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Giovedì, 03 Maggio 2018 00:00

Sull'attuale travaglio del Partito Democratico

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Sull'attuale travaglio del Partito Democratico

L’attuale travaglio del Partito Democratico riguardo alla formazione del prossimo esecutivo coinvolge in realtà la questione del governo solo come epifenomeno. Alle diverse prospettive politiche, infatti, sono evidentemente sottese divergenze più generali di lettura politica. Ad esempio, a Fassino che ha proposto un polo di centrosinistra M5S-PD da contrapporre a quello di centrodestra, Renzi ha risposto etichettando il M5S come azienda-partito e Forza Italia come partito-azienda (la prima sarebbe quindi degenerazione del secondo).

Questa incertezza è frutto di alcuni nodi irrisolti ereditati dalla sconfitta elettorale, e in parte concause della stessa, che tuttavia soltanto il supremo organo sovrano – il Congresso – potrà tentare di sciogliere.

Una questione centrale è quella dell’insediamento territoriale del partito, evidenziata dopo il voto da vari dirigenti. L’aggravarsi della disconnessione con i ceti sociali di riferimento della sinistra, infatti, è stata dovuta anche a una perdita di terreno nel radicamento. Oggi un abitante dei quartieri popolari può ricevere proposte politiche in due modi: sul web o dall’attività di una sezione di partito della sua borgata. Il PD ha tentato, nell’ultimo anno, di recuperare lo svantaggio nel web ma non vi è riuscito, probabilmente per una carenza di investimenti. Poco, invece, è stato fatto per l’insediamento materiale sul territorio. In questo campo il lavoro è stato limitato alla pars destruens, il «lanciafiamme», evocato da Renzi dopo le amministrative del 2016, per debellare correnti e grumi di potere. Tuttavia, rimosse queste filiere di consenso – magari discutibili – non ne sono state implementate di nuove.

È stata una scelta?

Probabilmente sì.

Ho già rilevato in passato (qui) come la lotta di Renzi contro il malcostume abbia incarnato la «riforma intellettuale e morale» delineata da Gramsci. Il Partito della Nazione ideato da Renzi avrebbe dovuto svolgere le funzioni che Gramsci in carcere immaginava per il Partito comunista, il moderno Principe che avrebbe forgiato l’unità morale degli italiani. Gramsci definiva questo moderno Principe come «intellettuale collettivo»; questa definizione è stata richiamata da Renzi, negli anni, tramite altre due denominazioni.

La prima, lungo tutta la sua azione nel PD, dal 2013 fino allo scorso congresso, rivendicando la necessità di un «partito pensante» (che è il sinonimo esatto della formula gramsciana). Nel 2013, in particolare, egli opponeva il partito pensante all’alternativa partito leggero/partito pesante e sosteneva che il “modello della robustezza” fosse fallito visto il calo di iscritti durante il segretariato Bersani. L’idea che il partito debba dedicarsi prevalentemente a compiti analitici e a definire politiche di lungo periodo, lasciando all’amministrazione l’azione immediata, è del resto cara a Renzi fin dai suoi anni come sindaco di Firenze.

La seconda, alla Leopolda 2014, quando disse che il Partito della Nazione esisteva poiché esisteva, nella popolazione italiana, un «Partito della ragione» che identificava nel PD l’alternativa «al nichilismo e al disfattismo».

Dunque dov’è stato l’errore di Renzi? Per quale motivo egli non è riuscito a fare del PD l’attore compiuto indicato da Gramsci per lo sviluppo morale dell’Italia?

L’impressione è che Renzi abbia interpretato le riflessioni di Gramsci in senso eccessivamente sovrastrutturale, forse anche perché ha aggiunto a concetti vecchi di 85 anni un filtro che li traducesse nell’attuale società liquida.

Così facendo Renzi ha assegnato al Partito una funzione esclusivamente intellettuale, esclusivamente motivazionale. Non ha cioè compreso fino in fondo che, al di sotto del programma culturale, che è nato già con «L’Ordine Nuovo», vi è un partito attivo che organizza la lotta. Gramsci stesso scriveva che «la riforma intellettuale e morale è sempre legata a un programma di riforma economica, anzi il programma di riforma economica è il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale»(e così Renzi pure si è condotto, nei limiti dell’azione economica del governo nazionale); per condurre questa riforma è necessario occupare le casematte del potere, ossia i gangli e le istituzioni della società civile.

Renzi ha intravisto la necessità di dotare il Partito di questi strumenti; ad esempio, nella mozione Renzi-Martina del congresso 2017 si legge: «ripensare il dirigente del PD sul territorio, a partire dal segretario di circolo, come un “promotore e organizzatore di comunità”, ossia una figura che sappia rappresentare non solo il rapporto con la Federazione e la gestione degli iscritti, ma anche essere riferimento di associazioni, mondi vitali, elettori delle primarie e cittadini, e dunque organizzare periodicamente consultazioni tra questi mondi sui temi dell’iniziativa politica del Partito». Ma in generale, come del resto emerge anche da queste parole, la vita di Partito è stata concepita come quella di un’elaborazione intellettuale della proposta politica e non di un incisivo veicolo sul territorio né di un soggetto di sostegno alle crisi locali.

Questo errore prospettico si è accompagnato alla scelta di condurre il programma togliattiano con una modalità più vicina alle elaborazioni autonome di Ingrao o Terracini i quali, seppure in termini diversi, immaginavano entrambi un appello alla società che trascendesse le necessarie intese con altri partiti politici organizzati.

In mezzo alle presenti difficoltà, alcuni dirigenti del Partito – in testa Sandro Gozi – hanno proposto di rivolgersi al cosiddetto “modello En Marche!” osservando, tra l’altro, che: a) se metà dei votanti hanno scelto M5S e Lega l’altra metà ha scelto diversamente; b) andare verso sinistra non conviene perché LeU ha raccolto solo il 3%.

In un ragionamento simile ci sono anzitutto due abbagli numerici. Il primo è che quel 50% di votanti non M5S e non Lega comprende anche Fratelli d’Italia, CasaPound, Forza Nuova, Il Popolo della Famiglia, eccetera. Il secondo è che esso comprende parimenti anche le forze di sinistra radicale, per ridotte che siano (e che non si limitano a LeU).

Ma, più rilevante ancora, non si capirebbe bene quali sarebbero i referenti sociali di una En Marche! italiana e quale sarebbe il senso profondo dell’operazione. Se si trattasse della semplice riproposizione dell’alternativa apertura/chiusura, speranza/rabbia, ripercorrerebbe l’errore tattico della recente campagna elettorale, tutta giuocata su questi temi e che, come ha rilevato Goffredo Bettini, non è stata in grado di intercettare la rabbia per convertirla in speranza.

In realtà, il modello En Marche! non può essere alternativo a quello socialista. Al contrario, essi devono essere complementari. I partiti socialisti, infatti, non potranno sopravvivere se non raccoglieranno le lezioni di successo di En Marche!: l’Europa come primo campo di battaglia (rilevato anche da Zingaretti nel suo “Manifesto per un nuovo Partito democratico” del 20 marzo) e la necessità di allargare i propri consensi sia a sinistra sia a destra.

Al tempo stesso, En Marche! deve essere sostenibile sul lungo periodo, e non per lo spazio di un’elezione. Come ha osservato Zanda «i partiti personali funzionano fino a quando il leader vince». Per conseguire tale sostenibilità, il partito non può non dotarsi di un radicato insediamento sociale, che si ottiene abbracciando e portando in Europa le istanze espresse dalle forze produttive che, del resto, En Marche! dice di voler rappresentare. 

Le discussioni sul “modello En Marche!” come via d’uscita alla crisi dei partiti del PSE rischiano quindi di essere fuorvianti se non si ricorda che già nel 2009 il PSE aveva costituito l’ASDE, che intendeva tenere insieme socialisti e democratici. L’anima di quel progetto, dentro il PSE, era naturalmente il PD.

Nella sua corsa verso sinistra successiva alle europee 2014 Renzi fece però aderire il PD direttamente al PSE. In questo senso egli contava di incontrare minori resistenze culturali da parte degli altri partiti e di poter comunque estrinsecare la propria politica forte del 41%, un unicum all’epoca tra i grandi partiti socialisti. Nel frattempo, tuttavia, il 41% è scemato mentre nel PSE l’apertura ad altre forze (di centro e di sinistra radicale) si è bloccata. Urge quindi rilanciare al più presto l’allargamento del campo socialista.

Come e dove, dunque, si allarga questo campo?

A questa domanda intendono rispondere le varie posizioni che si confrontano oggi nel PD, anzitutto riguardo l’articolazione del sistema politico. A prima vista lo scenario italiano può ricordare, seppure con proporzioni più favorevoli ai progressisti, quello polacco: una sfida tra destra liberale e destra “populista” con la sinistra in posizione terza. Secondo altri, vi sarebbe un bipolarismo tra la Lega al Nord e il M5S nel Sud. Per alcuni il M5S è affine alla Lega; per altri è più affine al PD.

L’errore generale che si riscontra in simili analisi, e che ha incredibilmente marchiato anche il rapporto tra PD e Fico, è il considerare i partiti e addirittura le coalizioni come monoliti. La prima linea di frattura, che interseca le coalizioni, è quella tra partiti democratici ed europeisti (il PD e FI) e partiti autoritari ed eurofobi (M5S e Lega). La seconda frattura, trasversale alla prima e che interseca gli stessi partiti, è tra forze conservatrici (Lega e destra M5S) e forze riformatrici (PD e sinistra M5S).

Per questo la politica di Di Maio, disposto ad accordarsi con la Lega oppure, a scelta, con il PD non va derubricata a idiozia o a sciocco opportunismo. È opportunistica, sì, ma non sciocca. I tre maggiori partiti, infatti, hanno una cosa in comune: un elettorato prevalentemente popolare. L’obiettivo del M5S, e in larga parte anche della Lega, è di aggregare il consenso del proletariato italiano attorno a una proposta fascista di restaurazione conservatrice e repressione del movimento dei lavoratori e, in generale, del movimento democratico. È quindi chiaro che i primi partiti a cui il M5S si rivolge siano quelli che dall’opposizione sarebbero più pericolosi, perché con più successo contenderebbero il consenso.

Sotto la minaccia del consolidamento del consenso proletario a forze restauratrici, cosa dovrebbe fare il PD? L’esito elettorale, che ha duramente punito il centrosinistra e le importanti riforme sociali che hanno migliorato la qualità e la dignità della vita (dagli 80 euro al bonus cultura alle unioni civili alla Naspi, ecc.), pone un problema molto più grande del consenso immediato, e recentemente evidenziato anche in Sudamerica, ossia quello della realizzabilità del socialismo democratico. Su questo problema si arenò anche, dopo trent’anni di duro e assiduo lavoro nelle istituzioni repubblicane, il PCI nel 1977-78. Come è possibile moderare la linea per riacquisire consensi, mantenendo però l’impronta rivoluzionaria?

Anzitutto, un errore tattico degli ultimi anni è stato il non aver sciolto un equivoco circa la “rottamazione”, lasciando pensare che la rottamazione riguardasse soltanto il Partito.

Certamente essa riguarda in prima battuta il Partito, perché il Partito è lo strumento massimo e più efficace per agire la trasformazione della società, come rilevato in apertura di questo articolo.

Inizialmente è sembrato che Renzi rimproverasse ai dirigenti della stagione ulivista di essere stati di poco successo nelle competizioni elettorali. Un’accusa non del tutto rispondente alla realtà, visto che quel gruppo aveva vinto due elezioni politiche (1996, 2006) e perse tre (1994, 2001, 2008); aveva vinto un’elezione europea (2004) e perse tre (1994, 1999, 2009); aveva vinto tre tornate di elezioni regionali (1995, 2005, 2010) e persa una (2000). Ed escludendo il 1994, in cui centro e sinistra erano ancora separati, il bilancio risulta ancora migliore.

In realtà Renzi imputava ai dirigenti passati – lo si è capito nel corso del suo governo – l’aver fallito non la prova elettorale, ma la prova rivoluzionaria: il non aver mai costruito una forza politica davvero riformatrice, l’aver essi condotto la prima precarizzazione del lavoro con il pacchetto Treu, l’essere sempre stati subalterni al berlusconismo, l’aver scelto l’alleanza con i gruppi conservatori (la magistratura, i giornalisti, in un certo senso il sindacato, parte dell’alta finanza).

Renzi non poteva esplicitare quest’accusa nel 2010-12, fatto che pure gli avrebbe portato consensi a sinistra. Non lo poteva poiché nella sua analisi ha sempre ribadito che la sinistra, per vincere le elezioni, deve prendere i voti da destra, e infatti la sua sfida a Bersani fu percepita prevalentemente (compreso da chi scrive) come una sfida da destra.

Una volta costruito con successo il consenso, nel 2014, Renzi ha ancora una volta evitato di esplicitare che la rottamazione si estendeva alla società ed equivaleva di fatto alle mancate “riforme di struttura” del centro-sinistra degli anni Sessanta (o appunto alla riforma intellettuale e morale gramsciana). Ha cercato invece di continuare a tradurre tali concetti in un linguaggio di destra, come aveva sempre fatto: usare il linguaggio dell’Uomo Qualunque per far passare la politica di Togliatti.

Ciò non avrebbe recato troppo danno, se non fosse stato accompagnato da un’ulteriore complicazione: la rottura con le forze moderate, ai cui elettori principalmente Renzi avrebbe dovuto rivolgersi.

Perciò si capisce per quale motivo perfino Travaglio abbia detto che il M5S potrebbe accordarsi col PD se questo «si libera di Renzi». La liberazione a cui Travaglio fa riferimento non è quella da Renzi come persona, ma dalle sue idee, dal programma politico che Renzi ha dato al partito: quello di estendere la rottamazione alla società italiana, di combattere ogni consorteria corporativa, ogni incrostazione di malcostume.

Su questo versante sono stati compiuti due errori, eguali e contrari. In primo luogo, la fretta dell’accelerazione riformatrice – quella che Stalin chiamò «vertigine da successo». Paradossalmente, l’urgenza di costruire un nuovo welfare per la nuova società del lavoro ha portato Renzi ha compiere la stessa sopravvalutazione di Monti della sostenibilità delle riforme da parte di una società ancora “gobba” (secondo l’espressione giolittiana); l’urgenza di rispondere ai tempi lo ha proiettato troppo in avanti. In secondo luogo, nel corso del 2017 e ancor più in campagna elettorale è stata imposta al PD, prevalentemente da ambienti istituzionali (si veda il caso Ignazio Visco), una precipitosa marcia indietro con la moderazione della campagna elettorale e l’abbandono della retorica rottamatrice. È anche per questo che la rabbia non è stata intercettata e che il PD è stato identificato come il partito di chi già aveva speranza nel futuro. Unico punto positivo di questa marcia indietro, la strenua definizione dell’identità antifascista del partito, che ha posto le basi per la negazione di un sostegno a governi a guida estremista (Salvini o Di Maio).

Dal giorno dopo le elezioni il PD è sottoposto a numerose sollecitazioni da parte dei suoi vecchi alleati (la grande stampa, la magistratura, alte istituzioni dello Stato, borghesia “illuminata”) perché sigli un accordo di governo con il M5S. Al di là del consenso che il Partito manterrebbe o meno, il prezzo richiesto da pagare sarebbe politico: la rinuncia al ruolo rivoluzionario, che sarebbe impossibile in un accordo-capestro con la Casaleggio Associati.

Il Partito Democratico deve oggi correggere ciò che ha difettato, ovvero rendere la sua azione riformatrice più aderente alle “pieghe della società”. A questo fine è necessario rafforzare e rinnovarela struttura del partito e, forse ancora di più, formare di un gruppo dirigente del partito stesso, non escluse le giovani leve. Molti quadri e dirigenti, anche di spicco, danno spesso l’impressione di non conoscere la storia del movimento operaio specie nei suoi momenti topici degli anni Venti e Trenta e di non saper quindi imparare da quelle lezioni.

Ferme restando queste necessità strutturali, la linea politica del PD dovrebbe mirare ad estendere il campo democratico integrandolo con le sensibilità riformatrici oggi prigioniere del blocco autoritario. In altre parole, tentare la spaccatura in primo luogo del M5S, portandone la sinistra nel centrosinistra, e in secondo luogo della Lega, ricucendo un’intesa con l’ala maroniana ostile al lepenismo e da sempre orientata a sinistra.

Maurizio Martina sembra, ad oggi, aver scelto un’altra strada. In questo modo non solo, ad oggi, non ha spaccato gli avversari, ma ha generato divisioni dentro il PD e dentro le sue componenti che si richiamano al socialismo. Senza per questo raggiungere neppure l’obiettivo, del resto delineato confusamente e non motivato, di portare il PD al governo con il M5S.


P.S. La carenza di investimenti nel radicamento territoriale e virtuale del partito deriva anche da una carenza di fondi. Questa sconta non soltanto il mutamento della legislazione in materia (dal finanziamento pubblico ai rimborsi elettorali al 2 per 1000) ma anche il venir meno dei finanziamenti sovietici. Cinque mesi fa il Partito comunista cinese ha tenuto a Pechino un incontro mondiale tra partiti politici progressisti, invitando, per l’Italia, proprio il PD. Forse, con il M5S ben accreditato negli Stati Uniti e la Lega in Russia, il PD potrebbe tornare a guardare verso Est.


Immagine liberamente ripresa da en.kremlin.ru

Jacopo Vannucchi

Nato a Firenze nel 1989. Ho conseguito la laurea triennale in Storia con una tesi sul thatcherismo e la magistrale in Scienze storiche con una ricerca su Palazzuolo di Romagna in età risorgimentale. Di formazione marxista, mi sono iscritto ai Democratici di Sinistra nel 2006 e al Partito Democratico nel 2007.

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