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Giovedì, 07 Maggio 2015 00:00

Se altri paesi emergono - Intervista a Tommaso Nencioni

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Intervista a Tommaso Nencioni, storico e collaboratore de Il manifesto

1) Ti occupi talvolta dei paesi del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) su il manifesto, quotidiano schierato a sinistra ma poco attento a queste questioni. Partiremmo dagli articoli in cui hai affrontato la questione della nuova banca tra questi paesi.

A luglio 2014 si sono svolti una serie di vertici tra i paesi latino-americani e i BRICS. Ci sono due questioni che vanno sciolte e poi riunificate: quella geopolitica e quella economica. Il punto di vista geopolitico è la risposta multipolare da dare al ventennio che abbiamo vissuto, cioè quello degli Stati Uniti. Le nazioni in via di sviluppo hanno voluto dare risposte a delle esigenze legate ad un contesto formalmente multipolare per l'esistenza dell'ONU, ma sostanzialmente unilaterale, perché il potere di polizia mondiale è affidato agli Stati Uniti. Questo secondo aspetto è venuto meno negli ultimi anni, con l'emergere di altre potenze. Queste non sono nazioni socialiste, ma hanno governi progressisti, come il Brasile e l'India (quando nacquero i BRICS, ora la situazione è cambiata). L'aspetto più indigeribile per un pezzo della sinistra europea è quello della Russia. La strutturazione di un contropotere, di cui si può discutere a livello qualitativo ma non quantitativo, ad oggi, per il solo fatto di esistere,

impedisce una deriva pericolosa dell'unilateralismo. Qui si innesta la questione economica, ossia la banca a cui i BRICS hanno deciso di dare vita, che farebbe da prestatore di ultima istanza per le nazioni emergenti. Ovviamente questa non è la banca centrale che secondo Lenin avrebbe dovuto fare da general intellect per la società una voltà superate le contraddizioni di classe. L'elemento positivo è dato da chi si rivolge a questa realtà: se sono paesi che vogliono emergere dal disastro neoliberista, le logiche a cui la banca dovrà rispondere devono essere opposte a quelle del neoliberismo. Così verrebbe meno sia l'unilateralismo geopolitico che quello economico. La portata storica di questo evento è la fine del secondo dopoguerra, di BrettonWoods e del dominio della Nato sulle realtà periferiche.

Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale in occidente, anche nel comune sentire delle socialdemocrazie, hanno avuto una funzione positiva, fino a che Nixon non decise di sganciare il dollaro dagli accordi di Bretton-Woods per scaricare sui paesi periferici i costi della guerra in Vietnam. Ci sono stati i Trenta Gloriosi, con quel compromesso virtuoso tra Keynes all'interno e Smith a livello internazionale. Questo è quello che abbiamo percepito noi, mentre se si guarda a tutto il resto del mondo Bretton-Woods è un'altra cosa: mettere sui possibili sviluppi di altri competitor internazionali il giogo dell'occidente. Per questo dico che questo processo dei BRICS può inaugurare un mondo nuovo: se avrà una funzione di sviluppo lo si potrà dire con l'evolversi della situazione. Di sicuro si sta producendo un mutamento che va in direzione inversa rispetto a quanto è successo negli ultimi 50 anni.

2) Da parte della sinistra europea prevale un atteggiamento morale rispetto alla solidarietà internazionale. Pare che la priorità sia giudicare i processi fuori dal vecchio continente piuttosto che cercare di comprenderli.

Partirei da due problemi "nostri" che hanno a che vedere con la nostra percezione del mondo. Il primo è la qualità devastante della nostra informazione. Si tratta di un fenomeno in Italia particolarmente pesante, che si attenua già nei paesi anglosassoni, nonostante un legame molto forte tra gruppi finanziari e mezzi di informazione, che è destinato a diventare sempre più forte. Da noi si aggiunge una questione di provincialismo e ci mancano anche gli strumenti per affrontare correttamente i problemi, talvolta. Poi c'è la sinistra occidentale, che da dopo gli anni '60 è andata in crisi. Era facile solidarizzare con il movimento anticoloniale dicendo che le "loro battaglie sono le nostre battaglie": coincidevano spesso simboli e parole d'ordine. C'erano addirittura due internazionali (quella socialista e quella comunista) in cui realtà di paesi diversi discutevano tra loro (poi oggi conosciamo le grandi differenze che attraversavano quelle riunioni e quei congressi).

Ciò che facilitava il lavoro agli esponenti della sinistra occidentale era che quei movimenti a lungo non sono stati al potere. Un conto è simpatizzare con una causa che ha da conquistare qualcosa, un'altra fargli le pulci quando arriva al potere. Si tratta di una questione culturale difficile da risolvere, anche perché gli altri paesi magari ormai non hanno più bisogno di noi e non si pongono nemmeno la questione di confrontarsi con le nostre difficoltà. Cos'ha oggi da dire la sinistra europea? A questi due problemi si aggiunge un'altra questione. Il WTO e l'inserzione di queste nuove potenze di cui stiamo parlando nella mondializzazione. Avevamo e abbiamo il dovere di criticare la globalizzazione. Però esiste. Sarebbe infantile pretendere che paesi che rappresentano miliardi di abitanti non facciano conto con questa realtà. Cercano di trasformare quella che è stata la loro debolezza nella loro forza, ora che possono farlo. Gran parte delle trattative che hanno riguardato il loro inserimento nel tessuto globale sono arrivate ad uno stallo per il sistema asimmetrico che i governi liberali non si sono posti il problema di superare. Il tema dell'agricoltura è un esempio classico, basta ripensare a come la Francia ha plasmato la politica comunitaria in questo ambito. L'ALCA (Area di libero commercio delle Americhe) è saltata perché il Brasile, insieme ad altri, si è accorto che la liberalizzazioni andavano a soddisfare le esigenze della potenza maggiore (Stati Uniti) a discapito delle altre. Gli stessi trattati transatlantici tra USA ed Unione Europea testimoniano il carattere asimmetrico che muove la mentalità di chi ha mosso l'economia globale negli ultimi decenni. Non possiamo pretendenre che in un contesto di grande disugualianza mondiale gli altri paesi si disarmino e assecondino le nostre esigenze.

3) Influisce su questa incomprensione dei fenomeni internazionali il fatto che le sinistre ad ovest del Muro di Berlino non sono mai "salite al potere" nei loro paesi, per poi diventare compatibili al "sistema dato" dopo il dissolvimento dell'Unione Sovietica?

Una premessa: io non penso che il Partito Comunista Italiano e in generale la sinistra europea non siano mai arrivati al potere. Tramite una contingenza, magari irripetibile, queste realtà hanno gestito un contropotere, conquistato con lotte e lunghi processi. Non si è riusciti a trasformarlo in potere istituzionale, come invece è successo in America Latina in un lasso di tempo brevissimo. In questi 15 anni decisivi gli Stati Uniti hanno girato la testa dall'altra parte e nel "cortile di casa" hanno perso in parte il controllo, provando poi a tornare indietro (si pensi ai colpi di stato in Honduras e in Venezuela, o a quello che sta accadendo in Argentina). L'eredità neoliberista ha portato a una crisi organica, analoga a quella italiana del primo dopoguerra (Nenni lo chiamò diciannovismo). Si può uscire dal "diciannove" anche in modo diverso rispetto al fascismo. In Sudamerica troviamo il classico mix che permette alla sinistra di andare avanti: forti mobilitazioni sociali e intelligenza collettiva diffusa orientata in senso progressivo (non a caso in quel continente si studia molto Gramsci). In America Latina c'è stata una forte spinta dal basso verso processi di democratizzazione, che ci rende questi paesi più familiari e più facili da comprendere. Gli altri paesi di cui abbiamo discusso son ben più distanti da noi, anche a livello di simboli e di vicinanza emotiva. In Cina e Russia c'è una modernizzazione dall'alto da parte di quelle che rimangono dittature. I problemi di governance che li riguardano si pongono su una scala per noi icomprensibile, sia per la quantità dei governati che per le ricadute imperiali di fatto che seguono a qualsiasi loro decisione. La distanza la misuriamo anche dal punto di vista dello storico. A me si porrà il tema di analizzare Renzi già fra qualche anno, in Cina si discute sulle ricadute della Rivoluzione Francese. Le incomprensioni talvolta sono giustificate anche da queste distanze. L'Europa per duemila anni ha condizionato il corso del mondo. Se declina nel lungo periodo è comprensibile. Poi è nostro interesse, di europei, continuare ad avere qualcosa da dire. Da un punto di vista geopolitico dovremmo inserirci in modo virtuoso in questo nuovo meccanismo, senza farci dettare l'agenda da interessi altrui, ritrovandoci con guerre a 10 chilometri dalle frontiere sud e a 5 chilometri dalle frontiere est. L'Europa è da 20 anni che fa le guerre su commissione. Da un punto di vista culturale abbiamo il compito di capire e di mediare, nel senso di diventare interlocutori anche culturali di queste nuove realtà che si muovono. Gramsci diceva che la funzione del movimento operaio italiano era farsi carico del cosmopolitismo degli intellettuali del quattrocento perché ne avevamo le capacità. Dobbiamo farlo, con un ruolo politico forte ed autonomo dell'Europa nel nuovo scenario. Altrimenti la cultura si ridurrà ai cinesi che vengono a fare il giro turistico attorno al Battistero del Duomo di Firenze.

Ultima modifica il Mercoledì, 06 Maggio 2015 22:23
Alex Marsaglia

Nato a Torino il 2 maggio 1989. Laureato in Scienze Politiche con una tesi sulla storica rivista del Partito Comunista Italiano “Rinascita” e appassionato di storia del marxismo. Idealmente vicino al marxismo eterodosso e al gramscianesimo.

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