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Venerdì, 04 Luglio 2014 00:00

La scissione di SEL e il futuro della sinistra italiana

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Dopo mesi di astio e di decisioni andate di traverso a molti la scissione in SEL è arrivata a compimento. Il casus belli l'oramai celeberrimo “decreto ottanta euro” (seguito ad un altro casus belli che ha sicuramente contribuito a rafforzare le posizioni di Migliore: la scelta della signora Spinelli di rinunciare alla rinuncia, scelta che ha frustrato molti elettori e militanti di SEL). 
Pezzi importanti di quel partito (almeno tra i parlamentari, difficile dire l'effetto sugli iscritti) si sono diretti verso il PD provando a tracciare un'incredibile - istantanea - scorciatoia per una sinistra di governo: entrare in un partito che già governa
Si realizza, almeno parzialmente, una delle due opzioni (l'altra è il settarismo) opposte e speculari che coinvolgono la sinistra italiana da almeno un decennio: il governare tanto per farlo, il governare sempre e comunque, a prescindere dai contenuti, a prescindere dal Nuovo Centro Destra, a prescindere dalla realtà dei fatti.

La divisione generatasi in SEL contribuisce a semplificare, dal punto di vista politico, il magma di idee, spesso contrapposte, vistosi all'interno della Lista Tsipras e nelle organizzazioni che la componevano: l'idea di una terra di mezzo tra socialisti e GUE (idea in sé da non ridicolizzare) è stata spazzata via dall'accordo tra popolari e socialisti, e come nel Mar Rosso apertosi per gl'israeliti, qualcuno finisce inevitabilmente su una sponda mentre altri rimangono su quella opposta.
Se dunque da un punto di vista politico il quadro contribuisce a chiarirsi (lasciando sulla sponda sinistra soltanto quelli che stanno con Tsipras) dall'altro lato non si può ricorrere al vecchio – e mai dimostrato - motto di una certa sinistra settaria secondo il quale in meno si è meglio è
In maggio lo sbarramento è stato superato grazie ad un numero di voti assoluti pari alla popolazione di Calusco d'Adda (BG): diminuendo numericamente si è più compatti (e forse nemmeno questo) ma si è anche inesorabilmente in meno.
Viene meno quell'ambiguità che aveva permesso ad elettori sostenitori di opzioni politiche diverse di ritrovarsi tutti nel votare la medesima lista e nel complesso si sposta più a destra il quadro politico generale. 
Una SEL indebolita pone, al netto delle difficoltà su esposte, con maggiore attualità il tema della riorganizzazione della sinistra.

Se, almeno a parole, è difficile trovare – tra dirigenti e militanti - qualcuno che non si trovi concorde rispetto alla necessità della sinistra di unirsi, è altrettanto difficile trovare qualcuno disposto a dismettere un po' delle proprie certezze: “l'unità della sinistra alle mie condizioni” è spesso questo il non detto impossibile da nascondere. Detto di SEL, e delle difficoltà da essa vissute, le altre formazioni alla sinistra del PD non appaiono in migliore salute.

Da un lato vi è il minoritarismo estremista, l'esaltazione estetica che si finge etica delle proprie minuscole dimensioni, la chiusura di chi gioisce per le spaccature altrui sostituendo il tifo alla politica, il bunker di chi è stato costretto ad ingoiare la lista unitaria alle europee ma che adesso prova a separarsi nuovamente ponendo come discriminante le proprie condizioni
Lo dico con chiarezza: chi da anni pratica questa strada ha contribuito a spegnere ed esaurire la propria forza politica. Una forza politica, il PRC, la cui debolezza proviene da lontano, probabilmente dall'esaurirsi progressivo di un'onda lunga partita nel '91, ha scelto di seguire una strada che l'ha condotta - anche se non vi è l'atto notarile a certificarlo - alla sua definitiva consunzione
Una consunzione tanto più evidente se si analizzano i dati sul tesseramento e i risultati ottenuti nelle elezioni per il rinnovo degli enti locali.

L'altra tra le forze comuniste meno piccole, il PdCI, vive anch'essa una crisi, probabilmente aggravatasi con l'esclusione – vergognosa, occorre ribadirlo cento volte – dalla lista Tsipras: la scissione (verso il PRC) di una sua corrente, lo scarso insediamento ed una spaccatura tra l'area più vicina alle posizioni del KKE (semplifico con brutalità ma mi sia concesso) e quanti sono più prossimi all'ex segretario Diliberto ci dicono di un'organizzazione probabilmente anch'essa giunta al termine della propria esperienza, almeno nella sua attuale forma.

La risposta alla crisi di queste tre organizzazioni, secondo molti, è la fondazione di un nuovo partito della sinistra nel quale i comunisti si organizzino in corrente (un qualcosa di simile a quanto avviene in altre organizzazioni della sinistra in giro per il mondo). 
Premesso che non esiste evidentemente un modello unico da seguire e che, nel mondo, la sinistra che vince ha ovunque sistemi organizzativi e modelli ideologici diversi, per il nostro Paese questa strada potrebbe non essere quella giusta e potrebbe anzi consegnarci come risultato la fondazione del settimo, dell'ottavo o del nono partito della sinistra che vuole unire la sinistra. Dico questo in aggiunta a quanto precedentemente avevo già espresso su questa rivista riguardo la necessità - non simbolica né testimoniale - dell'autonomia politico-organizzativa dei comunisti.
Alla luce di queste considerazioni per i comunisti sono dunque tre gli ostacoli ad una ripresa del loro protagonismo ed in complesso al loro affermarsi come motore di un'ampia sinistra del lavoro: un minoritarismo di derivazione demoproletaria, un rischio di chiusura di derivazione marxista-leninista, un liquidazionismo “da sinistra” della questione comunista che, anche se condotto con le migliori intenzioni, rischia di ripetere errori già visti. 
Si parte con l'intenzione di realizzare una sinistra più grande ed incisiva e si ci ritrova dopo poco con una sinistra più piccola e – se possibile – ancor meno influente.

L'esito delle europee fornisce, pur svelando le mille contraddizioni afferenti la collocazione sociale dell'elettorato di quella lista che non è stata in grado di porsi come riferimento per larga parte del mondo del lavoro, qualche elemento positivo che può rappresentare una base su cui partire
Si riparta dunque da quel risultato armati di buona volontà, privi di certezze e preconcetti sulle forme che questa scalcagnata sinistra assumerà, si riparta disarmando anche certe asprezze: non ci sono nemici, non ci sono traditori.Ci sono compagni di strada coi quali si possono definire rapporti di parentela diversi senza per questo porli fuori dalla stessa famiglia
Nessuno ha la bacchetta magica, e dobbiamo anche rassegnarci all'idea che la sinistra non è come la vorremmo noi (anche perché ognuno di noi la vorrebbe diversa da come la vorrebbe un altro), che la politica è una dimensione collettiva e che ha senso soltanto se ciò a cui aspiri ha un riscontro – sia pur minimo – nel mondo reale. 
Si riparta dunque non da estenuanti discussioni sulle forme organizzative ma da alcuni punti che concretizzino un campo di azione comune
Ne indico i tre che al momento sembrano i più urgenti per il Paese: l'enorme partita delle pensioni (financo rubata dalla Lega) che sottrae alle nuove generazioni lavoro, futuro ed una vecchiaia dignitosa; la deindustrializzazione del Paese e l'ulteriore dismissione di asset pubblici strategici per la nostra economia; l'acquisizione in toto di un sistema di relazioni tra capitale e lavoro di tipo americano o giapponese con il conseguente impoverimento di una fetta sempre più crescente di lavoratori. Da questi – e da mille altri - temi se le forze (o le debolezze) della sinistra italiana riuscissero ad affermare una propria opzione che sia pur minimamente di massa forse riuscirebbero anche ad organizzarsi.

Ultima modifica il Lunedì, 07 Luglio 2014 01:03
Roberto Capizzi

Nato in Sicilia, emiliano d'adozione, ligure per caso. Ha collaborato con gctoscana.eu occupandosi di Esteri.

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