Anche considerando, nelle elezioni regionali francesi, l’aggregato nazionale del primo turno, che ha visto le liste di sinistra e centrosinistra ottenere la maggioranza relativa con il 36% dei voti, il consenso al Front National è tale da risultare, più che un eufemistico campanello d’allarme, un vero e proprio boato: non per le sue concrete o meno possibilità di vittoria quanto per il problema democratico che rappresenta. Tale problema era del resto già evidente quando il FN veleggiava per anni sul 10-15%, o probabilmente fin da quando gli è stato concesso di presentarsi alle elezioni.

All’indomani del primo turno, con le parziali affermazioni del FN in alcune regioni, fu detto che la sinistra perderebbe “se fa la destra” – non si capisce se il riferimento è alle misure securitarie successive agli attentati di Parigi, a una imprecisata poca combattività contro i dogmi finanziari tedeschi, oppure ad entrambe.
Specularmente, il FN, oltre a radicalizzare ancor più i propri toni fascisti e razzisti come risposta al terrorismo, si è appropriato di alcune battaglie tipicamente associate con la sinistra, come l’abbassamento dell’età pensionabile o l’aumento del salario minimo.
La risposta alla controversa domanda se l’elettorato premi le proposte di sinistra discende, ovviamente, anche da una definizione del termine “sinistra”.

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Elezioni in Argentina: al ballottaggio vince la destra

L'argentina vira decisamente a destra. Quello che molti analisti avevano pronosticato dopo il sostanziale pareggio nel primo turno delle elezioni presidenziali, si è ora ufficialmente concretizzato al ballottaggio: in uno scontro all'ultimo voto alla fine a spuntarla è la retorica del cambiamento cavalcata dal leader della destra Mauricio Macrì che si impone con il 51,40% dei voti sul leader peronista Daniel Scioli in quella che rimarrà una tornata elettorale di rilevanza storica.
Storica perché per la prima volta dal 1983, anno del ritorno del paese sudamericano alla democrazia, una coalizione di centrodestra si impone in Argentina. Se in precedenza avevano infatti trionfato solo radicali e, dal 2003, il peronismo di Nestor e Cristina Kirchner, ora si aprirà sicuramente una fase diversa segnata da politiche di segno opposto rispetto all' "oficialismo" statalista, marchio di fabbrica delle legislature peroniste e populiste di sinistra a guida Cristina Kircher.

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La notte del dramma peronista: in Argentina a imporsi è la destra

Senza mezze misure i titoli dei principali quotidiani argentini il giorno successivo alle elezioni generali: si parla di "notte che ha cambiato la politica argentina", di "impatto enorme ed eclatante" di "fine della leggenda del kirchnerismo invincibile". Commenti a caldo che però enfatizzano un cambiamento storico che lunedì 25 ottobre scorso è stato persino più travolgente delle aspettative. Ci si attendeva infatti che la coalizione della Presidenta Cristina Kirchner uscisse ridimensionata dalla contesa elettorale, dato che l'impossibilità costituzionale per la pasionaria argentina di ricandidarsi, aveva inevitabilmente indebolito la sua coalizione di forze peroniste di sinistra "Fronte Per la Vittoria", ma in pochi - a cominciare dai sondaggisti e dagli analisti politici - si aspettavano una tale debacle.

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Sabato, 31 Ottobre 2015 00:00

Svolta a destra in Polonia

Le elezioni di domenica, che hanno segnato una nettissima svolta a destra nella politica polacca, pongono un apparente paradosso: si rivolta contro la UE un Paese che ne è stato largamente privilegiato con investimenti e sovvenzioni – in particolare, di grandissimo impatto quelli in infrastrutture e in attrazioni di imprese straniere.

Due sono le grandi novità che emergono per la prima volta dal 1945: il Governo che si formerà non sarà di coalizione bensì monocolore, e nessuna formazione della sinistra è riuscita a entrare in Parlamento. Con il 38% dei voti, infatti, il partito nazional-populista e clericale di “Legge e Giustizia” (PiS) riesce a ottenere la maggioranza assoluta in entrambe le Camere, complice anche la divisione del voto tra i liberali. (Manca a PiS però la maggioranza qualificata per riscrivere la Costituzione e attuare l’obiettivo massimo: la transizione a una “Quarta repubblica” polacca di impronta autoritaria – l’attuale costituzione politica è giudicata ancora troppo legata al periodo socialista.)

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Di Daniele Coltrinari

Portogallo: pericolo rosso fermato (per adesso) dal Presidente della Repubblica

A Lisbona è una settimana particolare e non solo per il clima: piove, poi esce il sole e poi piove ancora. È iniziata l'avventura del XX governo costituzionale e di Passos Coelho – con la nomina dei vari ministri – premier uscente e leader del centro destra, voluto fortemente dal Presidente della Repubblica Anibal Cavaco Silva. Tutti si domandano qui in Portogallo: verrà sfiduciato da un parlamento composto da più del 50% da deputati appartenenti alle varie sinistre lusitane?

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Verso l'era post Kirchner: la politica argentina alla vigilia delle elezioni generali

Chiunque vinca, la sinistra perderà. Sembra essere questa la triste prospettiva con cui si aprirà l'era post Kirchner dopo che le elezioni generali del 25 ottobre eleggeranno tanto il nuovo Presidente quanto il nuovo Parlamento argentino.

Sono molti, a ragione, a parlare di un cambiamento epocale, un cambiamento anticipato dalla sconfitta politica delle Kirchner che non ha trovato in Parlamento i numeri necessari per modificare la costituzione e poter così aspirare a candidarsi per la terza volta a Presidente della Repubblica Argentina.
Sullo sfondo il caos del Partito Giustizialista della Presidenta, la dura lotta per la successione, le diatribe interne. All'interno della coalizione Kirchneriana, a prevalere è infine l'eterodosso

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Venerdì, 09 Ottobre 2015 00:00

Dalla Grecia al nuovo soggetto

Dopo circa 15 giorni trascorsi dalla vittoria di Syriza in Grecia ripensare al modello greco e alle possibili similitudini tra quella esperienza e il dibattito in corso nella sinistra italiana, senza peraltro dimenticare Podemos e Jeremy Corbyn nuovo segretario dei Laburisti Inglesi, mi sembra un’operazione perlomeno necessaria, doverosa. Per questo ho deciso di rendere un po’ più organici appunti presi durante un dibattito e di condividerli senza per questo aver la pretesa di convincere.

Non sono tra quelli che aspettano un qualsiasi messia, penso da comunista che il consenso sia frutto di un agire comune, di un lavoro collettivo e corale per questo non mi annovero tra coloro che hanno visto in Alexīs Tsipras un novello salvatore, un modello da copiare pedissequamente ma nello stesso tempo non ho pensato che fosse un traditore quando ha dovuto cedere ai dettami della troika. Entrambe le posizioni mi sembrano banali o perlomeno prive di analisi sia sulla situazione greca sia su quella italiana e quella europea.

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Lunedì, 28 Settembre 2015 00:00

Catalogna: Junts pel sì, sì que es pot

Risultato elettorale ampiamente previsto, quello che arriva dalla Catalogna, meno prevedibili saranno gli scenari che interesseranno la regione nell'immediato futuro.

A scrutinio quasi concluso la coalizione attualmente alla guida della Generalitat Junts pel sì (composta dai moderati di Convergenza Democratica - orfani dei meno separatisti di Unione Democratica - e dalla sinistra di Esquerra Republicana de Catalunya, uniti in funzione indipendentista al di là delle divergenze ideologiche) ha ottenuto 62 seggi (sui 135 del locale parlamento), che sommati ai 10 (dai 3 uscenti) della lista Candidatura d'Unitat Popular (movimento senza leader che raggruppa molte sensibilità della sinistra indipendentista), assicurano al fronte indipendentista la maggioranza nel Parlament. In crescita l'affluenza (oltre sei punti in più rispetto alle scorse consultazioni), in quello che la propaganda indipendentista ha definito “il voto della tua vita”.
Seconda lista (si vota con il proporzionale e le liste bloccate) quella dei Ciudadanos, formazione di centro-destra recentemente cresciuta nella propaganda anti-corruzione, e sulla quale si è concentrato buona parte del voto anti-indipendentista. Alla formazione guidata da Albert Rivera vanno 25 seggi (9 i consiglieri uscenti).

Al terzo posto il PSOE (16 seggi), formazione politica che si è già liberata, negli scorsi anni, di quei socialisti favorevoli all'indipendenza, e che localmente propone, in sostanza, una autonomia ancora maggiore ai catalani. Dietro la formazione guidata da Iceta, si piazza la composita lista unitaria della sinistra Catalunya, sì que es pot. La lista, composta dalla locale federazione di Izquierda Unida (comprendente a sua volta i comunisti catalani del PSUC-viu), Podemos e ICV (i verdi catalani), con 11 seggi presidia uno spazio politico a sinistra ma non cresce, contrariamente a quanto era avvenuto pochi mesi con le vittoriose comunali di Barcellona. Al contrario la sinistra perde due seggi rispetto alle precedenti consultazioni, nelle quali era presente unicamente Izquierda Unida (appare dunque scarso il contributo del partito di Iglesias in queste elezioni).

Estremamente probabile che il mancato decollo del listone della sinistra sia attribuibile alla sofferenza che la sinistra nazionale spagnola ha sempre avuto rispetto alle varie spinte indipendentistiche che attraversano il Regno dei Borbone (non soltanto nel caso catalano, ma anche, ad esempio, in quello basco). L'appiattirsi di tutta la discussione politica catalana sul tema dell'indipendenza ha, con ogni evidenza, polarizzato il voto, penalizzando chi come Podemos ed IU non ha preso una posizione definita sul tema (limitandosi ad affermare il diritto ai catalani ad un referendum).

11 seggi il Partito Popolare, che ne lascia per strada otto rispetto al 2012. Non sono infatti bastati gli appelli anti-indipendensti di Obama e Merkel, nonché la chiusura della campagna elettorale con la presenza dell'ex presidente francese Sarkozy per compattare il voto “spagnolista” sull'ex sindaco di Badalona Xavier Garcia Albiol.

Acquisito il risultato si proporranno, fatalmente, le incognite sul destino prossimo della Catalogna. Scontato che altre spinte indipendentiste (baschi, galiziani) otterranno maggiore legittimità dai risultati usciti dalle urne di Barcellona, sarà inevitabile un irrigidimento del governo centrale rispetto ai passi, già indicati dal capo della Generalitat Artur Mas, verso l'indipendenza.
Già in passato, la corte costituzionale di Madrid aveva tolto ogni legittimità alla consultazione indipendentista (che ebbe largo sostegno popolare, in primo luogo dai sindaci) ed alle altre prove di forza verbali rispetto allo statuto catalano (come l'inserimento del concetto di nazione catalana). Altre tensioni potrebbero interessare il complesso dei “paesi catalani” - definizione politica dentro la quale stanno insieme anche Valencia ed un pezzo (La Franja) di Aragona - stretti tra spinte di unione con la Generalitat (impossibili per l'attuale Costituzione spagnola) e sofferenze per la supremazia di Barcellona (recenti, in tal senso, le polemiche suscitate tra Valencia e Barcellona per le parole del Consigliere alla Giustizia della Generalitat Germà Gordó, per il quale "la costruzione di uno stato non deve far scordare la nazione intera").

Rimane inoltre da capire, e gli ultimi comunicati della Commissione non aiutano a capirlo, i rapporti tra una Catalogna indipendente e l'Unione Europea.
Quel che è certo è che dentro l'attuale Europa sono sempre più le insofferenze (di destra, di sinistra e di centro, come nel caso di Mas) verso diversi stati nazionali (i casi più clamorosi riguardano Scozia e Belgio) e che non sarebbe più così sorprendente trovare tra qualche anno una Spagna priva del 16% della sua popolazione e del 25% del proprio PIL.

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Mercoledì, 23 Settembre 2015 00:00

Aggiornamenti dalla Polonia

Domenica 6 settembre gli elettori polacchi erano chiamati a votare sui tre referendum convocati in tutta fretta tra il primo e il secondo turno delle presidenziali di maggio. Il cantante rock Paweł Kukiz aveva ottenuto un sonoro 20% rivelandosi determinante per mandare al ballottaggio (e successiva sconfitta) il Presidente uscente Komorowski, appoggiato dal partito liberale PO. Corteggiando i voti a Kukiz, che provenivano principalmente dai liberali, Komorowski convocò (senza riuscire a salvarsi politicamente) i tre referendum sull’introduzione dello scrutinio uninominale, l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti politici, l’adozione del principio in dubio pro cive nei contenziosi fiscali.
I risultati sono stati in larghissima maggioranza favorevoli ai cambiamenti proposti, ma alla chiamata ha risposto una quota di molto inferiore al quorum richiesto della metà più uno: solo il 7,5% del corpo elettorale – che è più o meno l’ammontare dei voti (indecisi esclusi) di cui è al momento accreditato il movimento di Kukiz.

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Proprio nel momento in cui le forze di alternativa cercano faticosamente di rimettere in piedi un progetto strategico dai vasti orizzonti teorici ed organizzativi, ecco che su di una questione apparentemente minore come una tornata di elezioni locali, distante oltretutto poco meno di un anno, le varie soggettività coinvolte in quell’ambizioso progetto danno prova di reciproche insofferenze e si fanno portatrici di disegni talvolta diametralmente contrapposti. Un movimento politico nascente, destinato, se vuol sopravvivere, ad elaborare strategie convincenti su temi epocali quali la fine di un ciclo quarantennale di accumulazione capitalistica, la crisi della sovranità democratica, i conseguenti mutamenti nell’ordine geopolitico, la grande migrazione in atto, e che organizza una baruffa preventiva attorno alle modalità di presentazione delle liste in una tornata elettorale amministrativa, per quanto importante, fa sorgere dubbi sulle sue potenzialità nell’arena politica del Paese. Il minimo che si possa sospettare è che il peso dell’elettoralismo schiacci il nuovo partito su una marginale contingenza, minandone alla base la la capacità di incidere.

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