Martedì, 26 Settembre 2017 00:00

Elezioni in Germania: un commento a caldo

Elezioni in Germania: un commento a caldo

Dopo le elezioni britanniche e francesi, è il turno delle elezioni tedesche. Un appuntamento che sicuramente merita attenzione, tra i timori di uno sfondamento dell'ultradestra, i dubbi sulle possibili alleanze di governo e gli inevitabili riflessi europei. Ne ragioniamo qui sul Becco, con il Dieci Mani di questa settimana.


I dati delle elezioni tedesche, per il loro valore, sono ormai di dominio pubblico, ed è inutile ripeterli. Vale la pena passare direttamente al commento.
C'è l'avanzata della destra radicale, declinata localmente sotto la sigla dell'AfD. Un fenomeno che riporta la Germania, fino ad oggi unico Paese (oltre al pur lodevole Portogallo) ad aver resistito alle sirene della demagogia, al triste comun denominatore della politica europea degli ultimi trent'anni. Come sempre le analisi che ricostruiscono un rapporto di causazione tra i risultati della destra e il disagio economico si sono sprecate, e sicuramente sono riuscite a catturare una parte non irrilevante del problema. La Germania, a livello di diseguaglianze, statisticamente si colloca nella media, con un Gini del 30.7 (contro il 26.3 di uno Stato poco diseguale come il Belgio, il 31.6 del Regno Unito ed il 32.4 dell'Italia), ma profonde fratture a livello socioeconomico esistono, e ci sono state ampiamente raccontate dalla stampa di questi giorni.

Il materialismo ingenuotto che vede un rapporto di causa-effetto tra voto di destra e problemi economici soffre però di gravi limiti, che diventano evidenti quando si va ad ampliare la comparazione a livello europeo. In Svezia la destra dei Democratici svedesi viaggia attorno al 20% nei sondaggi, la Danimarca è la patria di uno dei partiti della nuova destra storicamente di maggior successo, il Partito del Popolo Danese, mentre in Norvegia il Partito del Progresso – partito sui generis, più vicino alla destra repubblicana libertarian statunitense che al nazifascismo – è stato confermato dalle recenti elezioni nel suo ruolo di partner junior del governo conservatore. Per non parlare dell'Austria o della Svizzera. Tutti Paesi poco diseguali, in gran parte risparmiati dal peggio della crisi economica e dall'auserity “neoliberista” a cui si vorrebbero addebitare tutti i mali dal diluvio universale in poi. Allo stesso modo risulta difficile ricollegare onestamente le fortune delle forze neofasciste nei Paesi dell'ex patto di Varsavia – Germania Est inclusa – alle (reali) sofferenze economiche patite dai popoli esteuropei all'indomani della crisi definitiva del sedicente socialismo reale o nel contesto della recente crisi. Non si capisce, tra l'altro, perché le masse impoverite si dovrebbero affidare a forze che in molti casi (ed è il caso dell'AfD) portano avanti programmi liberisti da lacrime e sangue. Sarebbe forse il caso di indagare meglio, senza sottovalutare il fattore economico ma anche senza che questo diventi il paraocchi incontestabile, gli scontri culturali che hanno fatto a pezzi il tessuto sociale europeo negli ultimi trent'anni. Immigrazione, Stato-nazione, temi “etici” come l'aborto, diritti civili. Dovunque la destra lavora per rompere schieramenti e costruirne di nuovi, all'insegna della reazione sociale. La discriminate di classe si perde o è travisata dagli intruppamenti delle guerre culturali del tardo capitalismo.

Ma l'ascesa di partiti come l'AfD segna davvero il trionfo dell'estrema destra? Oppure è al contrario il segno della sua definitiva, storica, crisi? In Germania esiste già un partito neonazista, l'NPD, sostanzialmente cancellato dall'avanzata dei cugini “sovranisti” dell'AfD relativamente più presentabili negli ultimi due anni. In Francia il Front National di Marie Le Pen prosegue in una operazione di ripulitura di una facciata politica che già era nata, sotto l'egida di Jean-Marie, col preciso scopo di ripulire rifiuti tossici politici come i reduci dell'Action française e del terrorismo di destra degli anni '60-'70. I Democratici svedesi, per arrivare ai risultati odierni, hanno dovuto espellere un gran numero di vecchi iscritti, giudicati “troppo estremisti” per uno sdoganamento come partito mainstream che ormai sembra a portata di mano.
Il fenomeno resta assolutamente preoccupante, ma la realtà, come sempre, è più complessa dei titoli di giornale. Noi antifascisti dovremmo saperlo.


Alex Marsaglia

Le elezioni in Germania hanno rivelato un esito più scontato di quanto ci si aspettasse. La Cdu di Frau Merkel viene confermata, anche se in forte arretramento, e al secondo posto resta il partito socialista Spd che garantisce il bilanciamento di un sistema sostanzialmente bipolare vocato ai governi di coalizione e quindi ancor più difficilmente scardinabile da qualsivoglia populismo. Certo, il babau del populismo è il preferito per la retorica europeista che si bea di un sostegno praticamente unificato delle varie forze politiche alla ricerca di facili scranni parlamentari. In realtà in Germania il voto del popolo in sofferenza è relativamente ridotto viste le capacità economiche di un paese che ha fatto dell'unione economica il suo punto di forza e oggi vive di rendita.

Insomma, il populismo che sembra comunque in arretramento su tutto il continente, in Germania pare non aver mai sfondato per semplici ragioni economiche. È vero che esiste un ampio settore di mercato del lavoro destabilizzato dai minijobs, ma parliamo del paese che ha risentito meno di tutti nell'area euro delle ricadute economiche della crisi. Afd entra in parlamento, ma se analizziamo con realismo il fenomeno ci accorgiamo di una forza politica che stenta a decollare e che vede restringersi la sua base di consenso potenziale, poiché i flussi in uscita dal partito socialista si dirigono verso forze politiche di sistema e il mondo dei disoccupati e sotto-occupati da cui un partito populista dovrebbe raccogliere i consensi a piene mani sembra più sfiduciato e impegnato in un voto di protesta e nelle classiche forme di militanza leggera che nella costruzione di una reale alternativa all'Unione Europea. Insomma, si tratta della solita raccolta voti dei delusi dalla politica in nome dell'euroscetticismo (di destra in questo caso, viste le praterie lasciate dalla Linke sul tema).

In definitiva si può comunque prendere atto dell'esistenza anche in Germania di un processo di destrutturazione delle vecchie forze politiche, detto questo però non si può andare molto oltre. Infatti questo processo sembra avanzare meno che altrove nel paese egemonico dell'Unione Europea che viaggia verso il quarto mandato consecutivo di colei che rappresenta la vera lady di ferro dell'Unione Europea. Angela Merkel dai primi anni duemila si è dimostrata una guida sicura per una Germania che dal processo di unificazione monetaria ha saputo trarne solo vantaggi, scaricando sugli altri partecipanti all'Unione tutti gli oneri.


Dmitrij Palagi

Nell'analizzare i risultati elettorali bisogna sempre stare attenti a non guardare strumentalmente ai dati, per trovare conferme impossibili da riscontrare, specialmente all'estero. Il fenomeno AFD spaventa in maniera tragicomica la stampa liberale e progressista europea. Nonostante la Germania possa vantare una classe dirigente caparbiamente cinica, capace di piegare l'europeismo agli interessi nazionali, a danno di altre nazioni del vecchio continente, l'elettorato tedesco non si allinea alla narrazione di un'UE in ripresa, dopo la vittoria di Macron.

Gerhard Schröder è ancora oggi intervistato come il coraggioso riformista, sfortunato nel pagare in termini di consenso scelte unanimamente riconosciute come epocali e giuste, da parte dello stesso sistema di informazione disorientato nel vedere la barbarie culturale affermarsi in sempre maggiori paesi.

L'SPD ci dice molto dei nostri "socialisti" (categoria tornata ad essere utilizzata in Movimento Democratici e Progressisti, in particolare da Enrico Rossi). Così come era stato per Zapatero, Hollande ed Obama, anche Schulz è apparso un novello rivoluzionario, al pari di Sanders e Corbyn. Non importano i contenuti, l'importante è una narrazione in cui il rosso "torna di moda", con qualche accento di giustizia sociale e sfumature di redistribuzione delle ricchezze. Al centro del dibattito deve essere posto il lavoro, ma non il modello di produzione ed il tipo di economia.

Anche la Linke parla della sinistra italiana, suo malgrado e indipendentemente dalla sua volontà. La formazione tedesca esprime oggi la presidenza della Sinistra Europea e ricerca in modo significativo (con un forte interesse da parte di Tsipras) accordi con il PSE. L'accusa "da sinistra" mossa all'SPD è di non accettare un'alleanza rossa. Nel frattempo in Spagna qualcosa si muove, mentre in Portogallo prosegue un esperimento ignorato da troppi e per questo sorprendentemente privo di critiche da parte di una sinistra italiana sempre pronta a regalare patenti di tradimento, o assegnare fiaccole della salvezza.

Dalle elezioni tedesche può essere tratta una conferma anche per chi ritiene che oggi balbetti un progetto europeista, interrogandosi su come sopravvivere a contraddizioni che non riesce a sanare (lo scontro tra Draghi e alcuni ministeri di Berlino meriterebbe di essere approfondito), mentre le alternative suono vuote di progettualità, sia a sinistra (in fondo interessata a ricucire con la socialdemocrazia dove si pone il problema del governo) che a destra (i sovranisti sono certi di non avere speranze e in fondo va bene così, fino a un decennio fa non avevano praticamente nemmeno diritto di parola).


Jacopo Vannucchi

Sgombriamo anzitutto il campo da una leggenda metropolitana, ovvero il presunto ingresso della destra radicale nel Parlamento tedesco per la prima volta dopo il 1945. Formazioni di estrema destra e apertamente composte da “post”-nazisti ottennero seggi nel 1949, 1953, 1957. Cosa ancor più importante, laddove si guardi alle politiche e non alle sigle, il democristiano Adenauer condusse una politica revanscista denunziando gli accordi di Potsdam, mentre reduci del Terzo Reich, civili e militari, sedevano nelle istituzioni di Bonn.

Detto questo, il voto pare disegnare ancora una volta due Germanie lungo la ex cortina di ferro, ma la differenza è solo nei toni: l’aumento di Linke e AfD all’Est viene recuperato dagli altri partiti ad Ovest: in entrambe le zone destre e sinistre replicano il loro aggregato nazionale di 56% e 39%. Lo stesso risultato di AfD pare dovuto assai poco a motivi economici – gli elettori avrebbero altrimenti premiato la Linke o lo stesso Schulz che ha impostato la campagna sulla giustizia sociale – e molto al razzismo. I soli collegi in cui AfD è la prima lista sono nell’estremo sud-est della Sassonia, incuneati tra Polonia e Cechia del cui clima xenofobo paiono risentire.

Di certo l’asse politico tedesco si è spostato a destra: a destra hanno perduto consensi la CDU (verso FDP e AfD) e la Linke (verso AfD), mentre i socialdemocratici hanno sofferto verso entrambi i lidi (Linke, Grünen, FDP e AfD in misure simili). A mobilitarsi chiaramente sono stati anche gli ex astenuti: si stima che 1,2 milioni di essi abbiano votato per l’estrema destra, un flusso secondo solo a quello CDU-FDP (1,36 milioni).

La SPD, in coerenza con dieci anni di sbandamento, ha reagito d’impulso dichiarando la morte della Grosse Koalition per “non lasciare l’opposizione alla AfD” (la tesi che fu ed è di Bersani, con più successo per Grillo e Salvini che per lui). E tuttavia l’87,4% dei votanti – sette su otto – ha rifiutato l’estrema destra. Chiamandosi fuori dalla maggioranza i socialdemocratici lasciano la cancelliera sotto il ricatto dei falchi liberali e bavaresi, con ricadute sulla politica monetaria europea non troppo difficili da immaginare. Accettando di sedere al tavolo, invece, potrebbero reclamare un governo di unità nazionale che isoli la AfD e ponga le basi per l’unione della sinistra, magari rilanciando tramite la richiesta di una Assemblea Costituente, attesa dal 1990.
Le larghe intese, lungi dall’essere demonizzate, devono dunque essere estese, perché solo un blocco popolare unitario è in grado di contendere i ceti medi e popolari all’integrazione nell’unica alternativa: il blocco reazionario.


Alessandro Zabban

Alla fine lo stallo che si paventava si è effettivamente prodotto. In una tornata elettorale che ha visto i pronostici della vigilia sostanzialmente rispettati, Angela Merkel rimarrà con ogni probabilità cancelliera ma avrà grosse difficoltà a formare una coalizione di governo. La soluzione più logica sarebbe stata quella di riproporre la grande coalizione con l’SPD di Schulz che però, dopo aver rimediato una batosta terrificante, non è disposto a perdere ulteriori consensi e legittimità per qualche poltrona. L’ipotesi “Giamaica” (CDU+FDP+Verdi) è l’alternativa più tangibile anche se pare già molto forzata. Il problema non è tanto la lontananza che separa i liberali o i verdi dalla Merkel, distanza che non pare incolmabile, ma proprio fra i due possibili alleati minori della Merkel: da una parte l’FDP di Lindner ha un profilo nettamente anti-immigrazione e professa un'Europa dell’austerity e a due velocità, dall’altra i verdi che su questi aspetti hanno posizioni decisamente diverse e quasi opposte. Con Merkel che ha promesso una stretta sull’immigrazione da una parte e una apertura sul versante della fine del regime di austerità in Europa, i margini per un accordo a tre sono veramente risicati.

Sebbene siano state elezioni per certi versi dalla portata storica, quelle tedesche sono l’ennesima dimostrazione della presenza di alcune dinamiche politiche in atto in Europa già da diversi anni. Da una parte la crisi della socialdemocrazia tedesca sembra ormai cronico-degenerativa e segue quella di Grecia, Spagna, Francia. Proprio come in questi paesi, l’SPD non ha saputo presentarsi come credibile proposta politica per risolvere i problemi concreti dei meno abbienti e ha finito per diventare la brutta copia della CDU di Merkel. Dall’altra si assiste alla crescita di forze politiche di estrema destra dal carattere spiccatamente xenofobo. L’AFD ha un carattere peculiare (un confuso programma che unisce il peggio del neoliberismo col peggio del nazionalismo) ma è chiaramente in sintonia con il FN francese e la Lega italiana (per non parlare degli omologhi in Austria, Polonia, ecc…).

La sinistra arranca e non può far altro che rimanere marginale e settaria. Gli appelli all’unità dei “democratici” contro il pericolo dei nuovi fascismi non può essere colta da forze politiche come la Linke: sono le politiche neoliberiste ad aver generato le condizioni per il malcontento che nutre la destra xenofoba, cooperare per attuarle non farebbe altro che alimentare ancora di più i sentimenti fascistoidi che pervadono le nostre società. Per questo fa bene la Linke a tenersi fuori da qualsiasi coalizione di governo che con la scusa di ergersi come baluardo contro il fascismo, lavora ogni giorno per produrre quelle politiche che lo alimentano.

Immagine liberamente tratta www.lettera43.it

Pubblicato in A Dieci Mani
Martedì, 19 Settembre 2017 00:00

Magistratura e politica: un rapporto complicato

Magistratura e politica: un rapporto complicato

In Italia lo scontro fra potere politico e giudiziario ha una lunga storia. Da Craxi a Berlusconi, passando per Tangentopoli, il problema dei confini dell’esercizio del potere fra i vari organi statali ha caratterizzato profondamente la storia politica del nostro paese. Se da una parte molti partiti ed esponenti politici hanno denunciato il tentativo dei magistrati di voler assumere un ruolo politico ipotizzando, in taluni casi, persino la presenza di un vero e proprio disegno eversivo, dall’altra parte molti magistrati lamentano il rischio di violazione dell’indipendenza della magistratura da parte dei governi interessati ad accrescere il loro controllo sulle toghe. L’alto tasso di inchieste giudiziarie legate alla corruzione e al malaffare nel mondo della politica hanno a più riprese esacerbato lo scontro e avuto una grandissima risonanza mediatica.

Nonostante il declino del berlusconismo, continuano a registrarsi notevoli frizioni fra la politica e la magistratura. Solo recentemente la polemica fra l’ex presidente dell’ANM Davigo e il Ministro Olando sembra aver riaperto vecchie ferite mentre è di pochi giorni fa il duro attacco di Salvini nei confronti dei magistrati del Tribunale di Genova che hanno disposto il sequestro cautelativo dei fondi della Lega, misura che il leader leghista interpreta come un tentativo di ostacolare politicamente il Carroccio. Il tutto mentre il caso CONSIP rischia di sollevare l’ennesimo polverone.


C'è un fatto basilare, che dall'abolizione dei Parlamenti francesi (sorta di corti supreme il cui assenso era necessario per rendere esecutivi gli atti della Corona) dovrebbe essere condiviso: la politica dovrebbe prescindere dalle aule dei tribunali. Ciò significa prima di tutto che la politica, il processo legislativo in primis ma anche le vicende dell'esecutivo, dovrebbe prescindere dalle persone dei politici, dalle loro eventuali vicende giudiziarie e dalle loro eventuali personali responsabilità penali. Che significa a sua volta che i partiti dovrebbero esistere come contenitori di ideali ontologicamente più grandi delle persone, non come comitati d'affari di singoli capibastone e conventicole di potere.

Purtroppo, in Italia, un sistema di partiti sano non esisteva più nel periodo in cui Tangentopoli ha travolto la Prima Repubblica né tantomeno esiste oggi. All'imbarbarimento della politica corrisponde un imbarbarimento della società. La retorica della "casta" e delle manette, tra le altre, è stata assorbita da una massa disillusa e a corto di ideali significativi. Il canone della reazione populista è stato popolarizzato e sdoganato da quasi tutti i media, mainstream e di nicchia, come sostanzialmente tutti i partiti - dall'IdV alla Lega all'M5S, dal centrosinistra dei girotondi e dell'antiberlusconismo al PD di Renzi, fino all'estrema sinistra - dell'intero arco parlamentare. Marketing del consenso a basso costo, nel breve periodo. Pronto a trasformarsi in pericolosa involuzione, voltato l'angolo.


Alex Marsaglia

Siamo in pre-campagna elettorale e sembra che tutto si muova nella direzione della preparazione del terreno a ciò che avverrà tra pochi mesi. Siamo evidentemente ai colpi bassi giocati nelle segrete stanze del potere.
Che il CONSIP fosse luogo di corruzione penso sia un segreto di pulcinella. I magistrati però svelano il contenuto di intercettazioni e interrogatori, da cui emerge come un certo imprenditore Romeo avrebbe provato a ottenere una serie di appalti da CONSIP corrompendo nientemeno che il padre di Matteo Renzi. Insomma, il PD verrebbe travolto da un nuovo scandalo giudiziario di dimensioni tali da inficiare il progetto politico del PD renziano.

Parallelamente, anche l'altro polo politico non passa indenne questo periodo, anzi. Infatti, uno scandalo nato nei primi mesi del 2012 è giunto ai suoi tragici risvolti proprio in questi ultimi giorni. Belsito, il tesoriere della Lega Nord, venne indagato per la sua gestione dei rimborsi elettorali ricevuti dal partito e trasferiti in alcuni casi all’estero dove erano stati investiti in varie attività, tra cui l’acquisto di diamanti. La storia era di una tale gravità da aver portato alle dimissioni di Bossi dalla carica di segretario. Questa storia oggi viene riesumata e dopo che a luglio il tribunale di Genova aveva condannato per truffa ai danni dello Stato il fondatore della Lega Nord, Umberto Bossi, suo figlio e l’ex tesoriere del partito Francesco Belsito si è giunti al sequestro preventivo e provvisorio di diversi conti correnti del partito.

Nulla di nuovo, siamo un paese corrotto, ma l'orologio del conto alla rovescia alle elezioni inizia a ticchettare in modo insistente e le forze politiche si trovano al centro di scandali tutt'altro che sorprendenti. Nessuno mette in dubbio la legittimità di tali procedimenti, ci mancherebbe, è però certo che vi sia in atto uno scontro di potere di non poco conto tra due blocchi pronti ad attivare ogni risorsa pur di risultare vincenti. Il M5S cercherà di trarre giovamento da queste nuove turbolenze giudiziarie e staremo a vedere se riuscirà realmente a raccogliere i voti di un elettorato sempre più apatico e sfiduciato anche nei suoi confronti.


Dmitrij Palagi

Esistono le categorie ed i processi reali. Le seconde servono a garantire un minimo di oggettività al contesto sociale in cui si è chiamati a muoversi. L'idea di eleggere direttamente i giudici "con il popolo" è devastante, in linea con il delirio pronunciato da Matteo Salvini a Pontida. Anche se tra una cultura politica che promuove di lasciare "mano libera alla Polizia" (eleggiamo anche i vertici delle forze dell'ordine) ed una figlia del "legalitarismo alla Mani Pulite" non c'è grande differenza. 

Il migrante tiene ancora larga distanza rispetto al politico corrotto, nella classifica delle figure più invise all'opinione pubblica, ma non è detto che la Lega Nord paghi lo scandalo in cui si ritrova. In secondo piano è passata la marginalizzazione di Umberto Bossi, impensabile fino a qualche anno fa, che invece molto dice di un tentativo identitario da destra lepenista in cerca di spazio in una terra sempre più "riciclata" dal/nel Movimento 5 Stelle.

In fondo della legalità, nella cultura italiana, non frega poi molto a nessuno. Si ammette con tranquillità che i giudici in materia di lavoro si esprimono anche a seconda dei rapporti di forza attorno a loro, così come la Corte Costituzionale tiene conto di elementi concreti rispetto al contesto in cui deve esprimersi. Piace l'idea di poter dare la colpa ad altri. Ma la Lega Nord è in una fase (forse conclusiva) di massima colpevolizzazione di altri, difficile che il suo elettorato ed il suo tessuto militante non viva questa nuova difficoltà come una conferma del complotto ai loro danni.

Anche perchè, contrariamente a quanto pensavano molte e molti, non è con il Movimento 5 Stelle che si è recuperata l'astensione degli ultimi anni. La delusione, la rabbia che gira a vuoto, spesso, finisce per creare delusione e disinteresse. Meglio così, se l'alternativa è andare a destra. Manca, come spesso capita, una sinistra di classe in grado di saper distinguere la giustizia dalla legalità, aprendo un ragionamento sull'interlocuzione tra il sistema di cose presenti e quello da affermare con il suo superamento.

Certamente una tale analisi difficilmente potrà essere letta sul Fatto Quotidiano...


Jacopo Vannucchi

Il sequestro di alcuni conti correnti della Lega a sei mesi dalle elezioni non può non rievocare altre due vicende. Una, per prossimità temporale, è il proscioglimento di Giorgio Orsoni che nel giugno 2014 si dimise da sindaco di Venezia perché arrestato, con altre trentaquattro (!) persone, in una maxi-operazione condotta tra primo e secondo turno delle elezioni amministrative. L’altra, per affinità di vicende, è l’inchiesta sui fondi neri leghisti che a marzo 2012 azzoppò il consenso del partito, l’unico a non aver votato la fiducia iniziale al Governo Monti (l’Italia dei Valori, che pure avrebbe ceduto sotto simili colpi di “Report”, passò all’opposizione dopo la fiducia iniziale). Il Movimento 5 Stelle fu proiettato da questo colpo oltre la soglia del 3%, dando inizio all’ascesa che lo avrebbe portato in primavera ad affermarsi come rilevante forza politica.

La neutralità politica degli organi di Stato è apparsa messa in discussione anche dalle rivelazioni riguardanti le finalità antidemocratiche che avrebbero ispirato alcuni piloti dell’inchiesta Consip. Del resto proprio la Lega ha beneficiato, nell’autunno 2014, di un’intensa grancassa di propaganda gentilmente concessa dalle reti televisive (Rai, perché Mediaset sosteneva la concorrenza berlusconiana!) basata sull’istigazione dell’odio razziale contro i rom. Il M5s era ammaccato dopo la batosta delle europee e la Lega, che aveva superato di poco il 6%, fu il nuovo coniglio reazionario dal cilindro.

Non stupisce, ovviamente, la disposizione della Procura di Genova. Né stupiscono le ruberie fameliche di un partito che ha accozzato la melma di una società civile anarcoide e gretta, idiosincratica verso lo Stato e le regole sociali (non per niente Salvini a Pontida ha ancora difeso l’ideologia fascista, incluse le teorie sulla razza).
Desta semmai perplessità la tempistica, utile alle scadenze elettorali del principale beneficiario di un nuovo scandalo-Lega: il M5s. Davigo chiese ironicamente a Renzi un calendario di giorni fasti e nefasti per celebrare i processi, ma gli ultimi anni sono densi di inchieste eccellenti poi finite nel nulla – non prima di aver aizzato la folla che, ovviamente, crede a ciò che conferma l’idea malvagia dei “politici disonesti” (un avviso di garanzia vale per costoro ben più di un’assoluzione). Si ricordi l’inchiesta Tempa Rossa durante la campagna referendaria contro lo “Sblocca Italia”.
La campagna elettorale è ai blocchi di partenza, e non è dato sapere se gli “anticorpi” evocati da Gentiloni basteranno a garantirne uno svolgimento ordinato e democratico.


Alessandro Zabban

La magistratura non ha quasi mai svolto in Italia un ruolo progressista. Essa si configura piuttosto, dal punto di vista sistemico e al di là delle concezioni del singolo giudice, come strumento nelle mani delle classi dominanti. Come ricorda Livio Pepino, in Italia gli interscambi fra ordine giudiziario, parlamento e governo sono sempre stati frequenti. Almeno fino agli settanta, i confini fra potere politico e giudiziario erano molto più sfumati di oggi. La forte politicizzazione dei magistrati era considerata normale poiché questi esprimevano una giustizia di classe, a favore cioè della élite borghese. Senza bisogno di scomodare Marx, anche solo la repressione degli ultimi anni da parte della magistratura nei confronti di movimenti della sinistra, a partire dal NO TAV, la dice lunga sulla reale natura del potere giudiziario.

Si dovrebbe interpretare Mani Pulite e tutti i grandi processi per corruzione non come il tentativo da parte della magistratura di scardinare il sistema bensì di estirpare gli elementi nocivi all’interno di quella che si vorrebbe una sana società liberale a economia capitalista. Eppure c’è chi è riuscito a far passare l’idea che questo paese sia in balia del potere delle “toghe rosse”, espressione berlusconiana ripresa anche da Salvini per apostrofare i magistrati rei, a suo dire, di aver preso la sacrosanta e dovuta decisione di bloccare i conti della Lega. Quando si tratta di reprimere il dissenso i magistrati politicizzati non costituiscono mai un problema, quando però non rispecchiano e non si piegano agli interessi egemonici di qualcuno, allora sono “toghe rosse” di una magistratura comunista che vuole sovvertire lo stato di diritto. 

Immagine liberamente tratta www.meltwater.com

Pubblicato in A Dieci Mani
Venerdì, 16 Giugno 2017 00:00

Venti che soffiano in Europa

Soffiano in italia e in altri paesi d’europa venti e venticelli nuovi e importanti

La tornata elettorale dei giorni scorsi in molti paesi europei indica alcune tendenze e apre al tempo stesso molti interrogativi. Il contesto politico italiano e, per quel che si è visto, i contesti politici di Francia e Regno Unito stanno subendo modificazioni rilevanti, e ciò sta accadendo anche in Italia, benché in forma più ridotta e più confusa. Cosa si
può tentare di ipotizzare. A me pare che siano in campo più modificazioni degli umori dell’elettorato popolare.

In Italia una tendenza sembra essere quella dell’esaurimento della crescita del voto alle formazioni ululanti della destra fascistoide e del parallelo declino del voto al Movimento5Stelle. La crescita, per un certo tempo impetuosa, del consenso popolare a queste formazioni risultava creata dal loro recupero dei titoli dei temi che assillano o indignano le classi popolari, e l’intendimento che essa si proponeva era la punizione delle formazioni tradizionali di governo, data l’assiduità delle loro politiche antisociali, per di più estremamente brutali nella crisi sistemica di questi anni. Lo stesso è valso a lungo in Francia. In queste settimane, tuttavia, Marine Le Pen è stata stoppata alle elezioni presidenziali e poi fortemente ridimensionata al primo turno delle elezioni parlamentari, non avendo saputo unire alla denuncia del disagio sociale della maggioranza dei francesi un programma che avesse il senso dell’utilità. E lo stesso è poi accaduto al primo turno delle elezioni amministrative italiane, alle quali il Movimento5Stelle è stato travolto a causa del flop delle sue esperienze amministrative, del primitivismo e delle urla dei suoi esponenti, delle buffonate di Grillo.

È un po’ quello che succede in pubblicità: la dichiarazione che il tuo detersivo lava più bianco del bianco mentre gli altri detersivi lasciano macchie e patacche può risultare lì per lì credibile: ma poi quando ti accorgi non una volta ma continuamente che quel detersivo apre buchi nelle mutande cambi marca. È questa stessa, inoltre, la cosa in precedenza avvenuta a danno del PD di Matteo Renzi, inciampato, dopo averne fatte di ogni, in quel referendum costituzionale che doveva avviare un millennio di governo. Sicché quel che mi pare di ravvisare è, prima di tutto, una nuova tornata del peregrinare della parte disorientata dell’elettorato popolare, sia italiano che di altri paesi europei.

Ascrivo invece il flop dei conservatori di Theresa May alle elezioni parlamentari del Regno Unito a un altro tipo di tendenza popolare, anch’essa montante da relativamente poco tempo: la paura di un disastroso salto nel buio, ovvero la paura che la Brexit porti a forti danni economici e sociali, vale a dire, tramite la caduta del valore relativo della sterlina e conseguenti processi inflativi, alla caduta del valore di pensioni e risparmi, a ulteriori peggioramenti della condizione lavorativa popolare e delle prestazioni, già malmesse, del welfare, a ritorni della crisi e della perdita di posti di lavoro, ecc. Lo stesso fenomeno, inoltre, ha cominciato a operare anche altrove, senz’altro in Francia e in Italia. Anche questo dunque è da trarre dai recenti risultati elettorali in questi paesi: la paura del salto nel buio. Infine è probabilmente questa la ragione del ritorno di credibilità, che era apparsa declinante, di Angela Merkel in Germania. Quando si tratta soprattutto di votare a dispetto per la Le Pen, Matteo Salvini, Grillo, Frauke Petry non ci si pensa, nel senso a questo tipo di voto è presupposto che di sconquassi gravi comunque non ce ne saranno, tutto continuerà, certo male, ma come prima. Ma proprio il tentativo di Brexit della May ha indotto altrove in Europa la paura del salto nel buio. E lo ha indotto nello stesso Regno Unito: dato il programma sociale lacrime e sangue che la May ha accompagnato alla Brexit, dato il cattivo andamento dell’economia, che sta constatando la delocalizzazione in Irlanda e negli Stati Uniti di banche, fondi di investimento, sedi centrali di multinazionali, dato infine il rischio della secessione della Scozia (e del suo petrolio). Voto a dispetto e paura del salto nel buio costituiscono in certa misura un’antitesi: il carattere anche emotivo delle scelte elettorali può però far sì che coesistano nel medesimo individuo, e che a seconda delle circostanze prevalga in egli un tipo o l’altro di scelta. Insomma come diceva Mao “il disordine è grande sotto il cielo”, dunque “la situazione è eccellente”.

Io in verità non sono molto sicuro che oggi sia questa la situazione: però non è neanche il caso di esagerare in pessimismo. Ciò che la situazione sarà dipende dall’enorme quantità di cose di tutti i tipi che avverranno nella vita nella sua interezza delle popolazioni europee: e dentro all’enormità delle cose qualche elemento suscettibile, non dico di rendere eccellente la situazione, ma di migliorarla sensibilmente,e, come avrebbe detto Napoleone Bonaparte, poi vi vedrà, è venuto montando. Ecco infatti un ulteriore dato dei mutamenti degli umori popolari: il ritorno del loro sguardo a ciò che avviene nella sinistra politica, essendo essa non più portatrice tutta quanta e a larghissima maggioranza di politiche antisociali, oppure, più recentemente, dalla propria decomposizione e dalla propria semiestinzione, ma anche da ignificativi ritorni a sinistra, cioè al  proprio mestiere precedente di rappresentanza delle richieste popolari e di attivazione di mobilitazioni e di lotte er l’affermazione istituzionale di queste richieste.

Il successo di France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon e quello nel Regno Unito del Labour di Jeremy Corbyn hanno parlato chiaro in questo senso, e a suo tempo aveva parlato chiaro la vittoria in Grecia della Syriza di Alexis Tsipras. Hanno inoltre parlato chiaro fatti come il disfacimento di partiti i cui gruppi dirigenti si erano venduti, quali il PASOK greco, il Partito laburista olandese, il Partito socialista francese, a cui inoltre hanno corrisposto corposi successi delle sinistre dei relativi paesi. Una lezione analoga è  venuta dagli Stati Uniti, nella forma della straordinaria ascesa nel Partito democratico del socialista Bernie Sanders. È di eccellente augurio, ancora, il voto quasi plebiscitario a Corbyn dei giovani e del lavoro intellettuale, quello di giovani e di donne a Sanders, ecc.

Si può realisticamente tentare di percorrere questa strada di rifacimento della sinistra anche in Italia? A seguito ell’entrata in campo di Articolo 1? Punto Rosso pensa che la risposta sia sì. Ma alla condizione, per così dire, che vi crescano più rapidamente alcune convinzioni e alcune pratiche. Si tratta di questo: che occorre, primo, operare all’unità d’azione quanto meno in sede elettorale tra le forze attuali più dinamiche della sinistra (Sinistra Italiana, Possibile, ecc.); secondo, passare finalmente a una struttura organizzata capace di operare sia a livello locale che su larga scala, disponendo di sedi, democrazia, capacità di rapporto con popolazioni, luoghi di lavoro, luoghi di studio, collettività di movimento, ecc.; terzo, porre fine a quella curiosa attitudine della sola sinistra italiana nel mondo che è l’attenzione ossessiva verso ciò che avviene in un “centro” politico, sociale, culturale più fantomatico, nel modo altisonante in cui si autorappresenta, ed è rappresentato dai media liberali, che reale. A Milano, per esempio, dove risiedo, è ben piccola cosa, oltre che incerta e confusa sul terreno dei contenuti sociali e degli orientamenti politici; non so altrove in Italia. Non che debbano essere ignorati o snobbati quanti tengano a porsi politicamente al “centro”: anzi si tratta da parte di Articolo 1, a nostro avviso, di cooperare con essi nel modo più stretto e leale. Si tratta anche per questa via di portare le classi popolari a unire saldamente alle proprie richieste storiche di emancipazione sociale le richieste di movimento, altrettanto urgenti, in tema di diritti civili, migranti, ambiente. Ma ciò che soprattutto servirà alla ricostruzione di una sinistra politica italiana credibile a livello di classi popolari, radicata in esse, da esse sempre più votata, è di risultare chiarissima e inequivoca sul terreno di un programma e di intenzioni di classe; è di risultare definitivamente emancipata rispetto all’ossessivo vaniloquio massmediatico liberal e “centrista”; è di risultare capace di costruire un’egemonia solida di popolo nei confronti delle quote democratiche e civili delle classi medie. Se non sarà così, avremo sprecato l’ennesima occasione.

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L’orizzonte della sinistra unita: ma chi guarda più al Sole?

Clima politico incandescente nel nostro paese. In questi giorni si sta marciando a ritmi serrati verso l’approvazione della riforma elettorale, frutto del compromesso dei maggiori partiti presenti in Parlamento. Chissenefrega se c’è un governo che dovrebbe portare a termine delle leggi come la confisca dei beni ai corrotti equiparati ai mafiosi, la legge sul fine vita e tutte quelle riforme di cui Renzi si vanta ma che decide di abbandonare. O almeno questi sono i segnali di queste ultime settimane. Approcciandomi in toni colloquiali, confesso che sto scrivendo queste righe con quella nausea che non provo nemmeno quando per la mia tesi leggo testimonianze di stupri e fosse comuni balcanici.

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Giovedì, 04 Maggio 2017 00:00

L’urne de' forti si sono incrinate

L’urne de' forti si sono incrinate

Il pomeriggio della domenica delle primarie del Pd mi sono trovato per caso a passare da un circolo Arci in cui era stato allestito un seggio, nell’occasione ho ritrovato alcuni vecchi compagni del PCI, tutti ultrasettantenni, con i quali mi sono intrattenuto. Com’era ovvio l’argomento della conversazione sono state le primarie, che intanto si stavano svolgendo in una sala attigua al bar dove eravamo.

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Crisi in Venezuela: che destino per la rivoluzione bolivariana?

Il governo venezuelano di Maduro in questi ultimi mesi si trova di fronte a una grave crisi di consenso che tuttavia andrebbe indagata a fondo per capirne le reali cause. Se da un lato vi sono stati errori strategici di gestione della rivoluzione, già chiaramente riconoscibili nell'ultimo periodo di governo Chavez, oggi siamo di fronte alla stretta finale di ciò che resta della rivoluzione bolivariana.

La borghesia compradora ancora fortissima in un paese dal passato coloniale così importante è tornata a sferrare il suo attacco nel momento di maggior fragilità e isolamento del Venezuela incamminato sulla strada del Socialismo del XXI secolo. Non ci sono più né Fidel Castro né Hugo Chavez e il contesto internazionale, con l'imperialismo di Trump scatenato, appare propizio.

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Erdogan ed UE: una relazione imbarazzante ma stabile

L’approvazione referendaria, seppur con stretto margine, della riforma costituzionale voluta da Erdoğan segna una ulteriore tappa nel processo involutivo del regime turco e nel tentativo di stabilizzazione autoritaria. Le congratulazioni provenute a Erdoğan dalle potenze mondiali (Stati Uniti, Russia, Cina) e dagli attori regionali, non solo sunniti (pensiamo all’Iran), tradiscono l’interesse di Realpolitik al rafforzamento di equilibri che garantiscano la pace, sia pure armata, nell’area.

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Il decreto Minniti e la questione della sicurezza

Con le “Disposizioni urgenti per la tutela della sicurezza delle città” e le “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché misure per il contrasto dell’immigrazione illegale” torna al centro del dibattito l'ambito del diritto per quanto concerne la repressione dell'illegalità. Mentre le "città ribelli" (i sindaci alternativi al centrosinistra del Partito Democratico) hanno lanciato mobilitazioni lo scorso sabato in tutta Italia, Orlando (il candidato ufficiale della "sinistra" interna alle primarie della forza di Governo) e gli ultimi fuoriusciti ex DS difendono la bontà della legislazione.

Le categorie sociali più deboli accendono sempre gli animi di chi è meno debole, incrociando le pulsioni giustiziaste e confondendo spesso i temi in discussione (in un periodo dove anche la "legittima difesa" occupa larga parte del dibattito televisivo nazionale). Su questo le nostre otto mani.

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Bombardamento statunitense in Siria: monito o premessa?

Dopo mesi di combattimenti in cui la fortuna bellica stava gradualmente iniziando a sorridere ad Assad e al suo alleato russo a danno dei ribelli sia "moderati" che islamisti, nella notte fra il 6 e il 7 Aprile gli Stati Uniti hanno lanciato il primo attacco deliberato contro obiettivi militari del governo siriano, rimescolando nuovamente le carte di una crisi regionale sempre più allarmate.

Il pretesto, un bombardamento che si presume condotto dall'aviazione governativa nella provincia di Idlib con armi chimiche e che ha causato la morte di almeno 86 persone, ma le cui dinamiche e responsabilità sono ancora tutte da verificare, ha portato l'amministrazione Trump a spingersi su posizioni interventiste incassando l'immediata approvazione di Ankara e di molti leader europei. Molto dura invece la Russia che parla di violazione illegittima della sovranità nazionale.

Resta da capire se si tratti solo di un attacco dimostrativo oppure se Trump abbia veramente l'intenzione di aprire un fronte militare in una zona delicatissima del pianeta, in un paese martoriato e diviso in cui si scontrano gli interessi geopolitici delle principali potenze mondiali. 

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Lunedì, 03 Aprile 2017 00:00

Il dissenso in Europa tra No Tav e Navalny

Il dissenso in Europa tra No Tav e Navalny

L'Unione Europea è intrappolata nella più grande crisi di sempre, con interi popoli in rivolta per le condizioni in cui sono costretti a vivere, ma nell'ultima settimana il problema principale è diventato la Russia.

Nella fattispecie si parla di manifestazioni contro la corruzione dilagante. A una prima indagine si scopre però che i promotori di tali manifestazioni sono: un blogger che promuve la cultura post-sovietica e nazionalista più becera e risponde al nome di Navalny e Mikhail Khodorkovsky uno degli oligarchi più potenti della Russia delle grandi privatizzazioni inaugurate da Boris Eltsin nonché fondatore della Open Russia Foundation con lo scopo esplicito di cambiare il "regime" russo. Insomma, non sembra certo una libera scelta del popolo russo quella che abbiamo visto, quanto una forma indotta e forse persino eterodiretta di manifestazione politica del dissenso. Questa settimana ci occuperemo quindi della questione della gestione del dissenso in Europa

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