Mercoledì, 25 Maggio 2016 00:00

NAFTA, TTIP e i presagi per l'Europa dell'Est

NAFTA, TTIP e i presagi per l'Europa dell'Est

Non ci opponiamo al TTIP perché conservatori e reazionari, perché spaventati dalle nuove tecnologie, dallo sviluppo, dalla possibilità di maggiore scelta. Ci opponiamo perché sappiamo come tutti gli argomenti a favore del trattato siano falsità.

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Prendete le più alte autorità europee e inseritele nel contesto di una visita in Vaticano, condite il tutto di conformismo e ipocrisia e avrete una vaga rappresentazione di quanto è accaduto il 6 maggio durante la cerimonia di consegna del Premio Carlo Magno nientemeno che a Papa Francesco. Il discorso del papa, davanti a una platea tra cui il re spagnolo Felipe e il Presidente della BCE, è una lunga invocazione al rispetto dei diritti umani e al ritorno ai valori del Padri fondatori, ma sembra piuttosto velleitario: la citazione di De Gasperi, il richiamo alla solidarietà che non deve diventare elemosina (da che pulpito!), la capacità di integrazione come punto nodale. Insomma, alla luce dei fatti che hanno attraversato la periferia europea, dentro e fuori all'UE, sembra un richiamo isterico e fuori tempo massimo, insomma quanto mai sterile per via dell'avvitamento austeritario delle politiche pubbliche europee e della legittimazione già avvenuta delle barriere lungo la principale traiettoria dei profughi.

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Mercoledì, 11 Maggio 2016 00:00

Where to invade next?

Michael Moore dopo sei anni lontano dal grande schermo torna al cinema solo per tre giorni in Italia con Where to invade next?. Il nuovo documentario lanciato al Toronto Film Festival, è stato candidato all’Oscar per il miglior documentario senza però ricevere l’ambito premio. A differenza dei precedenti film è, sì anche questo una forte critica agli Stati Uniti, ma si nota un maggiore amore verso la sua terra.

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Lunedì, 11 Aprile 2016 00:00

Panama Papers: caos politico in Islanda

Panama Papers: caos politico in Islanda

La prima testa a cadere a seguito dello scandalo sollevato dalla pubblicazione dell'inchiesta relativa ai "Panama Papers" è quella del Premier Islandese Sigmundur Davíð Gunnlaugsson. Esponente di spicco del centrista e liberale Partito Progressista, il giovane Gunnlaugsson (classe '75) ha vinto le elezioni politiche del 2013 in coalizione con la destra del Partito dell'Indipendenza, regalando al fronte dei conservatori una vittoria elettorale schiacciante.

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Accordo UE - Turchia sui migranti: ennesima opportunità mancata
Rifugiati e politiche europee. Un’intervista ad Alessandra Sciurba

Oggi, 4 aprile, diventa operativo l’accordo dell’Unione Europea con la Turchia (ne avevamo già scritto qui). L’Europa, hanno sottolineato in molti, risponde alla crisi dei migranti mostrando un volto disumano e irrazionale. L’accordo firmato con la Turchia mette in luce l’assenza di una reale politica europea ed è sbagliato sotto numerosi aspetti.
È sbagliato dal punto di vista del diritto internazionale, perché viola i principi del diritto d'asilo stabilendo procedure che non solo rendono quasi impossibile applicare la Convenzione di Ginevra e tutte le altre norme sulla protezione internazionale, conferendo inoltre alla Turchia un ruolo che non dovrebbe ricoprire in quanto paese che viola i diritti umani. È sbagliato dal punto di vista umano perché assoggetta migliaia di persone a norme inapplicabili in campi profughi che velocemente perderanno ancora di vivibilità; infine, è sbagliato, dal punto di vista economico perché regala alla Turchia molte migliaia di euro a richiedente asilo invece di usarli in Europa per reali politiche di accoglienza.

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Il vertice del Consiglio Europeo tenutosi a Bruxelles il 7 marzo avrebbe dovuto sciogliere il nodo dell'emergenza migranti che l'Europa sta vivendo. Nei fatti, come prevedibile, si è optato per l'ennesima toppa che può arginare il problema, senza però prendere in considerazione né le cause né le conseguenze di queste decisioni.

Il vertice, svoltosi alla presenza dei 28 capi di stato e di governo dei paesi membri e del Primo Ministro turco Davutoğlu, è stato concluso con l'annuncio che l'afflusso attraverso la cosiddetta rotta balcanica (Siria, Anatolia, Grecia) sarà chiusa ma per i dettagli il Consiglio si è aggiornato al 17 marzo. La necessità di un nuovo incontro è dovuta alle nuove richieste messe sul tavolo dalla Turchia: altri 3 miliardi di euro (in aggiunta ai 3 già concordati) per gestire l'emergenza umanitaria, l'eliminazione dell'obbligo di VISA per i cittadini turchi per entrare nei paesi UE già da aprile (invece che in autunno), il rilancio della trattativa per l'ingresso del paese nell'Unione Europea ed infine un accordo che preveda la regolarizzazione su suolo europeo di un rifugiato presente in Turchia per ogni rifugiato riaccolto dal paese dalla Grecia.

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Sabato, 05 Marzo 2016 00:00

Contro un intervento italiano in Libia

Contro un intervento italiano in Libia

"Nei giorni scorsi la stampa libica ha rivelato che una delegazione militare e d’intelligence italiana “di alto livello” ha incontrato il generale Haftar nella base di di al-Marj, città della Cirenaica nota con il nome di Barce ai tempi della colonizzazione italiana. Non si può escludere che l’obiettivo della visita fosse anche quello di definire il rischieramento in quell’area di mezzi, velivoli e truppe italiane.
Circa la tipologia di intervento la Pinotti ha parlato di aiuti che i libici hanno già indicato di preferire: protezione del governo quando si insedierà a Tripoli, formazione e addestramento".

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Lunedì, 04 Gennaio 2016 00:00

Il Vecchio Continente impotente

È passato quasi un mese da quando il caccia F16 che ha abbattuto il Sukhoi Su-24 russo nella zona liminale tra lo spazio aereo turco e quello siriano ha soffocato sul nascere ogni ipotesi di grande coalizione contro il Califfato. In quella sottile striscia di cielo ad andare in frantumi è stata tutta la retorica confezionata nelle settimane precedenti dalla leadership occidentale, e dai suoi portavoce a reti unificate, sulla civiltà da opporre al barbaro alle porte. Il delirio alla fin fine rassicurante sullo scontro di civiltà è stato bruscamente ricondotto sul terreno del nudo scontro di potenza, all’interno del quale ognuno gioca la propria partita a prescindere da presunti interessi comuni a tutto “il mondo libero”, ed ognuno combatte un’assurda guerra senza che della guerra sia enunciato uno dei presupposti fondamentali, ossia il nome del nemico.
In questo quadro, una volta preso atto della scellerata spregiudicatezza delle élites di Ankara, dell’evidente impossibilità per la Francia di risolvere unilateralmente una centenaria questione di carattere globale (fatta salva l’immediata e scontata reazione dimostrativa), e della coerente ma per molti indigesta strategia russa di identificazione tra lotta al Califfato e stabilità del regime baathista in Siria, l’interrogativo più grande sul tappeto rimane l’atteggiamento degli Stati Uniti, in bilico tra la propensione ad una svolta da più parti invocata come necessaria, e lasciata intravedere nel momento dell’appeasement con Teheran, e l’ancoraggio ad uno status quo geopolitico di lunghissimo periodo.

Arabia Saudita e Turchia, in questo senso, rappresentano gli snodi essenziali delle contraddizioni occidentali. Paradossalmente, la potenza egemone risulta incapace di affrancarsi da una sorta di “patronage alla rovescia” esercitato dagli alleati minori, forti della loro debolezza e della loro sbandierata insostituibilità. La necessità di puntellare il regime del terrore saudita e gli scogli che esso frappone alla legittimazione dell’Iran come attore di primo piano della regione; l’appoggio incondizionato ad Erdogan, espresso ancora a caldo nell’ora della patente dimostrazione della sua irresponsabilità; la volontà di escludere un qualsiasi ruolo russo nel Mediterraneo, che Mosca inevitabilmente si ritaglierebbe se inserita nella coalizione anti-Califfato: tutto ciò è alla fine giunto in rotta di collisione con la proclamata volontà di lottare uniti contro l’avanzata dell’ISIS. Nonostante la retorica imperante e la solidarietà di maniera, non è detto che sia sufficiente la tragica morte di duecento persone in territorio francese, nessuna delle quali peraltro di nazionalità americana (un dettaglio che ha un suo peso), a convincere il Presidente Obama e la complessa macchina dell’Amministrazione USA a stravolgere un’inerzia geopolitica operante da più di mezzo secolo: lo ha dimostrato il recente incontro tra Obama ed Hollande, ricco di parole quanto vacuo nel profilare soluzioni concrete. Ed infatti, mentre John Kerry continua a perorare la causa di una presunta “opposizione moderata” al regime di Assad, realmente esistente, forse, soltanto in qualche sottoscala di Langley, cominciano a prender campo piani a tavolino di destrutturazione dello Stato siriano e di quello iracheno lungo linee etniche e confessionali, senza che i popoli direttamente interessati siano minimamente interpellati.

Già a seconda guerra mondiale ancora in corso il Presidente Franklin D. Roosevelt, cosciente del ruolo giocato dall’approvvigionamento petrolifero nelle guerre moderne, aveva affermato che “la difesa dell’Arabia Saudita è vitale per la difesa degli Stati Uniti”, ed alla fine del conflitto la dinastia regnante a Riad aveva concesso al Pentagono l’utilizzo della base di Damman “per dimostrare che la sicurezza dell’Arabia Saudita dovrebbe costituire un impegno vitale per entrambi i paesi”. Dagli anni Settanta in poi il legame era destinato ad intensificarsi, nel momento in cui i petrodollari accumulati a Riad in seguito allo shock petrolifero cominciarono ad esercitare una decisiva funzione di stabilizzazione della bilancia commerciale statunitense. Arabia Saudita ed emirati del Golfo sono ancor oggi i terzi finanziatori esterni del debito di Washington, dopo Cina e Giappone, grazie soprattutto all’assorbimento di ingente tecnologia militare americana. Provvidenziale per gli USA è poi il ruolo dei sauditi all’interno dell’OPEC, a garanzia dell’attuale ribasso (del resto contenuto, per non penalizzare le estrazioni in Alaska o Texas) del prezzo del greggio. Una centralità geopolitica, quella di Riad, se possibile amplificata – ancora a partire dalla fine degli anni Settanta – dalla cacciata dello Scià da Teheran e conseguente diserzione persiana dal fronte egemonizzato dagli USA.

Altrettanto paralizzante il pluridecennale abbraccio sul fronte turco, risalente allo scoppio della guerra fredda. Dal ’47 in avanti gli Stati Uniti hanno sempre fornito appoggio incondizionato a qualsiasi regime al potere ad Ankara, purché garante dell’esclusione della presenza sovietica nel Mediterraneo: i missili russi installati a Cuba e rivolti contro le coste della Florida furono non a caso giustificati dalla leadership sovietica come una risposta a quelli americani presenti in Turchia; e la crisi nucleare fu superata soprattutto grazie al simultaneo smantellamento di entrambi i sistemi missilistici. La volontà di estromettere l’URSS dal Mediterraneo aveva già condotto gli Stati Uniti ad incrociare minacciosamente con proprie portaerei le acque di Damasco nel 1958, e prima ancora (1953) ad appoggiare i piani inglesi di destabilizzazione contro il governo iraniano di Mossadeq.

Emerge, nel caos che si è cercato di descrivere, l’impotenza del Vecchio Continente, un fattore che è quasi diventato una nota a margine fissa quando si tratta di disegnare scenari geopolitici. Oggi più di ieri la radice dell’afasia pare risiedere nella mancata presa d’atto della divergenza tra gli interessi americani e quelli degli europei, che da anni ormai combattono guerre per procura, salvo poi ritrovarsi a subirne le conseguenze più spiacevoli. Nell’impossibilità di costruire una grande coalizione che, oltre a sconfiggere il Califfato, si impegni per una soluzione complessiva, pacifica e multipolare, della questione mediorientale, l’avventurismo turco e la politica patentemente filo-terrorista di Riad, imbaldanziti dall’impunità assicurata loro fino a questo momento dagli Stati Uniti, rischiano di far saltare il tabù dello scontro diretto tra le superpotenze. Al di là della retorica occidentalista, l’Europa non può davvero permetterselo.

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Anche considerando, nelle elezioni regionali francesi, l’aggregato nazionale del primo turno, che ha visto le liste di sinistra e centrosinistra ottenere la maggioranza relativa con il 36% dei voti, il consenso al Front National è tale da risultare, più che un eufemistico campanello d’allarme, un vero e proprio boato: non per le sue concrete o meno possibilità di vittoria quanto per il problema democratico che rappresenta. Tale problema era del resto già evidente quando il FN veleggiava per anni sul 10-15%, o probabilmente fin da quando gli è stato concesso di presentarsi alle elezioni.

All’indomani del primo turno, con le parziali affermazioni del FN in alcune regioni, fu detto che la sinistra perderebbe “se fa la destra” – non si capisce se il riferimento è alle misure securitarie successive agli attentati di Parigi, a una imprecisata poca combattività contro i dogmi finanziari tedeschi, oppure ad entrambe.
Specularmente, il FN, oltre a radicalizzare ancor più i propri toni fascisti e razzisti come risposta al terrorismo, si è appropriato di alcune battaglie tipicamente associate con la sinistra, come l’abbassamento dell’età pensionabile o l’aumento del salario minimo.
La risposta alla controversa domanda se l’elettorato premi le proposte di sinistra discende, ovviamente, anche da una definizione del termine “sinistra”.

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Di Luca Reggiani dal numero cartaceo di settembre

Niti e Nyaya possibili strumenti di lettura della crisi europea?

La crisi economica, acuitasi negli ultimi mesi, che ha colpito la Grecia - portando con sé momenti di tensione politica e sociale - ha riportato al centro del discorso pubblico la natura stessa dell'Unione Europea. Da molte parti si sono levati i cori di europeisti (convinti della necessità di un’Europa unita) e di anti-europeisti, (convinti che l’Unione sia la causa di tutti i mali). Anche molti economisti hanno preso, in maggiore o minore misura, posizione.

Ha una sua utilità, ai fini del dibattito su tema dell'Unione Europa e su quella che viene definita teoria della giustizia, anche la riflessione di un economista - europeo per cittadinanza ma non per origine - premio Nobel nel 1998: l'anglo-indiano Amartya K. Sen.

In un antico poema epico indiano in sanscrito, la Mahabharata, in particolare nella parte chiamata Gita, va in scena un importante scambio di opinioni fra due personaggi, Arjuna e Krishna. Arjuna è il glorioso e invitto guerriero dalla parte dei giusti, Krishna è l’auriga di Arjuna, ma è anche ritenuto un’incarnazione, in forma umana, divina.
In questo scambio di battute, che si svolge alla vigilia di uno scontro fondamentale per il risultato di una guerra in corso, Arjuna esprime le proprie perplessità sul fatto che prendere parte alla battaglia sia per lui la cosa giusta da fare. Il guerriero, che non ha dubbi sulla bontà della causa né che si tratti di una guerra giusta e che alla fine la sua fazione, grazie soprattutto alla sua forza, trionferà, ma quella battaglia sarà una carneficina e molti di quelli che perderanno la vita non hanno commesso nulla di male ma solo deciso di appoggiare l’altra fazione. Arjuna è quindi angosciato sia dalla consapevolezza della tragedia che si abbatterà su quelle terre, sia dalla responsabilità che egli assumerà uccidendo altri uomini, incluse persone a lui legate e per molte delle quali prova affetto.
Arjuna giunge ad affermare che, forse, sarebbe meglio non combattere e lasciare il regno agli usurpatori. Krishna si oppone violentemente alle argomentazioni del suo amico e compagno affermando l’importanza di fare il proprio dovere senza guardare alle conseguenze.
Arjuna perderà lo scontro verbale e sarà convinto da Krishna ad adempiere ai propri obblighi scendendo in guerra.

Questo racconto è stato utilizzato da Amartya Sen per illustrare ciò che a suo avviso sono i due tipi di giustizia che possono caratterizzare le società: Niti e Nyaya. Queste due parole sanscrite significano entrambe giustizia, ma con due accezioni differenti.
Il Niti esprime l’adeguatezza di un’organizzazione, delle istituzioni, la correttezza di comportamento e delle leggi. Il Nyaya corrisponde al concetto generale di giustizia realizzata. In termini di Nyaya il ruolo delle istituzioni, delle leggi e dell’organizzazione, per quanto importante, deve inserirsi in una prospettiva più ampia e comprensiva legata alla vita delle persone e al mondo così com’è fatto realmente.
Il dato cruciale è che per realizzare la giustizia in termini di nyaya non è sufficiente valutare istituzioni e regole, ma occorre giudicare le stesse società.
Per l’economista indiano è auspicabile l'affermarsi di un’idea di giustizia che si basi sulle persone e sulla loro vita. L’esigenza, cioè, di inquadrare la giustizia a partire dalla realtà concreta bandendo l'indifferenza rispetto al tipo di vita che ogni persona è in grado di vivere.
Per esprimere questo concetto con le parole di Sen: “Chiedersi come stiano procedendo le cose, e se sia possibile migliorarle, costituisce invece un impiego costante e ineludibile nella ricerca della giustizia”.

L’economista applica, poi, la sua impostazione teorica alle attuali istituzioni e politiche europee: queste hanno fallito, non perché le istituzioni fossero sbagliate (Sen si esprime favorevolmente alle istituzioni europee) ma per il fatto che le istituzioni e le politiche economiche del vecchio continente non hanno tenuto conto della vita delle persone, che, soprattutto a seguito alla crisi economica del 2008, è notevolmente peggiorata. L’Europa ha perciò costruito le proprie istituzioni solo in termini di Niti, mentre guardando dall'ottica del Nyaya ha fallito.
Con queste premesse, per Sen, appare chiaro capire perchè la crisi economica del 2008 abbia portato l’Unione alla situazione attuale.
Tralasciando le cause che hanno portato allo scoppio della crisi, possiamo notare come essa abbia danneggiato la vita concreta di un, incredibilmente alto, numero di europei. Ciò è stato dovuto, in gran parte, da una gigantesca operazione di trasferimento del debito privato - in massima parte delle banche - caricato sulle finanze pubbliche. Per ovviare ai deficit - a questo punto pubblici - in Europa sono stati effettuati tagli al welfare, cioè, ad uno dei capisaldi del modello europeo costruito nel dopoguerra dalla gran parte degli Stati del continente.

Le politiche europee conseguenti, come ad esempio quelle inerenti il taglio del deficit, presentate come sensate e giuste, hanno finito col non produrre istituzioni stabili nel lungo periodo né una vita migliore per la maggioranza dei lavoratori europei.
In questa cornice si inserisce la moneta unica. L’euro, potenzialmente, un grande vantaggio e un punto di forza nella competizione con le altre grandi macro-aree economiche, è, per molti versi, diventato uno svantaggio. L’Unione Europea si è caratterizzata come un’unione, unicamente, monetaria, fallendo nell'unificazione fiscale e politica e non centrando l'obiettivo di una unità fattuale tra i popoli dei diversi Stati nazionali.
La crisi di consenso delle istituzioni europee ha creato un distacco fra queste ed i cittadini. Crisi ampliata da una morsa rigorista che ha tolto potere a Stati come l'Italia, la Grecia ed il Portogallo di poter operare aggiustamenti espansivi alle proprie economie.
L’austerità, originata dai parametri di Maastricht, ha messo un ulteriore freno a Stati in situazioni di debolezze economiche strutturali. I continui tagli, invece che aiutare queste economie, non hanno prodotto altro che ulteriori contrazioni del PIL.

L'esclusione, dunque, di politiche espansive ha prodotto, tanto per i privati che per gli Stati, una spirale, diretta verso il basso.
L’austerità ha bloccato processi di crescita al fine di ripagare un debito, che, per alcuni Paesi, ha raggiunto dimensioni enormi.
Le lodi sperticate dei rigoristi verso i Paesi nordici per essere riusciti ad andare incontro ai loro auspici, e le richieste di tagli ai paesi dell'Europa meridionale per giungere allo stesso risultato, non tengono in conto del fatto che un Paese come la Svezia è riuscito a ripagare il proprio debito in un tempo di grande crescita economica ed altri Stati hanno visto i propri debiti tagliati o ristrutturati, beneficiando anch'essi di periodi di crescita e non di recessione
L’Unione Europea ha promosso pacchetti di riforme congiuntamente ai cosiddetti tagli. L'establishment europeo ha, volutamente, confuso riforme, con austerità.
Una politica riformista avrebbe distinto le prime dall'altra, generando una crescita utile a ripagare il debito.
Nello stesso ambito di riflessione, di critica alla moneta comune ed alle politiche applicate dall’Unione, si pongono anche altri economisti fra i quali i Nobel Stiglitz, Mirrless, Pissarides, Krugman. Questi economisti spingono per una riforma dell’Europa insieme ad una parte dei cosiddetti europeisti.
Parte degli studiosi europeisti rimangono invece convinti che l’unica via di sviluppo sia rappresentata dall’austerità.
In quest'ultima posizione, per Sen, si consegue il Niti (portando avanti, per inciso, interessi di classe), che non sono però gli interessi contemplati dal Nyaya.
Significativa in tal senso è situazione della Grecia, messa in ginocchio dalla crisi, affossata dalle politiche di austerità chieste dall’Unione e diventata un terreno di scontro e giochi di potere fra gli Stati.

Nel novero delle posizioni troviamo, oltre ad i sostenitori dell’austerità, europeisti riformisti ed euroscettici, che vogliono l’uscita dall’euro e dall’Europa. La recente scissione di Syriza può essere inquadrata proprio sulla base di queste diverse posizioni: da una parte chi chiede all’Europa di cambiare e per questo è disposto a sacrifici, dall’altra chi, invece, dopo anni di sacrifici non è più disposto a perseguire, ad ogni costo, la strada dell'integrazione europea.
Quello che sembra mancare nel pensiero di Sen, e di altri economisti, è però una parte propositiva contenente la necessaria concretezza.
Come sostenuto da molti economisti, la chiave di salvezza per l'Europa sta nel processo di unificazione bancaria e finanziaria, oppure in una radicale trasformazione del Fondo salva-Stati in un vero e proprio Fondo monetario europeo.
In tale ambito di discussione si dovrebbero riformare i trattati al fine di dotare l’Eurozona di strumenti anti-ciclici efficaci, come un bilancio comune, e di istituzioni politiche pienamente legittimate a gestire quel bilancio.
L’altra soluzione, auspicata dagli anti-europeisti, è quella dell’uscita dall’euro, con i costi e i rischi che ciò comporta.

Dal punto di vista del Niti e del Nyaya, si può muovere una critica all’utilizzo che si fa dello strumento del PIL. Questo, infatti, pur essendo un indicatore facilmente misurabile, non può essere utilizzato per valutare correttamente lo sviluppo di una società.
In primo luogo, il PIL non riesce a valutare nel complesso le attività economiche di una società, non considerando, ad esempio, il lavoro domestico e le attività di autoproduzione. Il PIL, inoltre, essendo una misura aggregata, non tiene conto delle disuguaglianze, anche enormi, fra i cittadini di un dato Paese.
In secondo luogo, quando si utilizza una misura come il PIL, si valuta la crescita economica di uno Stato, ma non la condizione materiale dei suoi abitanti, né se vi sia uno sviluppo umano conseguente. Lo sviluppo umano, infatti, oltre a comprendere la crescita economica, considera altri fattori legati alle condizioni di vita degli individui.

Proprio per questo motivo, soprattutto negli ultimi anni, si sono studiati nuovi indici per valutare la qualità della vita delle nazioni.
Uno di questi è l’Indice di Sviluppo Umano (ISU), che è un indicatore di sviluppo macroeconomico realizzato dall’economista pakistano Mahbub ul Haq nel 1990 (anche sulla base del lavoro portato avanti da Sen). L’ISU dal 1993 è utilizzato dalle Nazioni Unite, proprio per valutare lo sviluppo umano dei paesi membri. L’indice di Sviluppo Umano è calcolato mediante la media aritmetica di tre indici: l’indice di aspettativa di vita, l’indice di istruzione e l’indice del PIL pro capite. Esistono anche altri indici, che tengano conto di altri fattori e dati, ma spesso questi dati sono difficili da reperire e riportare in una scala comune.
La “classifica” delle nazioni secondo l’ISU è consultabile sul sito del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP). Appare subito evidente come, confrontando i dati sul PIL con quelli dell’ISU, le posizioni di alcuni Paesi siano completamente diverse nelle due “classifiche”.

Per concludere, riassumendo il pensiero di Sen, si può affermare che la situazione in cui si trova oggi l'Europa, sarebbe stata ampiamente evitabile qualora i legislatori europei avessero perseguito più il Nyaya che il Niti.
Oggi per ricostruire un’Europa che appare vicina al proprio crollo, le soluzioni proposte all'orizzonte del dibattito pubblico sono due: una uscita dall’euro od una inversione di rotta volta a ricostruire il modello tradizionale di welfare europeo.
Quale soluzione sia più agevole, meno dolorosa, e possa dare veri risultati di miglioramento della vita di gran parte della popolazione europea è oggetto di dibattito. Nessuna soluzione sembra, ad oggi, essere risolutiva. Certo è che una strada diversa vada intrapresa.

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