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Sabato, 12 Ottobre 2013 00:00

Perché ancora sì ai partiti

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Se la nostra fosse una società di uguali, nella quale le differenze di condizioni economiche e livelli culturali fossero annullate o anche tollerabili; nella quale a coloro che alla nascita, per un qualsiasi accidente della vita o per invecchiamento avessero perduto alcune capacità naturali (vista, udito, parola, mobilità, …) fosse provveduto ad una forte riduzione delle condizioni di svantaggio nei confronti degli altri; nella quale non vi fosse alcuna discriminazione di classe, colore della pelle, religione, orientamento sessuale, … . Allora sì che potremmo fare a meno dei partiti politici!

In una società del genere ogni cittadino disporrebbe delle risorse necessarie per partecipare alla vita pubblica, alla formazione delle regole (le leggi), essere parte attiva nelle stesse decisioni che riguardano l’insieme della società. In sostanza non solo potremmo fare a meno dei partiti, ma anche della democrazia rappresentativa di stampo liberale, sostituita da una democrazia diretta nella ognuno sarebbe legislatore, rendendo davvero effettivo il principio della sovranità popolare.

Così non è però! La nostra società è una società fortemente divisa, in cui le divisioni generano a loro volta altre divisioni. Una società dove la misura di una donna o di un uomo non dipende da quello che è, ma da quello che ha! Quando la più alta carica della Repubblica rivendica pubblicamente la necessità di garantire al governo il “consenso dei mercati” e mette in mora il consenso dei cittadini, rifiutando il ricorso alle urne elettorali, giudicate “pericolose” per le sorti dell’economia (ovvero di chi detiene il potere economico) e affidando il governo a dei “tecnici” – e meno male in altre epoche sarebbe stato affidato a dei “militari – a l’effetto è lo stesso: si ribalta completamente il senso della Costituzione, pur senza alterarne il testo.

In questa società esiste però un antidoto allo strapotere della “censocrazia”, intesa come potere dei detentori della ricchezza, ed è l’associazione, ogni individuo che di fronte al potere è solo e quindi impotente a contrastarlo può associarsi ad altri nelle medesime condizioni per orientare la vita politico/istituzionale verso obiettivi diversi e contrastanti da quelli perseguiti dagli interessi (economici) costituiti. In questa maniera l’organizzazione di un certo numero di individui supplisce alla minorità dei mezzi economici e della ricchezza. Ecco in estrema sintesi definito il partito politico.

Su questa base il partito politico potrebbe essere definito, parafrasando Thomas Paine, “un male necessario”. Un istituto cioè, che pur non essendo indenne da difetti, ha nella nostra società una funzione insostituibile e necessaria, almeno fino a che la società stessa organizzandosi socialmente in forma diversa, più egualitaria appunto, non ne renda superflua la funzione.

Per questo motivo considero la polemica contro i partiti (la partitocrazia nel linguaggio dei suoi promotori) profondamente conservatrice, se non reazionaria, in quanto tende, nascosta dalla lotta contro la casta politica, mantenere (conservare appunto) lo status quo sociale, che non viene mai messo in discussione. A questo proposito dovremmo interrogarci sul perché Confindustria apprezza e apre a Casaleggio, ideologo del movimento 5 stelle.

Se tradizionalmente “l’antipartitocrazia” è stata appannaggio dei liberali e della destra più reazionaria, nazista e fascista, e del resto la stessa Forza Italia è nata su queste basi ideologiche, in questi ultimi tempi abbiamo visto nascere movimenti che si collocano, se non a sinistra, almeno in aree molto prossime, in nome di una presunta superiorità della cosiddetta “società civile” o della “cittadinanza attiva”.

A parte il fatto che a costoro dovrebbe essere fatto rilevare che non è necessario definirsi partito per esserlo, ma che è la pratica sociale, politica e istituzionale che definisce il partito, qualsiasi sia la denominazione che pudicamente assume la parte interessata: soggetto politico (sempre nuovo!), movimento, alleanza,scelta, ecc; in questo senso gli unici onesti e coerenti sono gli anarchici, che rifiutando lo Stato rifiutano anche quella forma di Stato in embrione che è il partito.

Il movimento 5 stelle, Alba, Sel, Forza Italia, Fratelli d’Italia, Scelta Civica e tanti altri soggetti, pur non definendosi partiti si comportano come tali e lo sono a tutti gli effetti, anzi sotto tanti aspetti assumono forme organizzative, esempi lampanti Forza Italia e il M5S, fortemente autoritarie, basate essenzialmente sulla figura del capo, su una trasmissione gerarchica (anche se mascherata da contrattualismo fra base e vertice monocratico) delle decisioni politiche e su una disciplina di partito intesa soprattutto come fedeltà alle posizioni dettate dal leader. Unico precedente storico di questa forma particolare di partito politico è stato in Italia il Partito Nazionale Fascista.

Anche la stessa esaltazione di forme di “democrazia elettronica” tramite il web nasconde una natura elitaria ed esclusiva (nel senso di tendere ad escludere) e non democratica del partito, … pardon del soggetto politico “nuovo”. Quale ruolo potranno avere coloro che non sono pratici della rete, o meglio che non hanno i mezzi per l’acquisto di un computer o per collegarsi ad internet? Sembra di tornare ai tempi in cui l’elettorato attivo era riservato ai soli alfabeti, ma la storia ci insegna che quando qualcuno (fosse anche un’infima minoranza) è escluso da un diritto, quel diritto è in pericolo per tutti.

Infine la “società civile” o la “cittadina attiva”, tanto care a taluni soggetti, a parte l’ovvia considerazione che la “società civile” ha dato per tre volte la maggioranza alla destra ed espresso una classe politica che a quella della prima repubblica non gli lega neanche le scarpe – ricordate i 28.000 voti di preferenza dati a Franco Fiorito –, ancora una volta si tratta di una questione di classe, non si capisce perché il governo della cosa pubblica dovrebbe essere affidato in esclusiva al cosiddetto “ceto medio riflessivo”, solo in virtù del fatto di una maggiore dimestichezza con l’inglese, il greco e il latino, e non ad altri soggetti che magari non posseggono gli stessi livelli di cultura, ma esprimono bisogni e diritti insopprimibili.

In conclusione tutti costoro o riciclano vecchie idee di destra (della destra liberale dell’ottocento) o ingannano i cittadini per ritagliarsi un posto al banchetto della politica, polemizzando contro la casta solo perché non gli ha accolti nel suo seno.

Da parte mia ritengo che il partito politico (ovviamente di sinistra), epurato di tutti i suoi elementi negativi e corruttivi, e ricondotto al suo ruolo di organizzazione di classe e di intellettuale collettivo sia tuttora utile e necessario soprattutto per chi non ha, ma ambisce ad essere qualcosa di più di un consumatore sul mercato della politica non diverso da tutti gli altri consumatori.

Immagine tratta da: www.luciomagri.com

Ultima modifica il Venerdì, 11 Ottobre 2013 00:03
Francesco Draghi

Francesco Draghi, nel Partito Comunista Italiano prima e dalla sua fondazione nel PRC, ha ricoperto in entrambi incarichi di direzione politica, è stato amministratore pubblico.

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