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Sabato, 01 Luglio 2017 00:00

Una guerra, in Medio Oriente, che non si chiude anzi si allarga - II

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Come che siano andate le cose, paiono comunque evidenti le reciproche intenzioni, una più pericolosa dell’altra. Quella del regime siriano è di evitare di trovarsi a gestire, come invece tende ad accadere, una ridotta porzione del territorio siriano, rappresentata dalla metà meridionale della sua metà occidentale, dalla striscia costiera e dal suo immediato retroterra (sotto stretto controllo russo), dal corridoio che a nord porta verso Aleppo nonché da questa città (quasi tutto il nord-ovest essendo invece in mano all’ELS, alla Turchia, ecc., e l’est sempre più all’FDS). Una tale prospettiva renderebbe inevitabile, al termine del conflitto o ancor prima, la fine del regime, l’esilio di Assad, ecc., probabilmente anche con il consenso di Russia e Iran. Mentre l’intenzione, quanto a Trump, pare ormai essere il controllo stabile, per il

tramite dell’FDS e, concretamente, del PYD dell’intera parte orientale della Siria, cioè sua area meridionale compresa, onde impedire l’asse longitudinale sciita dal Libano all’Iran; ciò che tende a comportare o il frazionamento definitivo della Siria o la sua trasformazione, formalmente, in una federazione a debole potere centrale, più concretamente, in una situazione simile a quella irachena attuale, caratterizzata da un nord curdo di fatto indipendente, anche in quanto ben armato.
La preoccupazione di Trump, si badi, è tutt’altro che infondata: l’esaurimento della battaglia per il recupero da parte irachena di Mosul ha liberato larga parte delle forze militari ivi impegnate, tra le quali le forze di poderose milizie sciite irachene, libanesi e iraniane tutt’altro che bendisposte nei confronti degli Stati Uniti, e che già, soprattutto, si sono messe in movimento verso il confine siriano, riaprendo strade, ecc.

Quanto alla Russia, che essa avrebbe reagito pesantemente era scontato: gli attacchi statunitensi alle forze armate del regime siriano decisi da Trump le hanno fatto pensare che l’impegno principale tendesse a essere a liquidazione di questo regime, non più la guerra a Daesh, perché realtà agonizzante. E la Russia, non dimentichiamolo, ha la guerra contro Daesh in casa, cioè nel Caucaso settentrionale, è impegnata a fondo nel tentativo di tornare a posizionarsi come superpotenza mondiale, subisce sul suo lato europeo un accerchiamento di basi e di presenza militari della NATO è impegnata nel recupero, a ogni costo, scontando sanzioni economiche ecc., di territori russi diventati, a seguito della dissoluzione dell’Unione Sovietica, componenti di stati ostili. Inoltre questo, che fino ad alcune settimane fa era un timore, si è trasformato in certezza, per effetto di quella specie di NATO mediorientale che è la recentissima alleanza tra Stati Uniti e paesi sunniti della penisola arabica. La Russia duttilmente continua a essere disposta a compromessi, ma è pericolosissimo ritenere che non reagirà ad attacchi militari contro i suoi alleati.

Interrompo per porre una mia opinione. Una trasformazione federale della Siria sarebbe da molti punti di vista la fine ottimale della guerra che l’ha travolta. Tale trasformazione tutelerebbe, intanto, la principale realtà civile e democratica dell’area, quella curdo-siriana, a rischio altrimenti di attacchi da parte del regime siriano, nel momento in cui esso ritenesse di poter recuperare il controllo dell’intera Siria. Non dimentichiamo la natura da sempre panarabista, dispotica e feroce di questo regime. Inoltre tale trasformazione costituirebbe una soluzione ottimale anche perché il PYD potrebbe continuare a proteggere gli yazidi, popolazione di lingua curda rifugiata sui monti Sinjar, territorio iracheno settentrionale che confina con Siria e Turchia, che è stata oggetto da parte di Daesh di tremendi massacri e della riduzione di molte migliaia di donne e di bambine in schiave sessuali, e che, per di più, è continuamente bersaglio di incursioni da parte turca e di bande criminali agli ordini di Mas’ud Barzani, il presidente illegale del Curdistan iracheno, figura corrotta in affari da trent’anni con la Turchia e al servizio stretto di Erdoĝan. Sarebbe una soluzione ottimale, infine, per gli stessi alauiti (sciiti, grosso modo), cioè per la minoranza cui appartiene Assad, così come per le altre minoranze siriane: che non potrebbero sentirsi al sicuro in un paese a maggioranza sunnita se essa assumesse il controllo del governo centrale. Senonché, come accennato, Trump ha aggiunto dell’altro, che incrementa enormemente la pericolosità già altissima della situazione siriana, aprendo il rischio di un gigantesco conflitto mediorientale. Una soluzione parimenti valida, infine, potrebbe essere quella di una federazione più solida, non costituita da realtà semistatali bensì da autonomie territoriali: alla condizione, tuttavia, della permanenza sul territorio di presidi di truppe russe e di truppe statunitensi, magari anche di altri paesi, a garanzia. Credo che questa soluzione sia quella in mente alla Russia; per niente, invece, ad Assad. Delle due soluzioni ipotizzate, inoltre, ritengo quest’ultima la meno probabile.

Nelle settimane scorse, come accennato, Trump si è anche inventato, a esasperare una situazione già altamente drammatica, che il terrorismo stragista di questi anni (che tutti sanno richiamarsi alla variante sunnita dell’Islam) sarebbe stato creato e finanziato dall’Iran (che tutti sanno richiamarsi alla variante sciita); quindi si è recato in Arabia Saudita a chiedere al suo governo e a quelli dei suoi più stretti alleati (Emirati Arabi Uniti, Bahrein), cioè ai componenti del Consiglio di Cooperazione del Golfo, di smetterla di finanziare al-Qaeda e di impegnarsi invece nel contrasto all’Iran; e per addolcire la pillola ha confermato all’Arabia Saudita l’intesa, già d’altronde definita con Obama, relativa a un rifornimento di armamenti per la cifra fantastica di 110 miliardi di dollari. In questo modo, cioè attraverso l’alleanza stretta con quegli stati sunniti, l’impedimento alla realizzazione di un raccordo territoriale sciita dal Libano all’Iran sotto protezione russa sarebbe cosa fatta. L’Arabia Saudita sembra esserci stata convintamente: re Salman ha cambiato l’erede al trono, indicandolo ora in un giovanotto di formazione moderna. Chissà che prossimamente in Arabia Saudita le donne possano guidare l’automobile senza l’obbligo di accompagnarsi al marito o a un consanguineo.

Ho sempre considerato Obama il principale responsabile del tritacarne siriano: senza l’intervento in forma per di più bislacca degli Stati Uniti esso si sarebbe chiuso in sei mesi. Ciò sarebbe andato a danno, purtroppo, di chi aveva dato il via a una rivolta democratica contro il regime di Assad: la popolazione evoluta delle città – i giovani, le donne, gli operai, gli intellettuali, gli imprenditori. Non sarebbe però morto oltre mezzo milione di persone né la Siria sarebbe stata distrutta. Debbo ora riconoscere a Obama come egli sia stato, dal 1945 a oggi, il primo presidente statunitense, e a ora l’unico, a comprendere come da allora a oggi il ricorso facile alle armi da parte degli Stati Uniti per regolare i conti con altre realtà non abbia portato in genere ad altra soluzione che all’eternizzazione delle relative guerre e anche a sconfitte. In Afghanistan la guerra continua, così come, in buona sostanza, continua quella contro la Corea del Nord. Fino a Obama era continuate le guerre contro l’Iran e contro Cuba. Non solo, all’eternizzazione di alcune guerre si è unita la dura sconfitta in Indocina. In breve, dopo la vittoria nel 1945 su Germania e Giappone, realizzata anche grazie all’impegno, decisivo, dell’Unione Sovietica e della Cina, gli Stati Uniti hanno vinto solo contro Grenada.

Torniamo a Trump. Come è spesso nelle intese tra gangsters, quando una parte concede qualcosa accade che l’altra cerchi poi di allargarsi. Sono così immediatamente accadute cose che palesemente Trump non aveva messo in conto, sconvolgenti e pericolosissime. L’alleanza militare tra Stati Uniti e Arabia Saudita più diretti alleati si è immediatamente unita a un’alleanza nuova di zecca tra Arabia Saudita più diretti alleati ed Egitto, ulteriori realtà statali (tra cui il Sudan) o semistatali (tra cui quel generale Haftar che controlla due terzi della Libia e del suo petrolio); e sùbito dopo tale alleanza ha prodotto un atto sostanzialmente di guerra contro il Qatar, accusato di avere rapporti cooperativi con l’Iran e, inoltre, di sostenere Daesh (tutte cose peraltro vere), consistente nel blocco via terra del Qatar e nell’interruzione di ogni rapporto commerciale o d’altra natura con esso. Si noti che il Qatar galleggia sul più vasto giacimento di gas oggi noto del pianeta oltre che su una grande quantità di petrolio, quindi che rappresenta un partner commerciale importante per molti paesi, e per alcuni anzi decisivo, tra cui la Turchia e la Francia (l’armamento fino ai denti del Qatar è quasi tutto francese). Si noti che il Qatar non produce quasi niente sul piano alimentare, essendo quasi solo un deserto aridissimo. Si noti che è in Qatar la maggiore base militare statunitense dell’area mediorientale, 10 mila soldati). Si noti che la Turchia ha immediatamente dislocato in Qatar, dove già aveva una piccola guarnigione, altro 3 mila militari; e che ancora la Turchia sta mantenendo attualmente il Qatar su piani militare. Anche solo pensando alle istintive attitudini di Erdoĝan risulta facile concludere che da quelle parti si stia scherzando con il fuoco di uno scontro militare di grande portata.

Improvvisamente Trump, a conferma delle sue insensatezze e sprovvedutezze di base, nei colloqui con sauditi e loro stretti alleati aveva fatto cenno al Qatar come complice dell’Iran. Dinanzi al blocco lì per lì ha affermato che il Qatar lo meritava; poi, edotto dai suoi generali, ha avuto notizia di come in questo paese, che è di fronte all’Iran, stazionino soldati statunitensi con tanto di aerei e tutto quanto, ed è passato all’idea di una necessaria mediazione statunitense. Ma la frittata era cotta.
E i problemi per Trump sono parimenti andati a mille. Intanto perché gli è cascato addosso il fatto inaspettato che tra gli obiettivi fondamentali nel mirino dell’alleanza Arabia Saudita-Egitto ecc. non ci siano solo l’Iran e il Qatar ma anche la Turchia. Ciò vale soprattutto per l’Egitto; ma, pur in termini meno cogenti, vale anche per l’Arabia Saudita. Perché. Perché Erdoĝan è stato formato dalla Fratellanza Mussulmana, una consorteria politica presente in larga parte del mondo arabo-sunnita, e perché le è rimasto legato, fino ad appoggiarla a fondo, recentemente, proprio in Egitto. ; e la tattica è quella, andata al governo, dell’avvio della propria appropriazione diretta degli strumenti e degli apparati dello stato, onde trasformarlo in senso integrista, togliere di mezzo ogni altro centro di potere, ecc. Alla vittoria elettorale nel 2013 in Egitto del capo della Fratellanza Morsi reagì il colpo di stato di forze armate guidate dal generale al-Sisi, legato alla tradizione laica e autoritaria del nasserismo. Dato però in Egitto la Fratellanza Mussulmana continuerà la propria attività in forma clandestina, e con successo politico, profittando di una pesante crisi economica, e dato che nel Sinai si è radicata una forte guerriglia gestita da Daesh, l’adesso presidente al-Sisi non può non vivere la Turchia come un pericolosissimo fumo negli occhi, per sé prima di tutto, per il suo paese in seconda battuta.

Già, poi, una guerra è in corso dal 1994 nello Yemen. La sua origine è in una frattura politica nella sua popolazione e dentro alle sue forze armate; da una parte sono collocate forze militari, milizie, partiti della parte sunnita fondamentalista della popolazione, dall’altra forze militari, milizie, partiti della parte sunnita laica più le milizie della sua parte houthi, cioè partecipi di una corrente dello sciismo. Grazie soprattutto alle milizie houthi, armate dall’Iran, la guerra ha teso a un certo momento a favore loro e dei loro alleati; sicchè l’Arabia Saudita, fornitrice a sua volta di armi alle forze fondamentaliste sunnite, e sostenitrice di un’insorgenza qaedista operante, dal 1998, nell’est del paese, ha ritenuto, all’inizio del 2015, di intervenire direttamente, ricorrendo a bombardamenti continui sulle città tenute dalle forze avversarie; ciò che ha ormai portato a una situazione della popolazione yemenita che è ben peggio di quella della popolazione siriana. 17 milioni di yemeniti dipendono da rifornimenti alimentari dell’ONU e di ONG sempre più precari e diradati, muoiono a migliaia di fame o di colera, ecc. Ovviamente essendo il massacro a opera della cucca in affari dell’Occidente Arabia Saudita i mass-media nostrani ne parlano il meno possibile.

In breve sintesi, l’Arabia Saudita e i suoi stretti alleati sono giunti a ritenere necessario uno sblocco militare. Non credo che ciò si debba soltanto all’evoluzione recente, per via delle pensate di Trump, del quadro generale dell’area mediorientale; penso invece che ciò si debba anche e anzi soprattutto alla fragilizzazione crescente della credibilità dei regimi sunniti arabi presso le loro popolazioni. La guerra commerciale fatta negli anni scorsi dall’Arabia Saudita a botte di abbattimenti del prezzo del petrolio, onde buttare fuori mercato gli idrocarburi statunitensi intrappolati in rocce e sabbie, la cui estrazione era stata voluta da un Obama preoccupato per la dipendenza degli Stati Uniti da importazioni quasi tutte da paesi ad alto rischio di destabilizzazione, tra cui quelli della penisola arabica, è una guerra che l’Arabia Saudita ha perso; e i cui costi enormi l’hanno obbligata a tagliare le laute provvidenze del suo sistema di welfare, i salari della massa enorme dei suoi dipendenti pubblici, ecc.

Il rischio dunque è che il tritacarne attuale divenga rapidamente la prima puntata di una guerra ben più estesa.
Mediatori sono all’opera, l’Oman, la Giordania, altri. L’Iran ha per ora solo protestato, pare intenda tenere un profilo basso; la Russia e la Cina chiedono l’intervento mediatore dell’ONU. Ovviamente Israele, al contrario, appoggia con entusiasmo l’Arabia Saudita (secondo un copione che opera da un pezzo). A sua volta la Francia ha recentemente manifestato, tramite la sua presidenza Macron, alcuni intendimenti nuovi che sembrano parecchio intelligenti: ha dichiarato di non trovare del tutto ingiustificato l’obiettivo russo di relazioni strette con territori facenti parte di altri stati e da sempre russi, purché si evitino azioni di forza; e ha sottolineato come la questione della sorte di Assad sia di sola competenza, per quanto figura spregevole, del popolo siriano. Contemporaneamente La Francia sta incrementando la sua attività aerea contro Daesh, a supporto cioè dell’attacco delle FDS in corso su Raqqa.
Che dire? Vedremo. Per ora tocchiamo ferro.

Turchia sempre più in un ginepraio

Poche osservazioni riguardanti un quadro della Turchia diventato ancor più complicato oltre che foriero di avventurismi.
Consideriamo, intanto, il fatto che il Qatar è stato tra i principali sostenitori finanziari di una situazione economica e sociale turca resa drammatica dalle misure di ritorsione della Russia seguite all’abbattimento dell’aereo, e da essa a ora solo ridotte. Consideriamo inoltre il fatto di una ripresa su larga scala delle operazioni militari del PKK, in corso da alcuni mesi, giunti ormai al controllo del territorio sud-orientale, anche in quanto dotate di armi in grado di fare fronte a carri armati e a elicotteri da combattimento. Ogni giorno nel Curdistan turco vengono attaccati presidi militari, soccombono soldati, poliziotti, ecc.
Al tempo stesso l’intero panorama delle relazioni della Turchia in Medio Oriente risulta alterato. Alla blindatura, sostanziale, per quanto soft, subita finora da parte statunitense e russa, che le ha impedito di espandersi in profondità nell’area di Aleppo così come di fermare le operazioni militari dell’FDS su Raqqa, si è improvvisamente aggiunta la minaccia arabo-saudita. Sicché la Turchia è venuta a trovarsi schiacciata sul versante iraniano e russo, cosa che agli Stati Uniti non fa certo piacere. Questa posizione inoltre fragilizza ulteriormente la speranza turca, già abbastanza velleitaria, di essere tra le forze che toglieranno di mezzo Assad: la Russia si trova ora in una situazione di forza maggiore nei confronti della Turchia, e qualcosa chiederà.

Tra le intenzioni neo-ottomane di Erdoĝan e cioè di espansione territoriale diretta o indiretta della Turchia oltre alla ex provincia ottomana di Aleppo c’è quella della ex-provincia di Mosul, inoltre c’è la secessione dall’Iraq a opera di Mas’ud Barzani del territorio curdo-iracheno, ciò che ne farebbe un protettorato turco presidiato da truppe turche. Rammento, per comprendere meglio la pretesa di Erdoĝan, che la Turchia definita dal Trattato di Sèvres (1920) comprendeva queste due province, e che esse le furono tolte, Aleppo a favore della Francia e Mosul del Regno Unito, solo a sèguito del Trattato di Losanna (1923).
Dunque non a caso il PKK ha nei giorni scorsi proposto a Erdoĝan una tregua militare e il riavvio di trattative, alla condizione, davvero limitata, ma al tempo stesso garantita dagli Stati Uniti, del ritorno alla possibilità per Öcalan di incontrare, nel suo carcere di İmralı, avvocati, congiunti, parlamentari dell’HDP.
Ma, domanda, gli obiettivi di Erdoĝan sono tuttora questi? O, meglio, non potrebbero essere obbligati a sparire, e alla svelta? Perché la Russia non consentirà mai la frantumazione dell’Iraq, non essendo minimamente disposta alla frantumazione della Siria, né essendolo alla frantumazione dell’Iraq. Né l’Iran consentirà tali frantumazioni. E la Turchia in questo momento ha vicini, pur diffidentissimi, solo Russia, Iran… e regime siriano…
D’altronde chi semina vento, dice il proverbio, raccoglie tempesta.
Che dire? Vedremo.

Ultima modifica il Venerdì, 30 Giugno 2017 10:19
Luigi Vinci

Protagonista della sinistra italiana, vivendo attivamente le esperienze della Federazione Giovanile Comunista, del PCI e poi di Avanguardia Operaia, Democrazia Proletaria, Rifondazione Comunista. Eletto deputato in parlamento e nel parlamento europeo, in passato presidente e membro di varie commissioni legate a questioni economiche e di politica internazionale.

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