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Venerdì, 30 Maggio 2014 00:19

Europa, Italia e populismo

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Ho sollevato in un precedente articolo il tema di che cosa si debba intendere per “populismo”; o, meglio, poiché “populismo” è una parola che ha subito in questi anni tutte le torsioni di significato possibili e immaginabili, quali siano i significati che rendono oggi utile questa parola, e la portino a nozione con un contenuto non troppo elastico. Poniamo che con il termine “populista” sia stato utile in passato definire una formazione politica orientata ad accorciare la distanza tra sé e il popolo o un suo segmento, ovvero orientata a “saltare” la mediazione tra sé e questo popolo o segmento di popolo fornita da “corpi intermedi”, di natura sociale (come per esempio i sindacati) o istituzionale (come per esempio assemblee parlamentari o governi locali); inoltre orientata a togliere potere, o addirittura ad annullare, tali corpi intermedi o una loro parte; infine a sostituire nell'immaginario sociale, ai ruoli delle istituzioni centrali

dello stato, dei corpi intermedi e di se stessa come partito, il ruolo del capo di quest'ultimo, ovvero una sua rappresentazione iper-attivistica significante la capacità di risolvere problemi che nessun altro aveva saputo risolvere, di andare sempre al sodo, di spazzare via inezie e resistenze, ecc. Occorrono perché ciò accada, oltre che potenti supporti mediatici, figure di capi con effettive capacità di trascinamento carismatico, di linguaggio che riesce a entrare in sintonia emotiva, usando le forme espressive popolari, con le attese e i malesseri più o meno estesi nel popolo, ecc. Da questo punto di vista abbiamo avuto, da subito dopo la dissoluzione del vecchio sistema politico, 35 anni fa, l'emergenza di due figure efficaci di capi populisti, quella di Berlusconi e quella di Bossi; in tempi più recenti è venuta fuori quella di Grillo; ma perché ora escludere quella di Renzi? Essa pure risponde al modello del capo populista di un partito con un programma populista sulle questioni cruciali dell'accantonamento o dell'annullamento dei corpi intermedi e del rapporto diretto del capo al popolo.

Tuttavia non ci siamo ancora con una nozione “attuale” di populismo. C'è una domanda, sottesa a tutto quanto sopra, che chiede: perché avvengono una dopo l'altra in Italia queste cose? Perché, inoltre, stanno avvenendo oggi in lungo e in largo in Europa? E c'è un'altra domanda sottesa: non tendiamo forse a mettere dentro alla nozione di populismo tutto e il contrario di tutto, non solo qualcosa di omogeneo?

Io penso questo. Intanto, che la crisi dei corpi intermedi non è tanto un effetto della contestazione che viene loro da formazioni e capi populisti ma, all'opposto, è una delle cause dell'emergenza di questi ultimi. Poi, che la crisi dei corpi intermedi e l'emergenza populista hanno (in Europa) come cause primarie: (primo) la crisi sistemica capitalistica esplosa, all'inizio come crisi finanziaria, nel 2007; (secondo) il fallimento economico radicale della risposta borghese e delle grandi forze politiche europee di governo (destre popolari, liberali, conservatrici e sinistre socialdemocratiche) alla crisi (risposta di marca tedesca ma condivisa inizialmente dalla totalità dei governi europei, ultimo quello del ridicolo burocrate socialdemocratico che la Francia ha avuto la sventura di eleggere a capo della repubblica); (terzo) il disastro sociale determinato da crisi e politiche economiche fallimentari. Proprio essendo corpi intermedi, quindi di mediazione tra il popolo e il vertice esecutivo dello stato, i tempi a cui essi portano la decisione dello stato sono “lunghi”: mentre le crisi rendono necessarie, certamente dal punto di vista dell'immaginario sociale, spesso obiettivamente, risposte “veloci” (ci pensano inoltre i capi populisti a radicalizzare, sfondando porte aperte, questa convinzione). Inoltre, la mediazione è per sua natura fatta di concessioni reciproche, di risultati intermedi: mentre il peggioramento delle condizioni di vita popolari e la paura del domani portano a radicalizzare le richieste popolari e a esasperare il popolo dinanzi a mediazioni che appaiono pura melina.

Se le cose stanno così, io credo che non si debba continuare a parlare di “populismo” come di qualcosa che caratterizza questa o quella o tutto un gruppo di formazioni politiche: ma parlare di una “situazione populista”, certamente in Italia molto netta, certamente in altri paesi europei altrettanto netta (per esempio in Ungheria, ma anche in Grecia), certamente in quasi tutti gli altri in via di allargamento (e tra questi paesi sono molto avanti Francia e Gran Bretagna). In secondo luogo, credo che si debba assumere come dato oggettivo questa situazione, invece di recriminare; e perciò di adattarvisi duttilmente invece di continuare a dire scemenze sul qualunquismo ancestrale del popolo italiano, su come era bello una volta, su dove sono i giovani, e gli operai, ecc. In altre parole, che si tratti di capire come si possa essere “populisti” a sinistra in Italia; dunque di imparare davvero dalla Grecia, cioè da Syriza e da Tsipras, di comprendere davvero il modo di fondo della loro azione, di adattarlo alle condizioni italiane, invece di lodarli continuando a sinistra a giocherellare con le proprie gravissime tare.

Ho accennato a Syriza, a Tsipras, alla Grecia come situazione populista (la prima in assoluto in questa crisi, per ovvie ragioni: le istituzioni europee l'hanno massacrata). Essa evidenzia più cose. La prima è che una situazione populista sul piano dei contenuti politici e, almeno in parte, della composizione della propria base sociale è necessariamente polivalente, può produce tutto e il contrario di tutto (vedi Syriza e Alba Dorata); essa non può che riflettere, d'altra parte, il frangente del momento, politico, sociale, istituzionale, morale, umorale, mediatico, ecc. della massa del popolo. In Italia, addirittura (altrove non sembra essere così), la scomparsa totale delle forze politiche del dopoguerra dà alle formazioni populiste curiose caratterizzazioni politiche miste, tali per cui non c'è solo Berlusconi affascinato da Renzi ma c'è che sia nel PD di Renzi che nel movimento di Grillo si trovano mescolate assieme (in termini ovviamente difformi) posizioni che appartengono alla storia della sinistra e posizioni che si trovano nella storia delle destra. La seconda cosa che la Grecia insegna è che non risulta “obbligatorio” gestire una situazione populista, cioè gestirla attraverso il rapporto diretto al popolo, massacrando o marginalizzando i “corpi intermedi” sociali, addirittura i partiti minori, come intende Renzi, in parole più crude e precise gestire una situazione populista attraverso una riduzione più o meno ampia, comunque sostanziale, della democrazia (va da sé che l'adozione di “primarie” ecc. alla PD non è un rimedio al male ma è funzionale al male). Si può essere invece populisti e democratici (vedi Tsipras). Terza cosa: occorre tuttavia rispondere positivamente alla richiesta popolare di un accorciamento radicale dei tempi di decisione: occorre quindi combinare azione istituzionale e mobilitazione popolare diretta o tramite i sindacati. A tutto questo infine la situazione italiana aggiunge una quarta cosa: la tutela democratica dei corpi intermedi necessariamente implica razionalizzazioni di tempi e ruoli delle assemblee elettive e, guardando ai grandi sindacati, che essi si diano una regolata: altrimenti è una battaglia persa.

Quest'ultima considerazione ha un doppio significato: (primo) che i sindacati debbono prendere atto di come proseguire nella richiesta ai governi di “concertazione”, ovvero di recupero di una storia di infinite discussioni congiunte tendenti a costruire mediazioni, è insensato: può portare solo al rifiuto dei governi e semplicemente toglie ai sindacati credibilità nel mondo del lavoro; (secondo) che i sindacati debbono velocizzare i loro tempi operativi: un anno per fare un congresso, come capita alla CGIL, sarebbe un'assurdità anche nella situazione non populista più serena del mondo. Ciò a sua volta rinvia alla necessità, senz'altro per quanto riguarda la CGIL, di portare l'immensa burocrazia del suo apparato orizzontale, quella che ha espresso tempo fa l'attuale gruppo di comando, a fare cose utili, ad adeguarsi alla qualità dei problemi del mondo del lavoro e dell'economia, a studiarli e a studiare come risolverli, a fornire servizi reali adeguati alle realtà lavorative, anche a ridurre a un livello sensato i propri effettivi. I problemi di CISL e UIL sono in parte d'altra natura, in ogni caso anch'esse risultano tagliate fuori dai loro ruoli tradizionali, concertativi e subalterni al tempo stesso al sistema di relazioni sociali capitalistiche. Se ciò non avverrà in forme adeguate e in tempi non geologici, temo che dopo la crisi delle vecchie organizzazioni politiche arriverà anche quella delle confederazioni.

Un'ultima osservazione, su come riesca davvero funzionare un partito populista collocato a sinistra dal lato della difesa democratica, inoltre come esso possa davvero disporre di una reale democrazia interna (evidentemente inesistente nelle formazioni a guida Grillo e Berlusconi, ma inesistente, benché meno evidentemente, grazie all'espediente delle primarie, anche nel PD di Renzi). I tempi rapidi non sono una sorta di condanna alla riduzione netta se non alla mancanza di democrazia, dentro ai partiti e nello stato? La mancanza di democrazia interna di partito non è da considerare come coessenziale, culturalmente, all'attitudine a una riduzione della democrazia nello stato? La risposta a quest'ultima questione è facilissima, ed è sì. Vediamo le altre questioni. Intanto, siccome i tempi rapidi sono necessari, data la situazione populista, altrimenti si rinuncia a esistere politicamente e si ripiega su riti e mitologie in attesa che i santi ti salvino, c'è un solo modo per tenere assieme democrazia interna di partito e velocità: quello della massima coesione interna di partito. È questo, inoltre, un modo per funzionare meglio a sinistra rispetto alle formazioni populiste autoritarie: perché al primo grosso inciampo la coesione di queste ultime entra facilmente in crisi. Ciò a sinistra richiede prima di tutto, direi ovviamente, un quadro dirigente non solo serio ma onesto, non accaparratore, non individualista, non settario. Si tratta quindi, quanto a democrazia interna, soprattutto oggi, di un metro che misura l'effettiva capacità politica non solo del capo ma dei gruppi dirigenti, dei quadri, dei militanti attivi stessi. La risposta all'altra questione richiede anche un passaggio di cultura politica in senso antipassatista globale e un'intelligenza politica duttile. Mi spiego con un esempio. È vero che chiudere il Senato o trasformarlo in una buffonata, come propone Renzi, è un'operazione di sapore piduista; ma è anche vero che due camere parlamentari che fanno le stesse cose è irrazionale dal punto di vista della capacità effettiva dello stato di fare fronte alle urgenze sociali ed economiche della crisi.

Vedremo abbastanza alla svelta se i frammenti attuali della sinistra italiana sapranno orientarsi adeguatamente e unitariamente nei prossimi tempi, o se torneranno alle loro pessime abitudini. A oggi i segnali vanno in tutte le direzioni.

Ultima modifica il Venerdì, 30 Maggio 2014 00:31
Luigi Vinci

Protagonista della sinistra italiana, vivendo attivamente le esperienze della Federazione Giovanile Comunista, del PCI e poi di Avanguardia Operaia, Democrazia Proletaria, Rifondazione Comunista. Eletto deputato in parlamento e nel parlamento europeo, in passato presidente e membro di varie commissioni legate a questioni economiche e di politica internazionale.

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