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Giovedì, 25 Gennaio 2018 00:00

Sono una donna, non sono (solo) una mamma

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Sono una donna, non sono (solo) una mamma

La pagina Facebook dell'associazione, #VorreiPrendereIlTreno ci racconta la storia di una madre americana costretta, da 21 anni, a vivere al servizio, del figlio autistico e della terapista che lavora "per la sua autonomia". Ma quante sono le madri che ogni giorno, per anni e anni, sono costrette a spegnere i riflettori non solo su loro stesse e le loro esigenze, ma anche su quelle del resto della famiglia, perché il palcoscenico familiare è occupato da un figlio scomodo?
Ovviamente non è in discussione l'amore di una madre per il proprio figlio. Anzi, probabilmente in caso di problematiche il sentimento è anche più forte. Ma perché una madre può amare il proprio figlio non disabile e, allo stesso tempo, frequentare un corso di ginnastica, uscire con un'amica o, più banalmente, lavorare, mentre una mamma con figlio disabile deve amarlo e basta ventiquattro ore al giorno?

Tra l'altro una mamma "normale" è ben consapevole che, nel bene e nel male, ad un certo punto il suo ruolo, fisiologicamente, verrà molto ridotto: ovvio, il legame resta per sempre, ma quando il figlio non è più un bambino tutto diventa molto diverso. Nel caso di un figlio con handicap, se la crescita smorza determinati bisogni, ne aumenta o fa nascere altri. La vita con un figlio con handicap è difficile, anche fisicamente pesante. Certe azioni o attività non riesce a svolgerle da solo perché la sua disabilità gli pone dei limiti insuperabili; e anche quando si riesce a far ottenere al ragazzo determinati traguardi questo avviene al prezzo di sacrifici e fatiche, a volte non ripagati neanche pienamente dai risultati, spesso inferiori o differenti dalle aspettative.

Proprio per la pesantezza della gestione quotidiana bisogna affrontare mille e mille questioni pratiche in modo assolutamente pragmatico, lasciando perdere le teorie pedagogiche e, talvolta, anche i consigli degli "addetti ai lavori". È vero che troppe volte l'urgente non lascia il tempo per l'importante. E la vita di un disabile, e di una famiglia in cui c'è un disabile, è strapiena di urgenze: i ricoveri in ospedale, le lotte quotidiane per ottenere dei sacrosanti diritti quali l'inserimento a scuola, la possibilità semplicemente di condurre un'esistenza "diversamente normale". Ed è chiaro che un bambino non può combattere da solo, non soltanto perché non sarebbe giusto, ma perché non verrebbe ascoltato. Quindi i genitori devono lottare al suo posto. Quindi è umano che un padre ed una madre, investiti da una così grande responsabilità, costretti a intendersi di mille e mille materie differenti, siano ad un certo punto stanchi. Ma la stanchezza è un 'bene' che non si possono permettere. Non si può, in certe situazioni, dire "fermate tutto, vogliamo scendere".

Ed è qua che torniamo al nocciolo della questione: è indispensabile mettere in campo delle strategie per preservare per quanto possibile il benessere fisico, ma anche psicologico dei genitori. Se ogni persona ha diritto a godersi degli spazi solo personali, sarebbe necessario garantire quella stessa possibilità anche ai genitori di un disabile. Perché chi ha in casa un figlio problematico non può godersi un concerto, una gita in montagna o un week end fuori porta? Perché deve percepirsi indispensabile e insostituibile? Perché, dispiace dirlo, lo è: solo una mamma (o un babbo) conosce quelle strategie per far mangiare, o vestire, il proprio figlio. Solo con lui/lei il ragazzo si sente tranquillo e riesce a dormire. Una soluzione potrebbe essere che ognuno dei due genitori si ritagli, individualmente, dei momenti di relax. Ma si tratta soltanto di un palliativo, e comunque non sempre attuabile: ci sono, nella complicata routine di una famiglia con handicap, eventi che possono essere affrontati solamente da entrambi i genitori. Inoltre la necessità di programmare sempre e comunque momenti di relax "in assolo" va a ledere la vita di coppia: marito e moglie magari avrebbero voglia di farsi una vacanza "da piccioncini".

Altrimenti si potrebbe ipotizzare di chiamare in campo i fratelli o le sorelle, quando presenti. Ma anche lì i dilemmi sono tanti: innanzitutto, è giusto caricarli della pesante quotidianità che presuppone la fratellanza con un disabile? Vero è che questa pesantezza ricadrà loro sulle spalle al momento della morte dei genitori. Saranno loro a dover raccogliere il testimone ed occuparsi di tirare avanti la baracca, ed il "baraccato". E cosa potrebbe succedere se si trovassero a dover svolgere un ruolo sicuramente complesso senza un minimo di tirocinio con i genitori a fare da tutor? È per questo che sarebbe secondo me opportuno non partire dal presupposto che i fratelli "sono piccoli" o che il figlio disabile è "affare dei genitori", ma abituarli fin da subito, gradualmente, a considerare la famiglia come formata da tutti i componenti, più o meno facili. Nessuno vuole relegare fratelli e sorelle al ruolo di badanti, ma è chiaro che sarebbe buona regola che tutti si occupassero anche degli anelli deboli della famiglia. Nel contempo la condivisione dei compiti assistenziali permetterebbe a tutti i figli di avere i propri spazi di dialogo e condivisione di vissuto con i genitori. Insomma, ti prendi un dovere, ma in cambio hai un diritto.

"Ma come", diranno i benpensanti, "bisogna lavorare perché il ragazzo sia autonomo, in grado di pensare a se stesso, come i suoi coetanei non disabili". Facilissimo: perché non ci si è pensato subito? Che ci vuole! Basta dire a un bambino, e poi a un adolescente, che la sua vita dovrà essere votata a rendere migliore un non meglio identificato futuro. Uscire con gli amici, vedere un film alla televisione, andare al cinema, leggere un libro? Tutto subordinato a ore ed ore di noiosissimi esercizi in compagnia di fisioterapisti o comunque operatori tanto, troppo assimilabili a medici. L'unica concessione: andare a scuola la mattina!

Messa così non è proprio una passeggiata di salute, ed è comprensibile che qualche ragazzo decida di gettare la spugna e accontentarsi di vivere alla giornata, anziché progettarsi un futuro migliore. Ma il tempo passa troppo veloce, ed il ragazzo è destinato ad accorgersi che, per raggiungere traguardi importanti, gli sono richieste, implicitamente, delle performance di cui non è capace: vuoi studiare in un'università lontano da casa oppure trovi il lavoro dei tuoi sogni a km e km dal nido? Spesso sei costretto a rinunciare perché non ti sei messo in condizione di gestire autonomamente la quotidianità. E certe incombenze non si imparano dall'oggi al domani. Ed è in quel momento che viene spontaneo dirsi "ma perché non ci ho pensato prima?". Perché quando i genitori, a 14 anni, insistevano per la palestra, la priorità era uscire con quel ragazzo "tanto carino". Tutto umano, tutto sacrosanto. Ma purtroppo chi ne paga le conseguenze è la persona disabile. Perché no, la vita non è giusta: un ragazzo non è capace di cucinare ma vuole andare a vivere da solo? Niente paura, esistono i cibi pronti! Un po' più complicato è trovare un surrogato per questioni molto più personali. Altra annosa questione: il ragazzo disabile cresce, ma la sua disabilità resta. Permane quindi la necessità di farsi aiutare per tante piccole grandi cose, ma non abbiamo più di fronte bambino, ma una persona che ha come tutti, bisogno della sua privacy. Come "salvare capra e cavoli" ed aiutare il ragazzo per quello che è necessario, ma tenendo bene in mente il suo status di adulto? Un genitore dovrebbe riuscire a tenere a freno la tentazione di "mettere il becco" in questioni che riguardano la vita del figlio: il solo fatto di doverlo aiutare a vestirsi non lo autorizza a decidere che debba conservarsi un impiego da lui reputato non soddisfacente. Certo, non si pretende il "servo muto" (gratis), ma i consigli devono restare nei limiti di quello che si farebbe con un figlio normodotato.

Ma la parte peggiore spetta al figlio, magari perfettamente consapevole dei sacrifici che i genitori fanno ogni giorno per lui, ma allo stesso tempo 'dotato' di esigenze, non soltanto materiali, ma anche sociali e personali. Man mano che la spensieratezza adolescenziale lascia il posto all'adulta consapevolezza, si trova ad un bivio: dare ascolto alle proprie passioni a costo di chiedere uno sforzo ulteriore ai genitori o soffocare tutte le proprie peculiarità e vivere "a risparmio energetico" (altrui) accontentandosi di ciò che "passa il convento" a portata di mano? Non è giusto che i genitori debbano vivere in funzione del figlio, certamente, ma non è altresì sano, da parte del ragazzo, rinunciare a tutto per non gravare sulla famiglia. Ci vorrebbe un maggiore sostegno da parte dello Stato, in maniera che gli aiuti necessari possano essere recuperati fuori dal nido familiare. Ma tant'è, le situazioni sono tante, i soldi pochi, perciò troppo spesso si riceve soltanto aiuti standardizzati e volti solamente a salvare le situazioni emergenziali: devi fare una visita medica? ok, hai il trasporto. Vuoi frequentare un corso di formazione? lo stesso trasporto non lo ottieni.

Insomma, un handicap non è certo una benedizione, né per chi ce l'ha, né per coloro che con un disabile convivono ogni giorno: infatti i problemi aumentano e le situazioni si ingarbugliano col passare degli anni. Pur se non esiste la formula magica valida in ogni circostanza, una considerazione generale è quella di inglobare il disabile nella famiglia non soltanto a livello affettivo, ma anche (e soprattutto?) essendo pronti a buttarsi nella mischia e dar seguito, ogni membro in prima persona, alle esigenze di un figlio/fratello/nipote "speciale"

 

Ultima modifica il Giovedì, 25 Gennaio 2018 09:43
Elena Papucci

Nata a Firenze il 17 novembre 1983 ha quasi sempre vissuto a Lastra a Signa (dopo una breve parentesi sandonninese). Ha studiato Lingue e Letterature Straniere presso l'Università di Firenze. Attualmente, da circa 5 anni, lavora presso il comitato regionale dell'Arci.

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