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Domenica, 25 Marzo 2018 00:00

Afrin ci interroga (2 di 3)

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Afrin ci interroga (2 di 3)

La prima parte cliccando qui.

Siamo dentro a qualcosa che tende sempre più a essere una terza guerra mondiale

Grande è il disordine sotto il cielo; tuttavia, a differenza di quel che tendeva sempre a opinare Mao, la situazione non è per nulla eccellente, è un grande ingestibile disastroso casino. L’umanità rischia grosso, su più piani. Come al solito, cresce il ricorso a ogni forma di guerra.

Già ciò risultava chiaro a partire dagli interventi esterni sulla crisi siriana. Poi è diventato più netto e preoccupante quando al conflitto di più attori statali fondamentali (Stati Uniti, Regno Unito, Francia, in un secondo momento Russia) contro al-Qaeda/al-Nusra e contro Daesh e alla finzione turca di parteciparvi si è sostituito il conflitto, per interposti stati minori o gruppi armati loro alleati, tra Stati Uniti, loro partner occidentali e mediorientali, da una parte, e Russia, potere siriano, Iran, varie milizie sciite, dall’altra, più la Turchia per così dire in mezzo, più Israele in proprio.

Voglio dire che un conto è una guerra nella quale le maggiori potenze hanno il medesimo nemico, pur operando in proprio e anche antagonisticamente su altri piani, un altro conto è una guerra tra un notevole numero di stati tra cui cinque armati di ordigni nucleari, tra cui le due maggiori potenze mondiali, nessuno dei quali ha voglia né di perdere né di pareggiare. Ciò semplicemente vuol dire un passo avanti cospicuo verso un qualcosa di somigliante a una terza guerra mondiale.

Inoltre questo “passo” è rinforzato, per così dire, dal groviglio inestricabile costituito dal gran numero di attori statali e non statali intervenuti nel conflitto o creati dal conflitto dall’avvio della crisi siriana a oggi. Le loro consistenze sono cambiate, ma continuano a esistere tutti. E risulta rinforzato dall’irresponsabilità di molti tra tali attori, tra cui in specie quelli statali di taglia media: oltre alla Turchia, Israele, dotata di almeno 300 ordigni nucleari e i cui aerei caricati di questi ordigni sono in volo 24 ore su 24, l’Arabia Saudita, impegnata nella distruzione dello Yemen metà sciita e della sua popolazione, intendendo contrastarvi la presenza dell’Iran, infine quest’ultimo, teso a controllare l’Iraq e a connettere territorialmente alla Siria le proprie forze armate e le milizie sciite loro coordinate. Un groviglio a tale livello e di tale qualità, voglio dire, è sostanzialmente ingovernabile, inoltre non può non risultare animato da una pulsione cieca, oggettiva, al suo incremento quantitativo e qualitativo. L’Arabia Saudita, per esempio, ha appena dichiarato l’obiettivo di dotarsi di ordigni nucleali. L’Iran ovviamente ha a sua volta dichiarato che se l’Arabia farà questo esso farà la stessa cosa.

Paradossalmente a frenare questo tipo di sviluppo, forse a “salvare” il mondo, c’è proprio il fatto delle armi atomiche. Nessuno degli attori può essere certo, se venissero usate, di non uscirne distrutto.

Tuttavia, a contrastare questa tesi grottesca, c'è l’impegno di Stati Uniti, Russia (e probabilmente Cina) di dotarsi di armi nucleari di ridotta potenza, “tattiche”, quindi più “usabili”.

Le analogie storiche, che ci dicono dell’alto rischio di come anche un tale sussulto potrebbe fallire, si sprecano. Che Trump non ne abbia cognizione non stupisce. Stupisce invece il comportamento di Putin, che, da buon russo, la storia la conosce bene. Il comportamento dell’attuale regime turco prospetta un’analogia drammatica rispetto alla situazione europea seguita al riarmo, non contrastato da Francia e Regno Unito, della Germania hitleriana. Le attuali principali potenze occidentali appaiono oggi operare in analogia al comportamento anglo-francese sino alla vigilia dell’attacco nazista alla Polonia, quello cioè che dichiarava “non si può morire per Danzica”. L’auspicio d’altra parte era che Germania nazista e Unione Sovietica si distruggessero tra loro. Alla fine moriranno, tra Europa e Asia, oltre due centinaia di milioni di esseri umani. L’antecedente lungo caos dei Balcani, fatto di insorgenze anti-ottomane e poi di guerre tra i loro piccoli stati, quel parallelo esaurimento dei territori da colonizzare o semicolonizzare che aveva lasciato a bocca quasi asciutta Germania, Italia, Giappone, il parallelo smembramento colonialista dell’Impero Ottomano furono accompagnati da tensioni crescenti tra tutte le grandi e medie potenze occidentali, e bastò l’incidente di Sarajevo perché si scatenasse la prima guerra mondiale. D’altronde tutti avevano lavorato affinché ambedue le guerre mondiali avvenissero.

Il fatto oggi è pure che all’esasperazione neoliberista della guerra economica di tutti contro tutti non poteva non corrispondere la precipitazione di qualcosa di simile sul piano delle relazioni internazionali e la sua accelerazione. Inoltre non poteva non corrispondere che tutti i principali stati si affannassero a proteggere le proprie economie con gli strumenti della deflazione salariale e della concorrenza reciproca. Quel tanto di effettivo profilo democratico, civile, sociale, morale che l’Occidente ha costruito nel secondo dopoguerra è così andato a farsi benedire, le classi agiate hanno continuato a essere orientate a fare più quattrini possibile, le classi popolari si sono imbufalite e imbarbarite per via della distruzione dei loro mondi e delle loro condizioni materiali di vita.

Pecunia non olet, il denaro non puzza, dicevano i latini. Gli affari con la Turchia sono a mille: investimenti (delocalizzazioni, assai spesso) e denari al regime in cambio dell’impedimento alla povera gente in fuga dalle guerre mediorientali di raggiungere l’Europa. Le vendite di armi occidentali e russe a Turchia, Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti hanno raggiunto in questi anni record stratosferici. Spasmodica è l’attesa negli establishment europeo del gasdotto russo che, attraversando Turchia, Grecia, Italia dovrà rifornire di energia a buon mercato l’Europa centro-meridionale.

Sono probabilmente sufficienti questi dati a motivare il comportamento dell’establishment europeo, a determinare il sostanziale silenzio dei suoi mass-media, rotto solo da pochissimo, riguardo alla tragedia curda in corso. Probabilmente è in tali dati la primaria chiave interpretativa degli attuali caotici eventi mediorientali.

Tutto quindi, in conclusione, pare correre poco o per nulla contrastato verso due possibilità: appunto la trasformazione delle guerre mediorientali in qualcosa che somigli a una terza guerra mondiale, orientata prima o poi, probabilmente, al ricorso anche ad armi nucleari; oppure una ridefinizione concordata tra Stati Uniti e Russia dei confini mediorientali, nella quale Turchia e Iran si collochino come vincitori, Israele pure, sostanzialmente, quindi portino a casa territori nuovi o zone di influenza, il prezzo territoriale sarà a carico di Siria, Iraq e residuo statale palestinese; quello umano a carico, per l’ennesima volta, del popolo curdo e di quello palestinese. In fondo, non è sempre andata così, più o meno, nella storia dell’Occidente? Le sue guerre prima o poi finivano, chi era andato meglio o aveva vinto incassava, chi era andato peggio o aveva perso pagava il conto generale.

Come diceva Hegel, il processo della storia universale, a suo avviso ineluttabilmente orientato dallo Spirito a una totalità di eticità, avviene per il tramite dell’alternanza di popoli diversi al comando; e il comando era infine toccato ai popoli europei. Hegel era invero davvero ottimista, sia sulla storia che sui popoli europei. In ogni caso, ammesso per un attimo che la sua teoria valga qualcosa, non v’è dubbio che il comando della storia sia passato altrove. Per certi aspetti alla Cina. Per altri, più validi, più accettabili nel loro complesso, ai grandi movimenti progressisti planetari di donne e di giovani, a quelle forze di sinistra antiliberista occidentale che ricostruiscono la lotta di classe e l’internazionalismo delle classi sfruttate, alle popolazioni oppresse e in rivolta, tra cui i curdi, per la cultura politica e sociale che essi esprimono; per l’eroica, generosa, disperata lotta armata delle loro donne e dei loro giovani, per l’epopea della loro Kobanê, di cui il mondo intero si entusiasmò, e che si sta riproducendo in questo momento ad Afrin. È di queste realtà, non di altre, la possibilità di creare un sussulto di coscienza e al tempo stesso di autodifesa nelle popolazioni del pianeta.

Questa è l’unica nota ottimistica che avverto come concreta.


La terza parte uscirà lunedì 26 marzo. Stiamo lavorando a un PDF riepilogativo di tutte e tre le parti.


Immagine liberamente tratta da wikimedia.org 

Ultima modifica il Martedì, 27 Marzo 2018 00:10
Luigi Vinci

Protagonista della sinistra italiana, vivendo attivamente le esperienze della Federazione Giovanile Comunista, del PCI e poi di Avanguardia Operaia, Democrazia Proletaria, Rifondazione Comunista. Eletto deputato in parlamento e nel parlamento europeo, in passato presidente e membro di varie commissioni legate a questioni economiche e di politica internazionale.

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