampa italiana, sarebbe senz’altro attribuibile a Daesh. Le caratteristiche anche tecniche di quest’attentato richiamano effettivamente quelle degli attentati di Daesh in territorio siriano, iracheno, europeo, asiatico. Tuttavia Daesh ha sempre rivendicato i suoi attentati, e nessuno di quelli sofferti dalla Turchia sono stati rivendicati da Daesh. O meglio esso ha rivendicato in passato alcune operazioni effettuate in Turchia contro singole persone, come curdi legati alla militanza PYD del Rojava e operanti a ridosso del confine siriano. Inoltre sono senz’altro imputabili a Daesh (in collaborazione con i servizi di intelligence del MİT, la polizia e il governo AKP del pazzo criminale Erdoĝan) le stragi di Diyarbakır e Suruç del luglio del 2015, che colpirono rispettivamente un comizio elettorale del partito curdo legale HDP e una manifestazione di solidarietà di organizzazioni giovanili di sinistra con i combattenti curdi di Kobanê (Suruç è sul confine siriano), e la strage ad Ankara dell’ottobre successivo, che colpì un comizio elettorale sempre dell’HDP (ricordo che nel 2015 ci furono due momenti elettorali in Turchia).

A rendere dubbia, inoltre, tutta quanta la ricostruzione da parte turca dell’attentato all’aeroporto di Istanbul c’è che a una decina di giorni prima il MİT (o meglio un suo pezzo) aveva dichiarato al governo di ritenere prossimo un attentato in questa città, che il medesimo preavviso era stato dato dai servizi statunitensi, e che l’aeroporto di Istanbul era stato segnalato come uno dei possibili bersagli. Ancora, a rendere più che dubbia la ricostruzione del governo ci sta il fatto che la sorveglianza di polizia e militare dell’aeroporto non era stata rafforzata. Alimentare la “strategia della tensione” a suon di bombardamenti e massacri è stato da due anni a questa parte uno strumento fondamentale della politica interna di Erdoĝan, sia per conto della tenuta del consenso di cui dispone nella popolazione turca che a giustificazione, in una situazione di crescente isolamento internazionale, della sua guerra alla popolazione curda del sud-est.

Non si può tuttavia escludere in radice l’ipotesi che l’attentato all’aeroporto di Istanbul sia stato davvero effettuato da Daesh, sulla scia del deterioramento in corso dei rapporti Erdoĝan-Daesh. Adottiamo per un momento quest’ipotesi. Come i summenzionati attentati a Diyarbakır, Suruç e Ankara era inopportuno che fossero rivendicati da Daesh, perché avrebbero messo in chiaro il legame cooperativo Erdoĝan-Daesh e avrebbero danneggiato le campagne elettorali del partito di governo AKP, così una mancata rivendicazione da parte di Daesh dell’attentato all’aeroporto di Istanbul potrebbe significare che esso non dia per scontata una rottura politica definitiva con la Turchia, e che sarebbe appunto per impedirla che abbia realizzato quest’attentato. Esso cioè rappresenterebbe questo messaggio al potere turco: “o continui ad appoggiarci o noi continueremo a colpirti con stragi disastrose”.

Il deterioramento dei rapporti Erdoĝan-Daesh è in ogni caso reale. Questi rapporti erano parte, dal lato di Erdoĝan, di più ragionamenti. Il primo, la fungibilità di Daesh, e delle altre organizzazioni armate sunnite, all’obiettivo, attraverso la devastazione della Siria, di portarla o di portarne una parte sotto controllo politico turco, nel quadro dell’obiettivo megalomane della ricostituzione del califfato ottomano. Il secondo, il fatto che Daesh appariva un partner importante, come altre organizzazioni armate sunnite, prima di tutte al-Qaeda, dello schieramento di stati (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrein, appunto Turchia) che tira alla guerra generale (già cominciata in Yemen) contro gli stati sciiti, cioè contro l’Iran e lo stesso Iraq attuale (tra gli obiettivi turchi c’è anche il controllo del Curdistan iracheno e possibilmente dell’area di Mosul). Non solo. Daesh vendeva alla Turchia (o meglio al clan familiare di Erdoĝan e ai suoi sodali stretti dentro all’AKP) il petrolio estratto nei territori siriani sotto suo controllo, ricevendone in cambio la piena libertà di movimento e di transito, la protezione, la cura ospedaliera dei feriti, il rifornimento di armi, informazioni militari ecc. in territorio turco per i suoi assassini, grazie al fatto che Daesh controllava un tratto del confine turco-siriano. Infine Daesh risultava essere un prezioso alleato nella guerra di Erdoĝan ai curdi siriani, partecipi di un movimento politico vicino al PKK curdo-turco. Ma poi le cose sono cambiate, e abbastanza velocemente.

Daesh è precipitato in grandi difficoltà militari: la Russia è intervenuta in termini efficaci a sostegno del regime di Assad, ciò ha obbligato gli Stati Uniti a incrementare il loro intervento, ad armare i curdi siriani, a smetterla, retorica politica a parte, con la tesi sballata della doppia guerra a Daesh e a questo regime, ecc. In Iraq le cose si sono mosse nel medesimo senso. I curdi siriani sono diventati i migliori alleati degli Stati Uniti, per la loro capacità militare. Sempre sotto traccia gli Stati Uniti hanno smesso di considerare alleati effettivi Arabia Saudita, Israele, altre petromonarchie sunnite, e hanno deciso di considerare come loro vero alleato fedele nella regione l’Iran. Il tratto di confine tra Siria e Turchia non ancora sotto controllo curdo, infine, è stato chiuso: i bombardamenti russi vi hanno demolito ogni realtà armata ostile al potere siriano, poi è stato largamente occupato da truppe non solo siriane ma anche russe, sicché la Turchia non può intervenire militarmente a riaprirlo. In breve, tutte le condizioni del progetto di Erdoĝan sono venute meno. L’isolamento internazionale non era più, perciò, il prezzo che valeva la pena di pagare, ma era diventato un danno grave all’economia e alle condizioni popolari di vita in Turchia.

Per quanto profondamente malata di sciovinismo e di razzismo, la popolazione turca aveva votato per Erdoĝan non tanto perché facesse la guerra ai curdi ma perché migliorasse le condizioni popolari di vita e portasse tranquillità al paese. Di qui allora due atti, repentini, di svolta da parte di Erdoĝan. Il primo, l’abbandono di Daesh al suo destino, considerandone scontata la sconfitta militare e considerando ormai impossibile la realizzazione di un’egemonia turca sulla Siria, in quanto protetta dalla Russia e, sul versante curdo e su quello sunnita, dagli Stati Uniti. Residua una possibilità di egemonia sulla parte settentrionale dell’Iraq, usando l’alleato Barzani cioè il presidente corrotto del Curdistan iracheno: ma per tentarla occorre che Erdoĝan recuperi il rapporto con qualcuno di significativo in più oltre all’Arabia Saudita. In attesa di provarci con la Clinton o con Trump (con Obama la partita è chiusa), Erdoĝan è quindi andato a Canossa, cioè ha concordato con Israele l’indennizzo alle famiglie dei pacifisti turchi uccisi mentre tentavano di portare cibo a Gaza assediata da quest’altro assassino, e ha chiesto scusa a Putin per l’abbattimento dell’aereo militare russo sul confine turco-siriano. Tra parentesi, anche Israele ha in questo momento il problema del proprio isolamento internazionale. Attraverso il recupero di rapporti con Israele Erdoĝan si è dunque assicurato importanti rifornimenti energetici e aiuti tecnologici. Attraverso quello con la Russia, rifornimenti energetici non a rischio, la fine di sanzioni russe economicamente molto pesanti (blocco del turismo russo, blocco dell’importazione di frutta e verdura dalla Turchia, ecc.). Anche i rapporti della Turchia con l’Egitto sono destinati a migliorare (erano diventati pessimi a seguito della condanna da parte turca del golpe militare egiziano, che aveva colpito un presidente membro dei Fratelli Mussulmani, la medesima confraternita politico-religiosa cui appartiene Erdoĝan).

Tutto questo gioca evidentemente a favore dell’ipotesi di un’effettiva rottura tra Erdoĝan e Daesh. In ogni caso non occorrerà molto tempo per capire meglio le cose.
Ma se esse stanno così saranno guai grossissimi per la Turchia; la sua popolazione e la sua economia pagheranno un prezzo drammatico alla follia di Erdoĝan. La Turchia è stata in questi anni la retrovia fondamentale di Daesh, e con ciò il luogo nel quale le simpatie per Daesh hanno coinvolto migliaia di persone, solo parte ridotta delle quali è andata a combattere in Siria o in Iraq. Il telaio di supporto in Turchia a Daesh era grosso e articolato, e tale continua a essere. Ci sono quindi in Turchia migliaia di militanti di Daesh, turchi o provenienti dalla Russia e dall’Asia centrale, ben organizzati e in grado di mettere bombe e di sparare sulla gente. Inoltre Daesh ha legami stretti con pezzi di polizia e del MİT. Non va trascurato che sotto il vestito dello stato parlamentare, di diritto, caratterizzato dalla divisione dei poteri, dall’autonomia della magistratura, dalla fedeltà delle forze armate allo stato ecc. con il quale la Turchia di Erdoĝan si camuffa c’è una realtà, tutta rovesciata, che fa di ogni struttura e di ogni apparato dello stato e di ogni potere turchi, compreso quello militare, un coacervo di gruppi e di cosche che operano secondo la loro logica, le loro convenienze e i loro traffici, in genere illegali, hanno intrecci orizzontali tra loro, hanno rapporti con potenze straniere, tra le quali le petromonarchie arabe, grandi finanziatrici del terrorismo sunnita in tutte le sue varianti.

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Accordo UE - Turchia sui migranti: ennesima opportunità mancata
Rifugiati e politiche europee. Un’intervista ad Alessandra Sciurba

Oggi, 4 aprile, diventa operativo l’accordo dell’Unione Europea con la Turchia (ne avevamo già scritto qui). L’Europa, hanno sottolineato in molti, risponde alla crisi dei migranti mostrando un volto disumano e irrazionale. L’accordo firmato con la Turchia mette in luce l’assenza di una reale politica europea ed è sbagliato sotto numerosi aspetti.
È sbagliato dal punto di vista del diritto internazionale, perché viola i principi del diritto d'asilo stabilendo procedure che non solo rendono quasi impossibile applicare la Convenzione di Ginevra e tutte le altre norme sulla protezione internazionale, conferendo inoltre alla Turchia un ruolo che non dovrebbe ricoprire in quanto paese che viola i diritti umani. È sbagliato dal punto di vista umano perché assoggetta migliaia di persone a norme inapplicabili in campi profughi che velocemente perderanno ancora di vivibilità; infine, è sbagliato, dal punto di vista economico perché regala alla Turchia molte migliaia di euro a richiedente asilo invece di usarli in Europa per reali politiche di accoglienza.

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Il vertice del Consiglio Europeo tenutosi a Bruxelles il 7 marzo avrebbe dovuto sciogliere il nodo dell'emergenza migranti che l'Europa sta vivendo. Nei fatti, come prevedibile, si è optato per l'ennesima toppa che può arginare il problema, senza però prendere in considerazione né le cause né le conseguenze di queste decisioni.

Il vertice, svoltosi alla presenza dei 28 capi di stato e di governo dei paesi membri e del Primo Ministro turco Davutoğlu, è stato concluso con l'annuncio che l'afflusso attraverso la cosiddetta rotta balcanica (Siria, Anatolia, Grecia) sarà chiusa ma per i dettagli il Consiglio si è aggiornato al 17 marzo. La necessità di un nuovo incontro è dovuta alle nuove richieste messe sul tavolo dalla Turchia: altri 3 miliardi di euro (in aggiunta ai 3 già concordati) per gestire l'emergenza umanitaria, l'eliminazione dell'obbligo di VISA per i cittadini turchi per entrare nei paesi UE già da aprile (invece che in autunno), il rilancio della trattativa per l'ingresso del paese nell'Unione Europea ed infine un accordo che preveda la regolarizzazione su suolo europeo di un rifugiato presente in Turchia per ogni rifugiato riaccolto dal paese dalla Grecia.

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Lunedì, 04 Gennaio 2016 00:00

Il Vecchio Continente impotente

È passato quasi un mese da quando il caccia F16 che ha abbattuto il Sukhoi Su-24 russo nella zona liminale tra lo spazio aereo turco e quello siriano ha soffocato sul nascere ogni ipotesi di grande coalizione contro il Califfato. In quella sottile striscia di cielo ad andare in frantumi è stata tutta la retorica confezionata nelle settimane precedenti dalla leadership occidentale, e dai suoi portavoce a reti unificate, sulla civiltà da opporre al barbaro alle porte. Il delirio alla fin fine rassicurante sullo scontro di civiltà è stato bruscamente ricondotto sul terreno del nudo scontro di potenza, all’interno del quale ognuno gioca la propria partita a prescindere da presunti interessi comuni a tutto “il mondo libero”, ed ognuno combatte un’assurda guerra senza che della guerra sia enunciato uno dei presupposti fondamentali, ossia il nome del nemico.
In questo quadro, una volta preso atto della scellerata spregiudicatezza delle élites di Ankara, dell’evidente impossibilità per la Francia di risolvere unilateralmente una centenaria questione di carattere globale (fatta salva l’immediata e scontata reazione dimostrativa), e della coerente ma per molti indigesta strategia russa di identificazione tra lotta al Califfato e stabilità del regime baathista in Siria, l’interrogativo più grande sul tappeto rimane l’atteggiamento degli Stati Uniti, in bilico tra la propensione ad una svolta da più parti invocata come necessaria, e lasciata intravedere nel momento dell’appeasement con Teheran, e l’ancoraggio ad uno status quo geopolitico di lunghissimo periodo.

Arabia Saudita e Turchia, in questo senso, rappresentano gli snodi essenziali delle contraddizioni occidentali. Paradossalmente, la potenza egemone risulta incapace di affrancarsi da una sorta di “patronage alla rovescia” esercitato dagli alleati minori, forti della loro debolezza e della loro sbandierata insostituibilità. La necessità di puntellare il regime del terrore saudita e gli scogli che esso frappone alla legittimazione dell’Iran come attore di primo piano della regione; l’appoggio incondizionato ad Erdogan, espresso ancora a caldo nell’ora della patente dimostrazione della sua irresponsabilità; la volontà di escludere un qualsiasi ruolo russo nel Mediterraneo, che Mosca inevitabilmente si ritaglierebbe se inserita nella coalizione anti-Califfato: tutto ciò è alla fine giunto in rotta di collisione con la proclamata volontà di lottare uniti contro l’avanzata dell’ISIS. Nonostante la retorica imperante e la solidarietà di maniera, non è detto che sia sufficiente la tragica morte di duecento persone in territorio francese, nessuna delle quali peraltro di nazionalità americana (un dettaglio che ha un suo peso), a convincere il Presidente Obama e la complessa macchina dell’Amministrazione USA a stravolgere un’inerzia geopolitica operante da più di mezzo secolo: lo ha dimostrato il recente incontro tra Obama ed Hollande, ricco di parole quanto vacuo nel profilare soluzioni concrete. Ed infatti, mentre John Kerry continua a perorare la causa di una presunta “opposizione moderata” al regime di Assad, realmente esistente, forse, soltanto in qualche sottoscala di Langley, cominciano a prender campo piani a tavolino di destrutturazione dello Stato siriano e di quello iracheno lungo linee etniche e confessionali, senza che i popoli direttamente interessati siano minimamente interpellati.

Già a seconda guerra mondiale ancora in corso il Presidente Franklin D. Roosevelt, cosciente del ruolo giocato dall’approvvigionamento petrolifero nelle guerre moderne, aveva affermato che “la difesa dell’Arabia Saudita è vitale per la difesa degli Stati Uniti”, ed alla fine del conflitto la dinastia regnante a Riad aveva concesso al Pentagono l’utilizzo della base di Damman “per dimostrare che la sicurezza dell’Arabia Saudita dovrebbe costituire un impegno vitale per entrambi i paesi”. Dagli anni Settanta in poi il legame era destinato ad intensificarsi, nel momento in cui i petrodollari accumulati a Riad in seguito allo shock petrolifero cominciarono ad esercitare una decisiva funzione di stabilizzazione della bilancia commerciale statunitense. Arabia Saudita ed emirati del Golfo sono ancor oggi i terzi finanziatori esterni del debito di Washington, dopo Cina e Giappone, grazie soprattutto all’assorbimento di ingente tecnologia militare americana. Provvidenziale per gli USA è poi il ruolo dei sauditi all’interno dell’OPEC, a garanzia dell’attuale ribasso (del resto contenuto, per non penalizzare le estrazioni in Alaska o Texas) del prezzo del greggio. Una centralità geopolitica, quella di Riad, se possibile amplificata – ancora a partire dalla fine degli anni Settanta – dalla cacciata dello Scià da Teheran e conseguente diserzione persiana dal fronte egemonizzato dagli USA.

Altrettanto paralizzante il pluridecennale abbraccio sul fronte turco, risalente allo scoppio della guerra fredda. Dal ’47 in avanti gli Stati Uniti hanno sempre fornito appoggio incondizionato a qualsiasi regime al potere ad Ankara, purché garante dell’esclusione della presenza sovietica nel Mediterraneo: i missili russi installati a Cuba e rivolti contro le coste della Florida furono non a caso giustificati dalla leadership sovietica come una risposta a quelli americani presenti in Turchia; e la crisi nucleare fu superata soprattutto grazie al simultaneo smantellamento di entrambi i sistemi missilistici. La volontà di estromettere l’URSS dal Mediterraneo aveva già condotto gli Stati Uniti ad incrociare minacciosamente con proprie portaerei le acque di Damasco nel 1958, e prima ancora (1953) ad appoggiare i piani inglesi di destabilizzazione contro il governo iraniano di Mossadeq.

Emerge, nel caos che si è cercato di descrivere, l’impotenza del Vecchio Continente, un fattore che è quasi diventato una nota a margine fissa quando si tratta di disegnare scenari geopolitici. Oggi più di ieri la radice dell’afasia pare risiedere nella mancata presa d’atto della divergenza tra gli interessi americani e quelli degli europei, che da anni ormai combattono guerre per procura, salvo poi ritrovarsi a subirne le conseguenze più spiacevoli. Nell’impossibilità di costruire una grande coalizione che, oltre a sconfiggere il Califfato, si impegni per una soluzione complessiva, pacifica e multipolare, della questione mediorientale, l’avventurismo turco e la politica patentemente filo-terrorista di Riad, imbaldanziti dall’impunità assicurata loro fino a questo momento dagli Stati Uniti, rischiano di far saltare il tabù dello scontro diretto tra le superpotenze. Al di là della retorica occidentalista, l’Europa non può davvero permetterselo.

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L’Occidente in balia di un criminale impazzito? Già accadde

La versione turca degli avvenimenti che hanno portato all’abbattimento dell’aereo militare russo fa acqua. Gli Stati Uniti hanno dichiarato, sulla base delle riprese dei loro satelliti, che l’aereo russo ha sorvolato per 17 secondi una lingua di territorio turco che si insinua in territorio siriano. Questo vuol dire che i 5 minuti nel corso dei quali messaggi turchi avrebbero imposto per 10 volte all’aereo russo di abbandonare lo spazio aereo turco o sono stati effettuati tutti a un aereo russo fuori da tale spazio, oppure che solo un messaggio lo ha raggiunto mentre si trovava in esso.

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Giovedì, 26 Novembre 2015 00:00

Tocchiamo ferro

Tocchiamo ferro

E’ di qualche ora fa la notizia dell’abbattimento di un aereo militare russo, tramite missile aria-aria, da parte di un aereo militare turco sul lato più occidentale del confine tra Turchia e Siria. Da parte turca è stato affermato che l’aereo russo aveva sconfinato e che era stato invitato più volte a uscire dallo spazio aereo turco, e che solo a seguito della continuazione dello sconfinamento e dell’avvicinamento di un altro aereo russo sarebbe avvenuto l’abbattimento. I due piloti russi sarebbero riusciti a paracadutarsi. Il territorio sul quale l’aereo russo si è schiantato e i due suoi piloti sono scesi è siriano. E’ un territorio montagnoso controllato da un gruppo ostile al governo siriano composto da miliziani siriani di etnia turcomanna, probabilmente legata allo Stato Islamico e che aveva recentemente subìto bombardamenti da parte dell’aviazione russa. Questo gruppo ha dichiarato che uno dei due piloti era gravemente ferito e che è deceduto. L’altro parrebbe essere prigioniero. Veniamo alle dichiarazioni russe. L’abbattimento dell’aereo sarebbe avvenuto sulla Siria alla distanza di quattro chilometri circa dal confine con la Turchia, hanno affermato fonti militari. Da parte di Putin c’è stata una dichiarazione molto dura: la Russia è stata “colpita alle spalle” dai sostenitori dello Stato Islamico, ci saranno conseguenze. Una seconda dichiarazione ha affermato che l’aereo abbattuto stava sorvolando il passaggio di una colonna di autobotti che trasportava in Turchia petrolio dal territorio siriano controllato dallo Stato Islamico. Va da sé, credo, che anche se fosse accaduto uno sconfinamento russo l’abbattimento dell’aereo sarebbe totalmente ingiustificato e irresponsabile.

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Martedì, 13 Ottobre 2015 00:00

Attentato ad Ankara

Non ci sono parole per quello che è accaduto ieri ad Ankara, l’attentato terroristico durante una manifestazione pacifista, che ha costato la vita a 95 persone (per ora) e causato gravi danni a tantissime altre.

Non è passato molto tempo dall’altro, terribile attentato a Suruç  - rivendicato poi dalle truppe dell’ISIS –  che per sempre lascerà nei nostri occhi l’immagine straziante di quel selfie di giovani e giovanissimi che lanciavano un appello di pace e di speranza, per sempre interrotto dalla brutale violenza di chi la pace non la vuole. Ieri un altro messaggio di pace è stato abortito e quel che resta  è  una grande ferita che non riesce a sanguinare commenti, anche se dovrebbe. Una grande ferita che dovrebbe rimanere incisa in tutta la comunità internazionale. Quello che sta succedendo in Turchia non dovrebbe essere più tollerabile. Un capo di stato che vuole imporre tutta la sua autorità e che impedisce una convivenza pacifica con la comunità dei curdi, che fa di tutto per spazzare via il partito filo-curdo dell’HdP che lo scorso giugno, conquistando il 13% dei consensi durante le elezioni parlamentari è riuscito ad entrare in parlamento impedendo all’AKP  di Erdogan di ottenere ancora una volta la maggioranza assoluta.

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Sono recentemente usciti due libri sulla lotta dei curdi di Kobanê contro lo Stato Islamico, che decisamente meritano di essere letti e fatti leggere.

Il primo, edito da Edizioni Alegre, titola Kobane, diario di una resistenza, ed è stato realizzato da “staffette di solidarietà”, composte da giovani legati alla rete Rojava calling di associazioni, collettivi, centri sociali e singoli individui, che si sono recate dall’ottobre del 2014 al marzo scorso in questa città. Il secondo libro, edito da Agenziax, titola Kobane dentro, è stato scritto dal giornalista freelance Ivan Grozny Compasso, che si è recato a Kobanê nel dicembre successivo. Ambedue i libri sono reperibili od ordinabili presso le sedi delle edizioni Feltrinelli.

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