Scrive André Gorz, filosofo e giornalista francese, nel suo “L’ecologia politica, un’etica della liberazione”:

“Se si parte […] dall’imperativo ecologico, si può arrivare tanto ad un anticapitalismo radicale quanto […] a un comunitarismo naturalista. L’ecologia non ha tutta la sua carica critica ed etica se le devastazioni della terra, la distruzione di un modo di vita non sono comprese come le conseguenze di un modo di produzione; se non si comprende che questo modo di produzione esige la massimizzazione dei rendimenti e ricorre a delle tecniche che violano gli equilibri biologici. Ritengo dunque che la critica delle tecniche nelle quali si incarna il dominio sugli uomini e sulla natura sia una delle dimensioni essenziali di un’etica della liberazione” [1].

Il mondo in cui oggi viviamo è sempre più “inquinato” (in tutti i sensi!) da un capitalismo sfrenato che risucchia entro la sua sfera inglobante qualsiasi dimensione umana. La tecnica, il consumismo, il denaro elevato a potenza quasi mitica che fa girare il mondo, l’individuo ridotto a pedina o spettatore assente di fronte a una società che sempre più può essere caratterizzata come “società dello spettacolo”, riprendendo l’omonimo titolo di Debord.

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Domenica, 17 Novembre 2013 00:00

Un pensiero per la sera. E per la sinistra.

Sebbene ampiamente entrati nel terzo millennio, il termine "capitalismo" non perde il suo significato primordiale cioè quello di un processo di accumulazione del plusvalore e di riproduzione del capitale stesso. Pur mantenendo integre le proprie peculiarità il capitalismo si aggiorna e acquista nuovi significati in ogni epoca storica, in particolar modo questo è evidente se lo intendiamo come sistema economico-politico teso alla concentrazione del potere nelle mani di pochi a discapito dei molti e in questo contesto alla parola proletariato riconosciamo ancora il valore di differenza di classe.

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Da uno sguardo più ampio sulla diffusione mafiosa, che comprenda più in generale la situazione europea, possiamo poi facilmente notare come dalla scomparsa dell'Unione Sovietica e con la conseguente balcanizzazione dell'est europeo, sia emerso un fenomeno ben più grave e probabilmente inedito a livello storico. Questo fenomeno è quello dei Mafia-State, ossia del tragico passaggio: dalla presenza della mafia all'interno dello Stato, all'inglobamento dello Stato stesso all'interno della mafia. (vedi inchiesta di Foreign Affairs qui). Come viene fatto notare nell'inchiesta di Naìm: l'assenza dell'Italia (e del Giappone con la Yakuza) dalla lista è ascrivibile alla lunga e assodata tradizione di legami tra mafia e Stato (vedi ricostruzione storica su L'Internazionale qui). Dunque, viviamo una situazione particolarmente paradossale: l'Italia non fa neppure più notizia, è scontato persino per Foreign Affairs che punta

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E' ormai un dato assodato che in Italia il problema principale è la classe politica: corrotta, inadeguata, impopolare, vecchia. Probabilmente mangia-bambini, drogata, cannibale, pedofila e qualunque altra cosa infamante che vi possa venire in mente.
Scherzi a parte il dato di fondo c'è ed è inequivocabile: esiste un problema di rappresentanza e di inadeguatezza politica, morale e ideologica dell'attuale ceto dirigente al potere. Ciò sta letteralmente distruggendo la democrazia liberale in Italia, degenerando lo sconforto, il pessimismo e il senso di impotenza presso sterminate masse rifugiatisi nel qualunquismo populista o nell'indifferenza apolitica. Questa è la sconfortante analisi reale della società italiana e dei suoi umori.

Tutto ciò però non è un fatto inedito, anzi, sembra costituire una costante nella storia italiana, e non solo repubblicana. Gli stessi fenomeni venivano segnalati già durante l'Italia “liberale” monarchica, poi attraverso i privilegi del regime fascista e successivamente con il monopolio dirigenziale dei governi democristiani, fino quindi alla famosa stagione di Tangentopoli che non fece altro che scoperchiare problemi presenti da decenni ma impediti dal fattore K.

I liberali tendono a dare la colpa ad un carattere storico “genetico” di noi italiani, che per tradizione saremmo arraffatori ed egoisti. Gramsci però la pensava diversamente, e denunciava a spron battuto come la corruzione morale e culturale di una società (e della sua élite dirigenziale) non potesse che aumentare all'interno di una struttura economica degradante quale quella capitalistica.

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