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Venerdì, 27 Settembre 2013 00:00

Tra sinistra, lavoro ed immigrazione. A confronto col sindacalista Bill Fletcher.

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La domanda con la quale Mercedes Frias ha aperto l'incontro con Bill Fletcher organizzato dall'associazione Prendiamo la parola lo scorso 21 settembre al Circolo Le Torri a Firenze non poteva fornire un migliore spunto: è possibile pensare, nell'Italia di oggi, ad un'alleanza a sinistra che riesca a costituire il filo conduttore per la creazione di un fronte trasversale in difesa (ed organizzazione, aggiungo) tra gli esclusi?

La mia risposta è, senza esitazione, sì. Ma ci aggiungo un “ma”. Credo che a sinistra, parallelamente al discorso sull'unione delle forze, si debba fare un po' di autocritica e riflettere su cosa siamo diventati e cosa vogliamo fare. Se il discorso mi sorge spontaneo, in quanto militante di Rifondazione Comunista, alla luce dell'ultima disfatta elettorale, credo che questo valga anche per coloro che militano in altri partiti: per quanto i risultati di Sel siano diversi da quelli raggiunti dalla lista di Rivoluzione Civile, possiamo notare enormi risultati sia analizzando la cosa in ottica diacronica, dal momento che siamo ben lontani dai risultati storici della sinistra italiana, sia comparando il nostro stato a quello delle forze di sinistra a livello europeo. Alla necessità della riflessione su di noi aggiungo quella, fondamentale, sul fatto che siamo forze di sinistra che non sanno chi è che dovrebbero rappresentare. Tutti ci possiamo ritrovare nella definizione, grossolana, per la quale essere una forza politica di sinistra significa adoperarsi, in modi che dipendono dalle varie sensibilità, perché i più deboli, ovvero coloro che ci si propone di rappresentare, possano usufruire di una trasformazione in senso più equo della società e quindi migliorare le proprie condizioni materiali. Detto questo, come può una forza definirsi di sinistra se non conosce la classe sociale che dovrebbe rappresentare? Credo che stia qui il fulcro del nostro fallimento ad oggi: i lavoratori, vecchi e nuovi, non vedono in noi qualcuno di grado di portare le loro istanze in Parlamento e di cambiare lo stato delle cose. E credo che questo sia dovuto, tra le altre ragioni, al fatto che noi non abbiamo idea di chi siano i lavoratori oggi. La società, a causa della globalizzazione e delle trasformazioni nel mondo del lavoro, viene stravolta e noi dobbiamo capire come.

E' qui che scendono in campo i due temi fondamentali dell'incontro, lavoro ed immigrazione, quelli affrontati anche da Bill Fletcher, sindacalista di Washington e grande conoscitore delle tematiche sociali legate all'immigrazione. L'approccio pragmatico (probabilmente dovuto anche alla sua lunga carriera come “trade union activist”) presentato da Fletcher è quello che ritengo migliore: il sindacalista ha rifuggito esplicitamente ogni approccio moralistico al problema dell'immigrazione, incoraggiando ad uno studio scientifico dei flussi migratori e all'adozione dell'ottica per la quale questo fenomeno è una diretta conseguenza della politica estera degli stati. A questo modo possiamo vedere gli immigrati non come persone semplicemente bisognose di assistenza ma piuttosto come lavoratori costretti a fronteggiare condizioni particolarmente difficili e con davanti a loro dure lotte, lavoratori che devono essere organizzati e che devo conquistare diritti che agli altri sono garantiti. Lo studio delle condizioni e l'organizzazione portano i loro risultati: esempi lampanti ne sono i risultati che piano piano vengono fatti nella lotta al caporalato, fenomeno-piaga attorno al quale si è formata una cupola difficilissima da infrangere, e le rivendicazioni portate avanti dai lavoratori nel campo della logistica che hanno visto lottare fianco a fianco precari senza diritti italiani ed immigrati. E lo stesso ragionamento può essere utilizzato nell'approccio ai “nuovi lavoratori” di oggi: se da una parte il tessuto industriale italiano, costituito da pochi grandi poli e tantissimi piccole e medie imprese continua ad impiegare, crisi permettendo, una parte della popolazione del Paese, siamo tutti a conoscenza della trasformazione che sta travolgendo il mercato del lavoro. Accanto ai lavoratori tradizionali, gli “operai”, si sono formate schiere consistenti di lavoratori precari che si differenziano sulla base di decine di forme contrattuali diverse, restando però legati l'un l'altro dall'impossibilità di elaborare progetti a medio e lungo termine e alle privazioni con cui sono costretti a fare i conti a causa dell'insicurezza trasmessa dalla mancanza di un impiego fisso. E ancora, potremmo parlare di coloro che formano la categoria dei lavoratori autonomi, veri o finti che siano: lavoratori che al momento non possono usufruire di diritti di maternità e malattia a causa dell'insufficienza del sistema di welfare italiano.

Sono tutti questi i lavoratori che noi, militanti e dirigenti della forza politiche e sindacali italiane, dovremmo conoscere, rappresentare ed organizzare. Così facendo potremmo contribuire a delineare una definizione di quella che dovrebbe essere la nostra classe di riferimento: una definizione che prevede l'elaborazione di lotte per l'ottenimento di condizioni e diritti di base comuni tenendo conto delle dinamiche che trasformano la società. E una definizione che ci permetterebbe di evitare la deriva populista che, in forme diverse, ha investito tutta l'Europa. Se in Italia la Lega Nord è stata ridimensionata dallo scoppio di scandali interni (su cui potremmo aprire una lunga parentesi) e il Movimento Cinque Stelle non scivola così apertamente e velocemente verso destra, è bene ricordare che nel resto del continente le cose vanno diversamente: la destra populista sfrutta la crisi che stiamo vivendo, una crisi che non è solo economica ma anche, come spiegava giustamente Bill Fletcher, ambientale, sociale e che è legata alla legittimità dell'organizzazione statale, per dare una nuova identità alle persone. Un'identità che, seguendo le dichiarazione ed il programma di Viktor Orban in Ungheria ed il consenso che pare ottenere Marine le Pen in Francia, riusciamo facilmente a distinguere come improntata all'individuazione di un “altro” più debole da incolpare per le difficoltà che incontriamo quotidianamente. A questa identità modellata sulla paura e sulla discriminazione noi dobbiamo opporre la nostra, disegnata a misura di persone che lavorano per vivere e per realizzarsi e non che vivono esclusivamente per lavorare (per giunta malpagati), di persone che sono portatrici di diritti a prescindere dall'origine e dalla classe sociale di appartenenza. Un'identità che faccia di queste persone, che siano italiani o immigrati, lavoratori tradizionali, precari o autonomi, una forza coordinata che riconosce nel sistema capitalista e nelle sue degenerazioni e conseguenze l'origine delle proprie difficoltà.

Immagine tratta da: www.kenanmalik.wordpress.com

Ultima modifica il Giovedì, 26 Settembre 2013 17:28
Diletta Gasparo

"E ci spezziamo ancora le ossa per amore
un amore disperato per tutta questa farsa
insieme nel paese che sembra una scarpa"

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