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Venerdì, 23 Marzo 2018 00:00

Dalla violazione della privacy alla manipolazione del pubblico – appunti sul caso Cambridge Analytica

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Dalla violazione della privacy alla manipolazione del pubblico – appunti sul caso Cambridge Analytica

Generazioni di bambini hanno imparato dai cartoni animati a non lasciar entrare in casa il primo estraneo che si presenta alla porta: sotto le sembianze di improbabili tecnici della società elettrica potrebbero nascondersi scagnozzi intenzionati a rapire tutti i cuccioli di dalmata.

Allo stesso modo, l’esca da film di fantascienza di bassa lega «lavora per noi e avrai tutti i fondi e la libertà di ricerca che vuoi» sembra troppo poco dissimulata perché qualcuno abbocchi nella vita reale; eppure sembra essere stato così che Christopher Wylie, colui che ha elaborato le tecniche di analisi alla base di Cambridge Analytica, da attivista per il partito liberal democratico britannico ha finito per ritrovarsi mente di una delle più controverse armi della propaganda repubblicana negli USA.

Ripercorrendo la storia dell’azienda (e dell’idea) attraverso il suo resoconto, incontriamo gli studi psicometrici (basati cioè sulla misurazione dei tratti psicologici – la loro traduzione in quantità numeriche e la successiva analisi con strumenti matematici) di Kosinski e Stillwell, psicologi dell’Università di Cambridge. Con il consenso degli utenti, essi hanno ricavato da milioni di profili Facebook informazioni sui loro “mi piace” e le hanno messe in relazione con i risultati di “test della personalità” proposti agli stessi utenti, ottenendo un’imponente massa di dati che correlavano personalità e interessi su internet di milioni di persone.

Ricerche basate su questi dati si sono concentrate sulla possibilità di inferire caratteristiche personali di una persona, tra cui le sue visioni politiche, a partire dalla sua attività in rete1, inevitabilmente attirando l’attenzione del mondo del marketing, ma anche della politica e delle agenzie di intelligence. Utilizzare questi dati per indirizzare agli utenti pubblicità mirate e personalizzate, magari anche propaganda elettorale, è stato quindi il passo successivo; attorno a questa idea è nata Cambridge Analytica, società di consulenza politica fondata da Steve Bannon, allora a capo del sito d’informazione “alt-right” Breitbart e successivamente stratega della campagna elettorale di Trump, e da Robert Mercer, finanziatore chiave dell’azienda oltre che del Partito Repubblicano.

Per quanto queste informazioni siano di un certo interesse statistico (cercare persone con caratteristica Y tra le persone con caratteristica X), è qui abbastanza pacifico obiettare che l’esistenza di una correlazione, per quanto stretta, non implica di per sé l’esistenza di una causazione: le informazioni correlate possono non avere alcun rapporto l’una con l’altra. In altre parole, potrebbe non essere il metodo migliore per capire come si formino le opinioni dell’elettorato – a meno di non assumere che queste dipendano dalla personalità, una teoria più diffusa di quanto si immagini.

Ad ogni modo, c’è chi ritiene dati di questo tipo abbastanza interessanti da pagarli a peso d’oro; e Cambridge Analytica è pronta a venderli. Il caso che sta esplodendo in questi giorni riguarda dati illecitamente ricavati da oltre 50 milioni di profili Facebook (il ruolo del social network nella vicenda è da chiarire, ma si sta facendo strada la convinzione che esso non abbia tutelato la privacy dei suoi utenti quanto avrebbe dovuto) ed utilizzati per indirizzare agli utenti propaganda elettorale repubblicana, tanto più “convincente” quanto più “personalizzata”, per le elezioni presidenziali USA del 2016; ombre di questo tipo si allungano anche sul voto della Brexit e sulle ultime elezioni in Kenya – per dare un’idea della quantità e della varietà di eventi interessati dalle strategie propagandistiche dell’azienda.

La striscia First Dog on the Moon ha così esemplificato la strategia: le persone che amano i coniglietti ed hanno paura dei treni sarebbero bersagliate con messaggi tipo “Hillary Clinton ha spinto una famiglia di adorabili coniglietti sotto un treno in corsa?”. Il livello delle correlazioni reali non si discosta significativamente da quello ricostruito ironicamente nella vignetta; e lo stesso vale per l‘assurdità dei messaggi propagandistici. Ma è davvero possibile manipolare l’elettorato con campagne “mirate” di questo tipo?

No. È stato variamente osservato2,3 che l’ideologia politica è vissuta dall’individuo come componente fondante e necessaria della propria identità, organica ad una compatta stratificazione di convinzioni e significati, difficilmente scalfibile, attraverso la quale interpretiamo la nostra esperienza della realtà. Si può al massimo supporre che queste strategie abbiano l’effetto di spingere alle urne persone che sarebbero state più inclini ad astenersi, raggiunte e persuase da messaggi propagandistici consonanti con la loro visione del mondo. Recenti studi suggeriscono addirittura che l’effetto delle campagne elettorali in generale sia nullo4.

Intromissioni del genere sono state ventilate anche sulle ultime elezioni politiche italiane, come se messaggi propagandistici (o notizie confezionate ad arte) diffusi selettivamente sui social network fossero una novità o potessero avere una potenza maggiore della pubblicità con cui siamo bombardati quotidianamente, dei siti che lucrano inventando o distorcendo notizie per cavalcare il razzismo o anche solo generici complottismi (Butac tiene una lista nera aggiornata), della purtroppo non rara sciatteria di testate giornalistiche autorevoli. Gli elettori, in quanto persone, tendono in ogni caso a informarsi da fonti consonanti con le loro opinioni e ad avere contatti prevalentemente con persone e realtà con cui vanno d’accordo, sulla politica e non solo.

Del resto, è inaccettabile presumere che l’elettorato, o anche solo parte di esso, sia completamente passivo e quindi automaticamente eterodiretto dai messaggi che riceve. Senza assolutamente sminuire la gravità di tentativi di ingerenza in elezioni e referendum nazionali, è impensabile denunciarla sottintendendo che gli elettori siano così manipolabili, poiché significherebbe negare i fondamenti della democrazia – le elezioni stesse non avrebbero significato.

Inquietante è anche l’insistenza sul concetto di fake news come se una notizia fosse di per sé connotata politicamente, quindi una notizia “vera” fosse un argomento a favore di un’ideologia. Pur riconoscendo il punto di vista da cui sono riportate, le notizie non hanno per loro natura una connotazione politica; essa è invece data dal loro inserimento in cornici di significato, anche politico, da parte del pubblico. È indubbio che notizie “false” siano confezionate su misura per calzare alla perfezione certe cornici di significato, persuadendo il loro pubblico della giustezza di una certa proposta politica, nei confronti della quale quel pubblico è già ben disposto; ma questa pratica non fa che alimentare l’idea di una connotazione originaria delle notizie, trasformandosi in una profezia che si autoavvera.

Sono le opinioni del pubblico a determinare (o avallare), per un fatto, letture “di parte” con l’eventuale conseguente consenso per specifiche proposte politiche. Anche le bufale più perverse (quelle di ambito medico, a parere di chi scrive) non suggestionano menti passive ed ignoranti, come semplicisticamente qualcuno immagina, bensì si rivolgono ad una cultura a loro consonante, si innestano in una narrazione della quale il loro pubblico è attivamente partecipe. Lungi dal ridimensionare la pericolosità delle bufale, è fondamentale (ri)conoscerne il meccanismo se si intende combatterle.

Al netto del prevedibile rancore nei confronti dell’esecutivo uscente, a vincere le elezioni del 4 marzo è stata semplicemente la cultura che ha fatto egemonia, non sufficientemente avversata dalla sinistra (come magistralmente illustrato in questa vignetta di Odde Comics) – quando non alimentata da chi ha cercato di inseguire il consenso a destra, di fatto rafforzando gli argomenti delle destre, salvo poi alla vigilia del voto stracciarsi le vesti sull’ascesa dei neofascismi. Sarebbe forse il caso di affrontare il fatto che le elezioni non sono decise da singole regalie o singole promesse, né da specifiche ondate di fake news o pubblicità personalizzate; i loro risultati rispecchiano un profondo e sistematico radicamento culturale, maturato in lustri e coltivato con un forte dispiegamento di mezzi.

Un sistema che crede di poter usare dati come quelli di Cambridge Analytica per influire sui risultati elettorali finisce per prendere in giro se stesso, perciò da questo punto di vista la vicenda sarebbe anche divertente – non fosse per la massiva violazione della privacy e il sospetto strisciante che agenzie che dovrebbero proteggerci, come quelle di intelligence, sopravvalutino la significatività di certe correlazioni e, basandosi su queste, compromettano la propria efficienza.

La nostra attività su internet è costantemente rilevata da una selva di tracciatori (questa piattaforma dell’EDAA permette di rilevarli e bloccarli, nella misura in cui il consenso dell’utente si può esprimere solo come esplicito diniego) per conto di agenzie che ci profilano e vendono i dati, principalmente a società di marketing che ci propongono così pubblicità “personalizzate”; colossi della rete da Google ai social network, che nell’offrirci gratuitamente i loro servizi si pongono come difensori della nostra privacy, hanno i propri tracciatori e prendono parte a questo commercio nel quale i dati sono la preziosissima merce. Usare un social network piuttosto che un altro, riducendo il problema al solo Facebook come sembra suggerire la campagna #DeleteFacebook (che circola a sua volta su social network), è un placebo e non una soluzione.

Da una parte la tendenziale inadeguatezza delle normative, apparentemente incapaci di tenere il passo con l’evoluzione del mondo della rete o anche solo di coglierne le differenze rispetto al mondo fisico, lasciando sterminate terre di nessuno di ambiguità e vuoti normativi; dall’altra l’analfabetismo digitale di troppi utenti (contrariamente a quanto si crede, non tanto “i più piccoli”, in realtà nativi digitali, quanto piuttosto le generazioni meno giovani5, che risultano anche le più esposte alle bufale) privi delle competenze e della consapevolezza necessarie a muoversi su internet5,6: la miniera di informazioni dei nostri dati è a disposizione dello sfruttamento economico, quasi completamente fuori dal nostro controllo.

Internet evolve in fretta ed è urgente una presa di coscienza della sua realtà, del fatto che non è una bolla avulsa dalle nostre vite, chiusa fuori quando spegniamo il computer o il telefono, bensì ne fa integralmente parte e non può più essere sottovalutata. Internet è compenetrata nelle nostre vite reali, i nostri dati su internet sono dati sulle nostre vite; chi può trarne profitto lo sa bene e come utenti non possiamo rimanere indietro. Gli strumenti per farne un uso critico non possono essere appannaggio solo delle classi più istruite; iniziative di alfabetizzazione digitale rivolta a tutti, anche per imparare a tutelare la propria privacy, come la Electronic Frontier Foundation, sono uno progetti preziosi di cui avvalersi e da diffondere.

È necessario un certo sforzo di immaginazione per collegare le foto dei nostri animali domestici che condividiamo sui social network ad una manipolazione dei nostri consumi e, secondo alcuni, delle nostre preferenze politiche; perciò possiamo avere difficoltà a farci un’idea del valore dei nostri dati e della loro riservatezza. Il valore dato loro dai colossi della profilazione e della pubblicità, tuttavia, dovrebbe far scattare i nostri allarmi; poiché tra permettere l’accesso ai dati sulla nostra attività in rete e aprire la porta di casa a malintenzionati rapitori di cuccioli non c’è poi tanta differenza.

 


1 KOSINSKI M., STILLWELL D., GRAEPEL T. (2013) Private traits and attributes are predictable from digital records of human behavior. Proceedings of the National Academy of Sciences

2 JOST J., FEDERICO C., NAPIER J. (2009) Political Ideology: Its Structure, Functions, and Elective Affinities. Annual Review of Psychology

3 https://news.stanford.edu/2017/08/31/political-party-identities-stronger-race-religion/

4 KALLA, J., BROOCKMAN, D. (2018) The Minimal Persuasive Effects of Campaign Contact in General Elections: Evidence from 49 Field Experiments. American Political Science Review

5 http://appsso.eurostat.ec.europa.eu/nui/show.do?dataset=isoc_sk_dskl_i&lang=en

6 https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/competenze-digitali/oltre-i-non-utenti-luso-povero-della-rete-e-come-superarlo/

 

Immagine ripresa liberamente da kicreativestudio.blogspot.it

Ultima modifica il Venerdì, 23 Marzo 2018 10:09
Silvia D'Amato Avanzi

Studia scienze naturali all'Università di Pisa, dove ha militato nel sindacato studentesco e nel Partito della Rifondazione Comunista. Oltre che con la politica, sottrae tempo allo studio leggendo, scribacchiando, scarabocchiando, pasticciando, fotografando insetti, mangiando e bevendo.

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