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Come che siano andate le cose, paiono comunque evidenti le reciproche intenzioni, una più pericolosa dell’altra. Quella del regime siriano è di evitare di trovarsi a gestire, come invece tende ad accadere, una ridotta porzione del territorio siriano, rappresentata dalla metà meridionale della sua metà occidentale, dalla striscia costiera e dal suo immediato retroterra (sotto stretto controllo russo), dal corridoio che a nord porta verso Aleppo nonché da questa città (quasi tutto il nord-ovest essendo invece in mano all’ELS, alla Turchia, ecc., e l’est sempre più all’FDS). Una tale prospettiva renderebbe inevitabile, al termine del conflitto o ancor prima, la fine del regime, l’esilio di Assad, ecc., probabilmente anche con il consenso di Russia e Iran. Mentre l’intenzione, quanto a Trump, pare ormai essere il controllo stabile, per il

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Mercoledì, 17 Maggio 2017 00:00

Le spese militari, in costante aumento

Il monito di Jorge Bergoglio sulla “terza guerra mondiale a pezzetti” trova una sinistra conferma dall’ultimo report dell’International Peace Research Institute di Stoccolma, nel quale si rileva che i governi in tutto il mondo hanno speso l’anno scorso qualcosa come 1.686 miliardi di dollari in spese militari. Una somma inimmaginabile, tale da far capire come i movimenti contro la guerra abbiano profonde ragioni nel denunciare lo stato delle cose, in un pianeta nel quale un quarto della specie umana sopravvive a stento.

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Crisi in Venezuela: che destino per la rivoluzione bolivariana?

Il governo venezuelano di Maduro in questi ultimi mesi si trova di fronte a una grave crisi di consenso che tuttavia andrebbe indagata a fondo per capirne le reali cause. Se da un lato vi sono stati errori strategici di gestione della rivoluzione, già chiaramente riconoscibili nell'ultimo periodo di governo Chavez, oggi siamo di fronte alla stretta finale di ciò che resta della rivoluzione bolivariana.

La borghesia compradora ancora fortissima in un paese dal passato coloniale così importante è tornata a sferrare il suo attacco nel momento di maggior fragilità e isolamento del Venezuela incamminato sulla strada del Socialismo del XXI secolo. Non ci sono più né Fidel Castro né Hugo Chavez e il contesto internazionale, con l'imperialismo di Trump scatenato, appare propizio.

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Erdogan ed UE: una relazione imbarazzante ma stabile

L’approvazione referendaria, seppur con stretto margine, della riforma costituzionale voluta da Erdoğan segna una ulteriore tappa nel processo involutivo del regime turco e nel tentativo di stabilizzazione autoritaria. Le congratulazioni provenute a Erdoğan dalle potenze mondiali (Stati Uniti, Russia, Cina) e dagli attori regionali, non solo sunniti (pensiamo all’Iran), tradiscono l’interesse di Realpolitik al rafforzamento di equilibri che garantiscano la pace, sia pure armata, nell’area.

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Il decreto Minniti e la questione della sicurezza

Con le “Disposizioni urgenti per la tutela della sicurezza delle città” e le “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché misure per il contrasto dell’immigrazione illegale” torna al centro del dibattito l'ambito del diritto per quanto concerne la repressione dell'illegalità. Mentre le "città ribelli" (i sindaci alternativi al centrosinistra del Partito Democratico) hanno lanciato mobilitazioni lo scorso sabato in tutta Italia, Orlando (il candidato ufficiale della "sinistra" interna alle primarie della forza di Governo) e gli ultimi fuoriusciti ex DS difendono la bontà della legislazione.

Le categorie sociali più deboli accendono sempre gli animi di chi è meno debole, incrociando le pulsioni giustiziaste e confondendo spesso i temi in discussione (in un periodo dove anche la "legittima difesa" occupa larga parte del dibattito televisivo nazionale). Su questo le nostre otto mani.

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Bombardamento statunitense in Siria: monito o premessa?

Dopo mesi di combattimenti in cui la fortuna bellica stava gradualmente iniziando a sorridere ad Assad e al suo alleato russo a danno dei ribelli sia "moderati" che islamisti, nella notte fra il 6 e il 7 Aprile gli Stati Uniti hanno lanciato il primo attacco deliberato contro obiettivi militari del governo siriano, rimescolando nuovamente le carte di una crisi regionale sempre più allarmate.

Il pretesto, un bombardamento che si presume condotto dall'aviazione governativa nella provincia di Idlib con armi chimiche e che ha causato la morte di almeno 86 persone, ma le cui dinamiche e responsabilità sono ancora tutte da verificare, ha portato l'amministrazione Trump a spingersi su posizioni interventiste incassando l'immediata approvazione di Ankara e di molti leader europei. Molto dura invece la Russia che parla di violazione illegittima della sovranità nazionale.

Resta da capire se si tratti solo di un attacco dimostrativo oppure se Trump abbia veramente l'intenzione di aprire un fronte militare in una zona delicatissima del pianeta, in un paese martoriato e diviso in cui si scontrano gli interessi geopolitici delle principali potenze mondiali. 

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Il quadro mediorientale ha preso da qualche settimana a cambiare tutta la sUa parametratura; al tempo stesso le sue prospettive continuano ad apparire indeterminate. L'evoluzione di tale quadro ha il suo evento decisivo nella vittoria di Aleppo da parte del regime siriano, della Russia, dell’Iran e dei loro alleati minori.

A essa ha corrisposto una serie di fatti politici di grande portata, su iniziativa della Russia. la capacità di iniziativa degli stati Uniti, di converso, dato anche il risultato delle lezioni presidenziali, che già era debolissima e incoerente è precipitata a zero, essi sono stati addirittura esclusi da parte russa, finché sarà presidente Obama, dalla discussione in avvio sulle sorti politiche e istituzionali della Siria.

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Lunedì, 26 Dicembre 2016 00:00

Nuova svolta in Medio Oriente

Nuova svolta in Medio Oriente (a dieci mani)

La guerra civile siriana ormai giunta al suo quinto anno ha vissuto molti episodi di svolta che apparivano decisivi e si sono poi rivelati quantomeno effimeri. La verità è che il contesto in cui si inserisce vede un quadro geopolitico in cui le principali potenze emergenti del mondo sempre più multipolare si scontrano con l’Impero decadente americano che adotta strategie pericolosamente affini a quelle dell’Isis e delle varie formazioni jihadiste. Questa settimana proponiamo un’analisi dell’ultima svolta dettata dalla riconquista del fronte governativo siriano della città di Aleppo, in concomitanza, o quasi, con l’omicidio in Turchia dell’ambasciatore russo Andrey Karlov.

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Nel suo ultimo lavoro Domenico Moro prosegue la sua analisi iniziata in Globalizzazione e decadenza industriale indagando le ricadute della disgregazione sociale e produttiva sui vari territori dominati dall'imperialismo. Questo concetto, tanto fondamentale quanto dimenticato (proprio nel centenario dalla pubblicazione del celebre L'imperialismo. Fase suprema del capitalismo di Lenin!), viene posto al centro del saggio. La scelta dell'autore di portare nel dibattito sulla Terza guerra mondiale il tema dell'imperialismo è fondamentale, poiché senza partire da un'analisi dell'accumulazione su scala globale e della sua crisi non si possono affatto capire le dinamiche che agiscono alla base dei nuovi conflitti e ancor meno inserirli in una coerente concezione dei rapporti di forza tra Stati.

Così, partendo da una ricognizione sul ruolo dell'imperialismo che vede nei Paesi centrali una «concentrazione del potere economico nelle mani di élite molto internazionalizzate nei loro legami e rapporti economici, cui corrisponde una concentrazione del potere politico mediante una trasformazione oligarchica delle istituzioni statali», si giunge, tramite «la stagnazione cronica del modo di produzione capitalistico nei suoi punti più alti di sviluppo, dove si produce una tendenza permanente al calo del saggio di profitto» alla «tendenza all'espansionismo verso l'esterno»1. Dunque, in una condizione di stagnazione dei mercati interni, il surplus produttivo e i capitali vengono esportati allo scopo di trovare maggiore redditività in mercati in cui il margine di profitto è più elevato. Tuttavia, ciò che è fondamentale capire secondo Moro è che «l'aumento della concorrenza tra imprese e tra aree economiche sovranazionali» è tale per cui la «concorrenza non si combatte soltanto attraverso i meccanismi impersonali del mercato mondiale autoregolato», bensì ci «si avvale anche della forza degli Stati»2 i quali continuano dunque a esercitare un ruolo imprescindibile. Quindi la capacità di «proiezione di forza» diventa un elemento fondamentale nella geopolitica attuale.

Il discorso sviluppato dall'autore diventa ancor più interessante quando viene affrontato di petto il ruolo della religione in quanto “oppio dei popoli”, nella quale si rispecchiano le sofferenze di un'umanità afflitta dall'oppressione del capitale, per cui «la religione retroagisce sulla stessa struttura economico-sociale e sugli assetti di potere politico contribuendo a modificarli»3. Dunque, la religione esercita una funzione ben più materiale di quanto si possa immaginare, in quanto «più che rispondere alla paura della morte, cioè ai problemi dell'aldilà, risponde alla paura, alle sofferenze della vita, cioè ai problemi dell'aldiquà»4. Il problema che sorge nella postmodernità è quindi dettato dalla perdita di senso del futuro e della vita stessa, in particolare nelle classi proletarie e sottoproletarie vittime della globalizzazione. A questo problema ha saputo rispondere con abilità la religione e in particolare il fondamentalismo islamico sembra aver interpretato al meglio la desecolarizzazione affermatasi con la globalizzazione e il venir meno dell'alternativa rappresentata dai movimenti di liberazione nazionale. In questo senso Moro, riportando l'esempio dei Fratelli musulmani, ne parla esplicitamente come «“terza via” tra subalternità all'Occidente e movimenti di liberazione nazionale»5.

L'analisi del rapporto tra imperialismo e religione islamica è però attenta ad evitare una semplificazione comune nel mainstream che tende a ridurre l'islam ad un blocco omogeneo con tendenze autoritarie. Infatti, se si riconosce che il radicalismo islamico iniziò ad affermarsi a partire dalla rivoluzione iraniana del 19796, si distingue l'eterogeneità del fenomeno in relazione ai contesti, per cui divengono chiaramente distinguibili i due modelli dell'Arabia Saudita e dell'Iran. Nel primo caso la forte saldatura tra fondamentalismo religioso e radicalismo politico islamico avviene all'interno di uno sviluppo dipendente, in cui «il rapporto con i Paesi del centro economico mondiale impone a questi Paesi di rimanere nella condizione prevalente di fornitori di materie prime e di manodopera a basso prezzo», cioè vi è una economia prevalentemente extravertita per dirla con Samir Amin, in cui le imprese producono «non per il mercato locale, che rimane depresso, ma per i mercati europei»7. In questo tipo di economie gli interessi feudali, nel caso dell'Arabia Saudita prevalentemente legati alla rendita petrolifera, tornano prepotentemente al centro della scena, determinando una regressione all'economia parassitaria e all'islam primitivo. I legami di tali economie con il centro dell'imperialismo, tramite l'inserimento di questi nuovi rentier all'interno della classe capitalistica transnazionale, non fanno che rendere più pericoloso l'imperialismo creando legami sempre più solidi tra il centro e le visioni arcaiche e tradizionaliste dell'islam. L'Iran islamico, pur caratterizzandosi per «la violenta e sanguinosa eliminazione delle formazioni laiche e di sinistra e in particolare del partito comunista, tutt'ora illegale»8, con la rivoluzione islamica del 1979 seppe mobilitare la «base di classe tra le masse povere», compiendo quella che «è stata forse l'ultima rivoluzione antimperialista di successo del ciclo storico della decolonizzazione»9. Certamente l'egemonia del clero sciita iraniano seppe leggere in anticipo i tempi nell'area mediorientale e ciò gli consentì di sostituire abilmente lo strumento ideologico in grado di saldare le masse facendo venir meno l'elemento laico e socialista. Altrettanto certamente la rivoluzione del 1979 ha creato una rottura di faglia nell'area mediorientale le cui conseguenze si riverberano ancora profondamente nel presente e il saggio di Moro sembra coglierle appieno quando descrive le forme complesse di un conflitto che si trascina da ormai oltre un trentennio nella «lotta per l'egemonia locale»10.

Parallelamente, la centralità economica dell'area mediorientale ha inevitabilmente condotto ad una fase di sempre più aperta conflittualità nelle aree periferiche dove allo schieramento americano si è opposto con sempre maggiore fermezza quello russo-cinese. L'innalzamento del livello dello scontro viene descritto tramite le “proxy war” che hanno ormai preso piede in tutta l'area periferica (si pensi all'Africa dove all'avanzata cinese si oppone il neocolonialismo francese) e che sono giunte ormai fino all'interno dell'Europa (si pensi alla situazione in Ucraina). Insomma, tramite l'attenta ricostruzione della saldatura avvenuta tra imperialismo e religione e l'utilizzo di nuovi concetti, come per l'appunto quello di “proxy war”, l'autore ci spiega come oggi l'obiettivo non sia più necessariamente quello di «esercitare un controllo su una certa area per sfruttarne le risorse», bensì sia quello di «sottrarre un'area al controllo dei concorrenti o impedire che questi ne usino liberamente le risorse»11. In questo senso il caos diventa una vera e propria arma al servizio dell'imperialismo. E sempre in quest'ottica il fondamentalismo religioso diventa il vero e proprio braccio armato dell'imperialismo in grado di destabilizzare aree di interesse vitale, nonché di deviare l'attenzione nel centro stesso dell'imperialismo, consentendo di instaurare Stati di diritto eccezionale (perpetui?) e mantenere in piedi complessi militar-industriali sempre più mastodontici e comunque utili come sostegno al capitale in crisi. Dopo gli attacchi a “Charlie Hebdo” (nel gennaio 2015), di Parigi e Bruxelles (nel marzo 2016) diventa indispensabile guardare con attenzione al Medio Oriente e leggere con scrupolo l'attuale fase imperialista in cui il radicalismo islamico certamente diventa il protagonista, ma in un contesto di competizione globale che trascende il Medio Oriente stesso e il saggio di Moro ci aiuta proprio in questa necessaria opera di chiarificazione.

1 D. Moro, La terza guerra mondiale e il fondamentalismo islamico, Imprimatur, Reggio Emilia, 2016, pp. 110 – 111.
2 Ivi, p. 111.
3 Ivi, p. 40.
4 Ivi, p. 51.
5 Ivi, p. 69.
6 Ivi, p. 79.
7 Ivi, p. 82.
8 Ivi, p. 100.
9 Ivi, p. 96.
10 Ivi, p. 100.
11 Ivi, p. 108.

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Non sono passate che poche settimane dalla pubblicazione dei dati che certificano l'incremento in Italia della povertà assoluta (leggi qui) e il governo, senza pensarci su troppo, riesce a imbarcare il Paese in una nuova guerra, nonostante a marzo le piazze italiane abbiano chiaramente espresso la contrarietà a qualsiasi coinvolgimento militare dell'Italia.

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