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Lunedì, 26 Febbraio 2018 00:00

L'inedito moderatismo del M5S: una storia che si ripete

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L'inedito moderatismo del M5S: una storia che si ripete

Al di là della vicenda rimborsi, il dato fondamentale della campagna elettorale del Movimento 5 Stelle è l’impressionante differenza tra i mezzi sguaiati, beceri ed eversivi del 2013 e l’attuale atteggiamento dimesso.

I punti di riferimento di questa nuova direzione sembrano essere il Vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, indicato formalmente come capo della forza politica, e Davide Casaleggio, succeduto al padre nella presidenza dell’azienda di famiglia e autocrate dell’associazione Rousseau (che gestisce la piattaforma informatica, cui è demandata la vita interna del partito, e che riceve donazioni private e contributi obbligatori dei parlamentari).

Grillo è stato espulso dal simbolo e dal proprio blog, di cui ha mantenuto il dominio ma non l’architettura informatica, transitata al nuovo “blog delle stelle”. Il comico genovese sembra tornato al suo ruolo di guru che si occupa di temi non immediatamente politici (lo sviluppo tecnologico, la sostenibilità ambientale, gli stili di consumo, eccetera). Grillo sembra, insomma, avviato verso la fine di Anton Drexler, il fabbro che fu fondatore e primo presidente del Partito nazista tedesco. Avvicendato da Hitler nel 1921, abbandonò il partito dopo il putsch di Monaco e, rientratovi con l’avvento del regime nel 1933, fu impiegato per quattro anni come un occasionale fantoccio di propaganda privo di qualsiasi reale potere per poi morire, dimenticato, durante la guerra mondiale. Ma al di là dei destini personali di Grillo, è la natura politica dell’operazione Casaleggio-Di Maio che interessa. Specialmente perché è già stata tentata dal neofascismo italiano almeno due volte.

La prima volta, negli anni ’50. Alle elezioni politiche del 1953 il Movimento Sociale Italiano quasi triplicò il proprio bottino di voti, passando dal 2% del 1948 al 5,8%. Un aumento proveniente soprattutto dalla bassa Italia centrale, dal Salento, dalla Sicilia e dalla Sardegna e che si abbinava a un egualmente consistente crescita dei monarchici. Le destre rivendicavano il voto qualunquista che nel 1948 si era riversato tatticamente sulla Dc. Questi consensi provenivano cioè non dalle zone della Repubblica di Salò, nelle quali i fascisti si erano schierati a fianco dei tedeschi occupanti per reprimere nel sangue il movimento partigiano, bensì dal Mezzogiorno, che era stato pressoché completamente immune dall’occupazione tedesca e quindi non toccato direttamente dalla Guerra di liberazione. Era quindi un voto marcatamente conservatore e del tutto estraneo agli accenti antiborghesi e millenaristici che avevano informato la guerra nazifascista nel Nord.

Al congresso del 1954 il Msi elesse proprio segretario Arturo Michelini, il quale cercò di porre a frutto un capitale elettorale che la preclusione antifascista rischiava di mantenere congelato. L’obiettivo era comporre un’alleanza di destra con la Dc; per far questo, era necessario ripulire l’immagine del partito emarginando le tendenze antisistema legate al nazionalsocialismo e alla Rsi (alla quale Michelini stesso non aveva aderito). Nel 1957 il Msi fu determinante per la fiducia al Governo Zoli e, nonostante avesse ceduto l’1% alle elezioni del ’58, nel ’59 riuscì ad eleggere al Csm un proprio esponente garantendo inoltre la fiducia al Governo Segni II. La scelta conservatrice aveva alienato le correnti “di sinistra”, che lasciarono il partito, restando prive però di un tangibile peso politico (il Partito Nazionale del Lavoro si rivelò un fiasco elettorale, mentre Ordine Nuovo si costituì unicamente come centro studi e non come partito).

L’avvicinamento del Msi al governo attraverso la costruzione di un asse con le altre forze di destra subì una pressoché definitiva battuta d’arresto con le vicende del Governo Tambroni, la mobilitazione antifascista del luglio 1960 e i gravi scontri in varie città. Il Msi continuò a tentare l’inserimento istituzionale tramite la Dc, ad esempio determinando l’elezione al Quirinale di Segni nel 1962 contro il centro-sinistra, ma gli sviluppi degli anni Sessanta favorirono la crescita delle sinistre.

Il secondo tentativo “moderato” del neofascismo si ebbe vent’anni dopo l’avvento di Michelini, ma stavolta fu guidato da Almirante, reduce della Rsi e tutt’altro che distaccato dalla base movimentista e oltranzista. Già alle elezioni politiche del 1972 il Msi affiancò al proprio nome l’appellativo di “Destra Nazionale”, includendo nelle proprie liste l’agonizzante partito monarchico. Le elezioni lo premiarono con il record storico: l’8,6%, quasi tre milioni di voti. In quegli anni Almirante tentò di capitalizzare l’opposizione della “maggioranza silenziosa” al compromesso storico e all’avvicinamento tra Dc e Pci; nel 1975 lanciò quindi la Costituente di destra per la libertà, che registrò l’adesione di esponenti di provenienza democristiana e liberale

Neppure questa operazione pagò: le elezioni del 1976 videro la Dc confermare i propri voti, il Msi cedere il 2,5% e il Pci avanzare clamorosamente di oltre il 7%. La politica di Almirante risultò sotto attacco; accusato di aver imborghesito e quindi indebolito il partito, virò nuovamente a destra tornando su posizioni estremiste, antisistema e anti-istituzionali. Di conseguenza, furono i moderati a uscire dal partito, costituendo già nel dicembre ’76 i gruppi parlamentari autonomi di Democrazia Nazionale. Ad andarsene fu non solo la superstite classe dirigente monarchica (Alfredo Covelli, il novantenne Achille Lauro) ma anche personalità militari come il generale Graziani e l’ammiraglio Birindelli, o esponenti con un passato molto ingombrante: Roberti, segretario e fondatore della Cisnal e parlamentare missino dal 1948; Tedeschi, volontario della X Mas e direttore del Borghese; De Marzio, già parlamentare, come Lauro, durante il regime fascista; Piera Gatteschi Fondelli, iscritta al Partito fascista dal 1921 e comandante generale delle ausiliarie repubblichine.

Alla costituzione di Democrazia Nazionale in partito aderirono 30 dei 50 parlamentari del Msi, circa un terzo dei consiglieri regionali e provinciali, circa un quarto dei consiglieri comunali. L’incidenza della scissione fu quindi direttamente proporzionale all’altezza dei livelli gerarchici del partito, come risultò impietosamente dalle elezioni politiche del 1979, in cui la nuova formazione erose al Msi soltanto un elettore su dieci.

Da questi brevi excursus storici è possibile trarre una prima indicazione per il presente: la tinta moderata assunta dal M5s, come già i maquillage missini del passato, sono pura tattica. Ma, fatto importante, l’abbandono di Grillo può essere reale. La classe dirigente antisistema, antiborghese e confusamente anticapitalista – gli esponenti più noti ne sono lo stesso Grillo e Alessandro Di Battista – è stata di fatto epurata, per fare spazio a figure dell’establishment o militari come il capitano Gregorio De Falco, l’ammiraglio Rinaldo Veri, il presidente del Potenza Calcio Salvatore Caiata, l’ex direttore di Sky Tg24 Emilio Carelli, e un’ulteriore schiera di pubblicisti, funzionari, professori…

Questa piega conservatrice è in linea con il destino dei movimenti antisistema e anti-istituzionali della storia italiana: i Fasci di combattimento, l’Uomo qualunque, la Lega Nord, hanno tutti infine concorso a fornire il proprio sostegno a operazioni volte a rinsaldare la presa sull’Italia del blocco reazionario. Due volte l’obiettivo è riuscito a pieno (1922 e 1994), due volte è riuscito solo parzialmente: nel dopoguerra grazie alla forza del Pci, che impedì regimi di restaurazione, e in questi anni grazie alla forza del Pd, che ha dato luogo a un’inedita ondata riformatrice tesa a liberare l’Italia da storiche incrostazioni conservatrici.

Il nuovo corso del M5s apre ora due opportunità per la sinistra. Primo: recuperare quegli elettori abbagliati dal messaggio demagogico del M5s e orientati verso soluzioni politiche più o meno socialisteggianti, pur se identificate confusamente con i fumi della propaganda socializzatrice fascista. Questi elettori provengono perlopiù dalle classi popolari, sono soggetti socialmente deboli per condizione economico-occupazionale e per istruzione; sono quindi i più a rischio di essere risucchiati da altre formazioni neofasciste, a partire da CasaPound.

Seconda opportunità: la svolta moderata del M5s probabilmente fallirà la prova elettorale, perché al di là della cieca violenza non esiste alcun collante ideologico a lungo termine del partito, che è storicamente diviso tra una base di estrema destra e un nucleo militante di sinistra radicale (seppure non classista). La cieca violenza, però, pare essere stata messa in naftalina insieme a Grillo. Il M5s ha, almeno a livello ufficiale, posizioni ondivaghe, equivoche e reticenti su molti temi: chi su tali temi vuole la civiltà voterà il centrosinistra o formazioni moderate; chi vuole l’inciviltà voterà per altre forze di destra populista o apertamente fascista. Una volta che la svolta moderata sarà fallita, il M5s tornerà alla violenza, con ciò lasciando andare i moderati imbarcati a questo giro (l’ammiraglio Veri, del resto, ha già fatto le spese della pregiudiziale antipartito essendo stato purgato dopo che si sono scopersi i suoi trascorsi di centrosinistra). Questi moderati dovranno, a quel punto, trovare disponibile un campo antifascista pronto a integrarli.

 

Immagine ripresa liberamente da www.lettera43.it

 

Ultima modifica il Domenica, 25 Febbraio 2018 12:08
Jacopo Vannucchi

Nato a Firenze nel 1989. Ho conseguito la laurea triennale in Storia con una tesi sul thatcherismo e la magistrale in Scienze storiche con una ricerca su Palazzuolo di Romagna in età risorgimentale. Di formazione marxista, mi sono iscritto ai Democratici di Sinistra nel 2006 e al Partito Democratico nel 2007.

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