Stampa questa pagina
Giovedì, 08 Dicembre 2016 00:00

Con una parte di cuore rimasta a Suly. Viaggio nel Kurdistan iracheno

Scritto da
Vota questo articolo
(29 Voti)

È molto difficile provare a raccontare qualcosa, quando una grossa fetta della propria testa, del proprio pensiero e di quello che comunemente viene chiamato cuore, è ancora immersa, quasi “impastata” in quella realtà, impregnata ancora da quell’esperienza che si vuole andare a raccontare.

In questo momento una parte di chi scrive, è appunto ancora a Sulaymaniyah, città del Kurdistan iracheno, situata a nord dell’Iraq (quasi al confine con l’Iran) e capoluogo dell’omonimo governatorato (del Kurdistan iracheno). Nonostante Suly (come la chiamano i suoi abitanti) disti tre ore e quarantasei da Mossul e solo un’ora e quaranta da Kirkuk (avamposti del Daesh), non dà troppo l’impressione di trovarsi in un contesto di guerra e conflitto. Certo, ci sono posti di blocco e peshmerga a sorveglianza di strutture (tra cui il Monastero che ci ha ospitato), ma per il resto appare come una città tranquilla e con un centro molto vivo e moderno.

Ma andiamo con ordine. La città è un po’il capoluogo culturale del Kurdistan iracheno: è molto vivace a livello di università, festival letterari, educazione e apertura mentale. Lì non puoi dire più di tanto “viva Ocalan”, né farti vedere troppo solidale col PKK, né hai molto modo di parlare del Confedarlismo Democratico del Kurdistan turco-siriano, anzi, non penso siano ben visti, né l’uno né l’altro, dato che la cooperazione tra Kurdistan iracheno e Turchia si è rafforzato molto, soprattutto per l’attenzione da parte di quest’ultima verso le ingenti risorse petrolifere presenti in Iraq, che ha favorito un asse di cooperazione tra Erdogan, e Barzani, presidente del PDK (Partito democratico kurdo, abbastanza filo-capitalista, a differenza appunto del modello di conferdarlismo democratico, basato sul un tipo di economia e di visione politica, sociale e ambientale in totale contrapposizione al sistema neo-liberista), radicato nei governatorati di Erbil e Dohuk. Il governatorato di Sulaymaniyah fa invece capo all’UPK – Unione patriottica del Kurdistan –, il cui segretario è Jalal Talabani.

Siamo partiti il sei novembre, con una delegazione composta da giovani che fanno parte dell’Arci o di Un Ponte per… o ad esse affiliate. Il progetto, “Youth Spring Across Ethnicities” infatti, avviato nel 2014 è stato promosso da Arci Toscana e Un Ponte per….con i fondi dell’Unione Europea e ha portato all’apertura di quattro centri di aggregazione giovanile in quattro città del Kurdistan iracheno: Erbil, Dohuk, Zummar, e, appunto Sulaymaniyah, dove i giovani dei centri si sono riuniti, insieme a noi italiani per continuare il progetto attraverso workshop e attività varie.

Il viaggio è stato un’odissea: partenza da Fiumicino, scalo di sei ore a Istanbul e direzione Sulaymanyah con arrivo in tarda notte. Ci vengono a prendere due ragazzi dei centri che accompagnano una parte della nostra delegazione al Babylon hotel e un’altra parte (me compresa) al Monastero di Deir Mariam Al Athraa, dove si svolgeranno tutte le attività. La città brulica di luci mentre la macchina sfreccia sulle strade in discesa. Si vedono “grattacieli” non finiti, palazzoni che brillano a intermittenza con i loro neon elettrici e caleidoscopici, che ricordano un po’ il Pirellone di Milano o qualche base intergalattica per alieni. Insegne luminose di ristoranti e bar e poi strade in mezzo al nulla. Il Monastero sorge nella parte vecchia della città. Lì intorno non ci sono palazzoni ma case grigie e polverose (ma che emanano un gran fascino) e tanti fili della luce che si intrecciano come ragnatele. Il Monastero al mattino è bellissimo e luminoso. Ha un grande cortile interno dove sbucano bambini in continuazione. Sono piccoli sfollati, che, insieme alle loro famiglie – per lo più cristiane – vivono nelle case intorno al Monastero e in questo hanno la possibilità di fare attività ludiche e formative grazie agli operatori. Il prete che gestisce il Monastero, di origine tedesca e che parla un ottimo italiano (oltre a sapere ovviamente anche l’arabo) ci ha detto che i cristiani erano una comunità molto presente in Iraq, ma dal 2003, nonostante la caduta del regime di Saddam, con l’inasprirsi del fondamentalismo islamico e con le seguenti persecuzioni e gli annessi attacchi terroristici nei confronti (anche) dei cristiani (soprattutto a Baghdad, Mossul, Kirkuk e Bassora), questi ultimi hanno cominciato un esodo pazzesco, sia nei paesi limitrofi (Giordania e, prima, Siria), che in Europa o in America del nord, ma anche nel Kurdistan iracheno, in particolare nella capitale (del Kurdistan iracheno) Erbil.

La mattina, in mezzo a un’abbondante colazione (che diventerà uno dei rituali ciclici e necessari, insieme alla tavolata durante le cene, così come alle musiche arabe, i balli arabaggianti, il violino e l’oud) con pane arabo, yogurt, formaggi vari, marmellate, sott’oli, e, naturalmente, l’immancabile, indispensabile the, facciamo conoscenza dei nostri ospitanti. I giovani dei centri sono un mosaico di realtà diverse, dal punto di vista geografico, religioso, culturale e personale. Ci sono cristiani, musulmani, yazidi, “atei” – sebbene l’ateismo qui non sia un concetto così netto come può esserlo da noi, ma diciamo che alcuni non si sentono appartenenti ad alcuna religione istituzionale, qualcuno magari ha una spiritualità diversa ed elaborata in maniera personale, sebbene a volte dopo frutto di analisi e letture coraniche o bibliche o di altri testi, altri invece non ne hanno nessuna, se non quella fondata sull’”umanismo”, sui valori cioè dell’amore e il rispetto per l’essere umano, valori che fanno tesoro delle reciproche differenze, anziché ergerle a barriere o a motivi di frattura, intolleranza, scontro o radicale divisione. Molti di loro sono scappati dalla Siria e molti altri da avamposti del Daesh, come Mossul o Zummar, città andate completamente distrutte. Quello che però sorprende, fin dal primo impatto, è la normalità, il calore, la scanzonata e apparentemente spensierata allegria che caratterizza queste persone, e la sorprendente apertura mentale, soprattutto delle ragazze, giovanissime per altro. Così come è stato immediatamente tangibile il loro amore, affatto forzato o ridondante né affettato, un amore genuino e sincero per l’altro e per l’alterità in generale.

Ci hanno accolto con un tale affetto, un tale calore festoso e avvolgente e anche con una certa curiosità – ma senza tracce di diffidenza o sospetto – , che tutto sembrava naturale e spontaneo, quasi da cancellare la consapevolezza di trovarci in un contesto di conflitto, guerra, divisioni interne e ingerenze esterne, non fosse stato per i Peshmerga in tuta mimetica e fucile appostati davanti alla porta e per alcuni barlumi di testimonianza di alcuni dei ragazzi. Anche questi sprazzi di racconti però avvenivano in maniera così normale, da risultare ancor più lancinanti. Perché quando qualcuno, dal nulla e con estrema naturalità prende il telefono e ti dice: “questa è casa mia a Zummar” e vedi che è un cumulo di macerie, ti senti come colpito da un harakiri che ti spezza a metà e ti lascia senza parole, senza risposte. Che risposte puoi dare a chi ha perso la casa, la propria vita e magari ha pezzi di famiglia che vivono in altri posti senza grandi possibilità di vedersi o raggiungersi; a chi ha rinunciato al lavoro che aveva, all’università o la scuola che frequentava, ai propri amici e ai propri punti di riferimento, alla propria vita e che ha dovuto ripartire da zero, reinventarsene un’altra, di vita, totalmente nuova, magari migliore, ma comunque nuova? Non hai parole, né tantomeno risposte, e anche le domande si strozzano in gola prima di poter uscire, incapaci di sondare a fondo se possano o meno oltrepassare una soglia che non si conosce, incapaci, forse per pudore, forse per il timore di risposte insostenibilmente troppo pesanti, di andare a segno. Ma poi i sorrisi che tornano a brillare anche dopo questi momenti di brutale scontro con le storie e le realtà di questi giovani e la loro genuina felicità scoppiettante e piena di vitalità, la loro voglia di vivere e di vivere dando un senso alla propria esistenza e a quella degli altri, il loro sincero amore per l’esistenza e per l’essere umano, per quello che stanno facendo, per questa città, di cui hanno solo pensieri positivissimi, per le persone in quanto tali e per una libertà in cui credono fino in fondo, ecco, tutto questo annulla i mostri della guerra, della sofferenza, del dolore inesprimibile e probabilmente incontenibile e inimmaginabile, quasi da farci dimenticare di essere in Iraq, in quell’Iraq di cui i media, nazionali e internazionali, riportano solo la faccia più oscura e terribile.

Ed è invece proprio un’altra faccia che noi abbiamo conosciuto, quella della convivenza pacifica e la coesistenza non violenta delle differenze, quella dell’azione e della reazione attiva e creativa, totalmente alternativa allo stato di cose presenti, alla guerra e alle intolleranze, agli estremismi e alle bombe, al terrorismo e all’oscurantismo confessionale, quella dell’accoglienza e della cittadinanza attiva in risposta alla rassegnazione o alla chiusura mentale, ai respingimenti e ai pregiudizi. Questa faccia i ragazzi e le ragazze dei centri la vogliono incarnare a tutto tondo e lo fanno in maniera concreta, tangibile. Qui davvero tocchi con mano che in un angolo di mondo, gli ideali a cui forse una parte di te stesso ha smesso di credere, i valori che si sono annacquati o intiepiditi, schiacciati dall’impatto crudo con la realtà, qui palpitano e rivivono in maniera reale, vera, concreta. Qui li senti veri, ecco. Torni a sentirli reali e realizzabili, perché loro così li sentono e così li mettono in pratica.

Ti sembra di diventare parte di un cambiamento possibile, che sta avvenendo in questi centri e che da questi centri si irraggia o prova a propagarsi anche nella società civile. Avverti che il mondo non è solo un posto triste e tenebroso, che rende apatici e vuoti e anestetizza la vita, ma che è fatto anche di realtà e persone che lavorano per renderlo migliore. Qui la retorica diventa verità, è la realtà di ciò che qui stanno costruendo. E qui smetti di pensare che sia soltanto retorica o una poltiglia di discorsi utopici e ingenui. Qui il proprio nichilismo e il proprio cinismo, il proprio pessimismo cosmico, che io per prima provo costantemente, vacillano un po’, e lasciano spazio a una speranza che da tempo, forse, per molti di noi, sembrava morta, queste persone e quello che fanno ridanno un po’di alito a quei sogni che da adolescente ti facevano pensare che il mondo fosse davvero migliorabile. Per questi ragazzi e queste ragazze però non si tratta solo di un sogno fanciullesco ed effimero, fugace, ma di un progetto che ha la consistenza di una pietra incrollabile più che di una chimera o una bolla di sapone eterea e facilmente svaporabile dalla crudele durezza de reale. Torni, forse per un attimo, o magari solo in quell’arco di tempo speso insieme ai giovani kurdi, iracheni, siriani… a credere in qualcosa di grande e bello, perché loro ci credono, e tu credi con loro e credi in loro.

E la loro convinzione è molto più forte di quella di una fede religiosa, perché è la fede nel cambiamento, o per lo meno nelle possibilità del cambiamento, è la fede nell’azione pragmatica e umana, anche quando magari non ha riscontri immediati, ma che forse li avrà a lungo termine. È la fede o la convinzione ferrea che l’alternativa esiste e questa alternativa la si crea mettendo in atto un altro tipo di pensiero, un altro tipo di sguardo sul mondo, di visione, di orizzonte sociale, culturale e politico. Una visione che non contempla divisioni per motivi culturali, religiosi, geografici, che non contempla l’odio, che lavora per educare, informare, resistere, esistere, istruire e aprire le menti. Con questo non voglio dire che influenze o condizionamenti culturali o religiosi non siano presenti, anzi.

Durante una “lezione” da parte di un kurdo yazida, Hussam, sull’iter delle costituzioni irachene e kurde e sulle contraddizioni presenti tra di esse e anche al loro stesso interno (di cui magari ci sarà modo di approfondire in un prossimo articolo), nel momento in cui ci ha fatto vedere la foto di una manifestazione a Baghdad e ha sottolineato la presenza di ben 15 donne senza lo Hijab (il velo), una delle ragazze dei centri che porta il velo, si è risentita in maniera molto animata ed edulcorata, rivendicando il fatto che per lei indossare il velo è stato frutto di una scelta personale e incondizionata, addirittura creando malumori o disapprovazione (o per lo meno un po’ di amarezza) da parte del padre e del fratello. Questo fa capire quanto possa esser delicato e inopportuno per noi occidentali toccare tematiche così complesse e variegate, sputando facili sentenze o ponendoci in maniera presuntuosamente pedagogica, dicendo cosa è giusto e cosa non lo sia nei confronti della donna. Che ci sia il condizionamento religioso, o per lo meno interiorizzato, anche in una ragazza che rivendica una scelta indipendente e autonoma e che ribadisce la propria libertà personale e la propria apertura mentale, è probabilmente vero, ma questo non significa che portare il velo faccia di quella donna che lo indossa una persona non libera e sottomessa. E se condizionamenti ci sono, il lavoro da fare è, credo, innanzitutto culturale, e dovrebbe affondare alle radici, non certo, tanto per citare un recente esempio, vietare il burkini nelle spiagge! E ad ogni modo, a mio avviso, dato che credo nell’autodeterminazione dei popoli, un lavoro culturale, che insieme sia politico, economico e sociale, lo può fare solo il popolo in questione (o comunque una classe dirigente volenterosa di farlo) e non penso possa o debba venire calato o venir imposto dall’esterno e dall’alto da un altro popolo che si sente in dovere di esportare cultura e democrazia occidentali.

Ma torniamo ai centri di aggregazione giovanile: in questi si fanno corsi di lingua (kurdo, ingelse…), di musica, di comic writer, di informatica... ma si lavora anche per i profughi e gli IDP (i rifugiati interni), sulle minoranze, sul ruolo della donna, sulla mediazione dei conflitti, sul peace-building, e, come nel caso del centro di Zummar, ci si occupa anche della ricostruzione delle case devastate dal Daesh (l’80% del centro della città è andato totalmente distrutto). I centri sono aperti a tutti e a tutte e sono completamente gratuiti. La fase del progetto di interscambio culturale che ha rappresentato la nostra delegazione si è concentrata su uno workshop, “CommunicAction” sulla comunicazione digitale e la progettazione (come si crea un progetto, attraverso le sue diverse fasi, dalla pianificazione, all’esecuzione, al monitoraggio – l’impatto – fino alla valutazione finale e al suo eventuale rinnovo), su cui abbiamo lavorato insieme ai ragazzi e alle ragazze dei centri. Lo workshop ha portato alla creazione di una web radio, “same air”, che gioca ironicamente sui reciproci stereotipi di italiani verso arabi e kurdi e di arabi e kurdi verso gli italiani e raccoglie voci dei ragazzi e delle ragazze dei centri, e una landing page, una sorta di story telling di questa esperienza ma che racchiude anche le motivazioni che ci hanno spinti a farla, il senso del lavoro e del ruolo svolto dalle associazioni e dagli operatori dei centri e l’identità che vogliamo esprimere, ben riassumibile in una frase pronunciata da una ragazza del centro di Dohuk: “we are humans beings made by differences: everyone of us is different from others but we are completing each other, each one of us is a basic stone”.

Come accennato, gli workshop si alternavano a momenti di “education peer to peer” sulla mediazione del conflitto, e a “formazioni” riguardanti l’iter costituzionale iracheno e kurdo e sulla situazione dei rifugiati, in particolare degli IDP. Hussam ci ha detto che mente prima la società civile era apertamente solidale e accogliente nei confronti dei profughi interni, oggi, dato che sono sempre di più, si è creata molta più diffidenza, sospetto (soprattutto nei confronti di coloro che fuggono da avamposti del Daesh o comunque verso profughi sunniti, proprio per la paura che in qualche modo siano legati al fondamentalismo islamico) ed esasperazione e quindi anche a livello di solidarietà e attivismo concreto, si sta facendo sempre meno. Collegandomi a questo, un momento molto toccante e significativo, che rimarrà per sempre indelebile nella mia memoria, è stata la visita al campo profughi di Arbat.

Bisogna premettere che è un campo a cinque stelle, non a caso è stato costruito anche con i finanziamenti degli Emirati Arabi. Non ci sono tendopoli, né fango, né si percepisce un’estrema miseria o condizioni di tremendo disagio. Il campo racchiude ben 7000 rifugiati siriani – si stima che oltre 220.000 profughi siriani arrivati in Iraq siano giunte nel Kurdistan iracheno. Doveva essere un campo provvisorio, invece non si sa quando queste persone potranno tornare nella loro città e nelle loro case, per lo più probabilmente sfracellate dalla violenza della guerra, interminabile e sempre più cruenta. Il campo è enorme, in mezzo al nulla. Un ammasso infinito, a perdita d’occhio, di case in muratura con strade nel mezzo, negozi, macchine, uomini donne e bambini. Tanti bambini. Intorno c’è la landa desertica, polverosa e brulla del Kurdistan; la città è lontana e pare quasi di entrare in un’altra dimensione, una dimensione dimenticata dal mondo ma che a sua volta diventa essa stessa un mondo. Un mondo ovattato e chiuso in se stesso. Il campo è dedicato a un giovane giocatore di basket italiano, che alla sua morte ha lasciato un’ingente somma di denaro per rendere possibile la realizzazione di questo campo. Il suo ricordo fa commuovere gli operatori di Un Ponte per.., che insieme ad altre ONG (Emergency, UNHCR), gestiscono degli spazi all’interno del campo, in cui vengono offerte attività ludiche, formative e ricreative ai bambini e ai ragazzi siriani. Quando siamo entrati questi bambini stavano facendo dei giochi e le loro risate cristalline si diffondevano ovunque. Nonostante vivano chiusi in questo enorme labirinto di case in pietra, loro sembrano felici, quasi sognanti, con gli occhi che brillavano quando ci hanno visti arrivare e con quell’allegria festosa e teneramente ingenua, tipica della spensieratezza candidamente incosciente dell’infanzia.

Abbiamo giocato con loro, a basket, a calcio, a giochi di gruppo e sembrava davvero di essere sospesi in una dimensione senza spazio e senza tempo, o con uno spazio e un tempo non definibili nè racchiudibili, dilatabili all’infinito, immersi in una pace e un’armonia paradossali, che stonano aspramente con la consapevolezza che queste persone, bambini compresi, hanno perso tutto e non sanno per quanto tempo dovranno stare dentro questo campo, per quanto “di lusso” possa essere. Sempre un campo è. Non è casa, non è vita. Quando abbiamo dovuto riavviarci ai pulmini, i piccoli e le piccole del campo ci hanno seguito a corsa ed è stato struggente guardare i loro occhi attaccati ai cancelli, fissi su di noi come per volerci trattenere, come a supplicare di non allontanarci e di rimanere a giocare con loro, con le mani che sventolavano ininterrottamente per salutarci, quasi quel saluto potesse durare in eterno e legarci lì, quasi quel saluto non fosse un addio ma un “arrivederci, torna al più presto a giocare con me”. So che sembra molto strappalacrime e pietosa una scena del genere, ma in realtà, la giornata passata nel campo è stata bella e in qualche modo felice, sebbene di una bellezza crudele e una felicità triste, malinconica, tragica perfino.

È difficile rendersi conto di partire, e poter tornare alle proprie case, le proprie famiglie, le proprie vite e sapere che c’è chi resta, e che magari ha smesso anche di aspettare. La visita al campo è stato uno dei momenti più forti, nel bene e nel male, di questo viaggio, e al ritorno la mente scorreva lungo il paesaggio arido e roccioso, sulle strade, con il cuore in tumulto e sconquassato, forse confuso, forse ancora sospeso in un mondo non del tutto decifrabile, non del tutto contenibile. Restano le risate dei bambini, le strade in discesa tra le case in pietra, gli sguardi che ci seguivano delle donne e degli uomini, gli zaini dei bambini più grossi di loro i loro occhi abissalmente profondi e grandi, il tramonto ustionato sopra il campino da basket e da calcio, la polvere e il fumo. Resta fermo il momento in cui, perdonate il gioco di parole, ti fermi. Magari è solo un attimo, come uno scatto fotografico, ma un attimo che sembra durare all’infinito. E dopo che ti sei fermato, ricominciare non è così scontato, perché dentro qualcosa si è inceppato, o comunque ha preso un andamento diverso, un ritmo diverso.

Dentro, qualcosa ha fatto un sussulto, un balzo che ancora non sa bene che direzione prendere, ma c’è. È lì. Incastonato in una parte di te stesso e continua a fremere, continua a ripeterti che in questi posti, dove la vita diventa un’altra cosa, tu ti senti vivo. E senti che la tua vita ha un senso se la spendi per qualcosa che ti appare importante, quasi necessaria o se la spendi per qualcuno. Ha senso se rende prezioso per qualcun altro anche una semplice partita a basket, o un girotondo. Ha senso quando ti senti parte di qualcosa di grande, indipendentemente dall’immediato riscontro che se ne può avere o dall’apporto materiale che personalmente si può offrire. Ha senso quando si sente di esserci. Esserci in prima persona. Forse è proprio questa la “lezione” più importante che posso aver ricavato da questo viaggio, perché se anche il mio contributo è stato insignificante, da vari punti di vista, io c’ero e questa consapevolezza a volte può divenire una molla per comprendere dove si vuole stare, dove si vuole essere. Dove è che la propria vita acquisisce particolare valore e significato, dove diventa qualcosa di prezioso se la si fa fruttare bene.

Esserci è quello che a volte ci manca, in ogni luogo del pianeta. Poter dire io c’ero e ho visto, ho fatto, ho condiviso, ho conosciuto, sono entrato in contatto con qualcosa o con qualcuno, non è così scontato, anche quando l’aver visto, fatto, condiviso non porta a risultati immediato. Ma almeno non ero assente, non sono stato fermo, non mi sono voltato da un’altra parte. Sono stato presente, anche quando la mia presenza può esser risultata invisibile e trasparente. Ma io so che era lì, con e in tutta se stessa. La presenza in ciò che accade intorno a te e dentro di te, questo regala un’aurea di poetica bellezza alla propria esistenza e magari anche a quella degli altri, indirettamente. La storia è fatta da coloro che ci sono o ci sono stati e non da chi si è limitato a guardare, o magari nemmeno a guardare.

E i ragazzi e le ragazze dei centri dimostrano di esserci, di far vivere qualcosa che è storia, non solo loro ma di tutti, potenzialmente, perché lanciano un messaggio, frutto di azioni concrete, che non dovrebbe mai rimanere inascoltato. Resistono per esistere ed esistono resistendo. Resistendo contro la rassegnazione passiva e coatta a un tipo di contesto che è per molti aspetti mostruoso, perché sedimentato nelle divisioni e nei conflitti, inquinato dall’odio e dalla violenza. Resistendo alle macerie, agli sfollamenti obbligati, e persino al proprio dolore, alle loro storie fatte di distruzione, dispersione, sofferenza e crudeltà subite. Nel loro piccolo (che tanto piccolo non è), rappresentano l’umanità in movimento, l’umanità che non si piega allo stato di cose vigenti e crede nel cambiamento, credono ancora che l’essere umano possa esistere ed agire in modo diverso, secondo principi e valori diversi da quelli a cui ci hanno abituato a credere, per un principio di realtà che sia all’altezza dei propri ideali; sono persone che stanno provando a costruire qualcosa che sfugge alle maglie dell’odio, della contrapposizione, e lo fanno giorno dopo giorno, anche quando la realtà fa male, anche quando intorno c’è morte e devastazione. Eppure quel principio alternativo di realtà lo credono e lo vogliono possibile, perché non è mero sogno, sfuggente chimera, ma possibilità concreta e sperabilmente realizzabile. Anzi, già esistente e vivo.

Chiudo questo lungo e forse molto retorico resoconto raccontando un’altra gita, fortunatamente meno dura rispetto quella al campo ma altrettanto avvolgente. Siamo stati al Suk, il grande mercato all’aperto di Suly ed è stato bellissimo. Ci siamo immersi nella vita brulicante della città, catturati dalla caotica e rumorosa confusione del mercato, dai colori accesi della frutta e delle carni, dalle sete sfavillanti e raffinate dei tessuti locali, dal profumo intenso e quasi disturbante delle spezie, dal turbinio di voci, dgli ori luccicanti dei gioielli kurdi (abbastanza pacchiani), dallo sfilare urgente e frenetico degli uomini con i carretti con cibi o prodotti locali, dalle scritte arabe dei libri, comprese le copie del Manifesto di Marx. Qui si avverte plasticamente che il terrorismo o la guerra non hanno spezzato l’ordinaria, placida e al contempo turbinosa, quotidianità e meccanicità dell’esistenza degli abitanti di Suly e, forse, a idea, nemmeno quella degli abitanti di città ben più colpite dalla devastazione.

Il viaggio di ritorno è stato devastante, sia perché i viaggi di ritorno sono sempre difficili da affrontare, soprattutto quando si è consapevoli di aver lasciato un pezzo di se stessi nel luogo da cui si parte e alle persone che si lasciano, così come loro hanno regalato una parte bella abbonante di loro stessi a noi, sia perché i controlli all’aeroporto di Suly sono stati abbastanza pesanti, così come le attese tra un aereo e l’altro, fino ad arrivare a Roma il giorno seguente dalla partenza. Tutto questo però non incide sulla sensazione che continua a perdurare in ogni momento, di essere in parte ancora lì, in mezzo all’affetto di quei ragazzi, in mezzo ai balli e alle musiche arabe tamarre, in mezzo ai tentativi stropicciati di parlare un inglese per lo meno comprensibile e ai tentativi ancor più disastrosi di imparare qualche parola in kurdo, o almeno in arabo, ancora lì seduti alle tavolate immense, dentro la stanza “delle attività” del Monastero, in mezzo ai mille selfie (i ragazzi e le ragazze kurdi/e volevano fare sempre foto, cosa che detesto, ma a rigor di poi fa piacere averle), o sul lago di Dokan, un luogo meraviglioso, di una bellezza che spacca l’anima in due, che ti fa avvertire sulla pelle cosa intendeva Kant quando nella Critica del giudizio parlava del sentimento del sublime.

Come scrisse Zero Calcare in Kobane Calling, alla fine la ragione che fa partire e quella che metaforicamente ti fa restare, anche una volta tornato all’ordinaria routine della tua esistenza, è sempre una: il cuore. O per lo meno, quello che siamo abituati a chiamare così. E stavolta il cuore, anziché essere ancora a Kobane come lo è per il fumettista, è lì che continua a battere, ancora in maniera forte, potente, inarrestabile, nel Monastero di Sulaymaniyah.

Ultima modifica il Domenica, 18 Dicembre 2016 10:05
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

Ultimi da Chiara Del Corona

Articoli correlati (da tag)

Devi effettuare il login per inviare commenti

Questo sito NON utilizza alcun cookie di profilazione. Sono invece utilizzati cookie di terze parti.