Venerdì, 14 Dicembre 2012 00:00

Salva-Ilva e Ammazza-Procura

Vedendo in questi giorni i litigi interni al Pdl si può pensare di vedere il massimo della comicità (e forse è vero), però c’è un’altra faccenda che attualmente sta rasentando il ridicolo: l’Ilva. Mentre siamo in attesa della decisione della Procura sul ricorso alla Consulta per conflitto di attribuzione, mi viene da fare un paio di riflessioni sul famoso decreto che ha “salvato” lo stabilimento. Esso presenta, a mio avviso, due problemi.

Il primo riguarda l’ennesima e stancante delegittimazione della magistratura. C’eravamo abituati a vederla nel nome dell’illegalità berlusconiana, adesso la vediamo nella veste montiana di necessità ed urgenza per far fronte alla grave crisi economica; sempre la stessa cosa rimane. Il conflitto di attribuzione è evidente, a tal punto che rasenta l’incredibile con l’art.1 comma 4, il quale dispone la possibilità di riprendere la produzione nello stabilimento, anche se esso si trova sotto sequestro da parte della Procura. Il tutto ha fatto sì, inoltre, che tutta la produzione post-sequestro e ante-decreto dello stabilimento (circa quattro mesi di produzione) sia stata dichiarata illegale. Per risolvere questa comica situazione il governo ha deciso di preparare un emendamento che affidi anche il prodotto illecito all’azienda, sottraendolo alle temibili toghe. Interessante che il Ministro Clini abbia più volte dichiarato di come la Procura si debba semplicemente attenere alla legge senza fare altro, correndo subito dopo ai ripari, con questo emendamento, per un errore di certo non imputabile alla magistratura. Ci sarebbe poi da dire qualcosa sulla dichiarazione in sé, cioè su come un ministro possa valutare la legittimità di un ricorso alla Corte Costituzionale per conflitto d’attribuzione o la conformità alla Costituzione di una legge che egli stesso ha prodotto, ma andremmo fuori tema.

Pubblicato in Società
Giovedì, 13 Dicembre 2012 00:00

Caos climatico arma di distruzione di massa

L'articolo sarà pubblicato anche sulla rivista cartacea Amerindia, che ringraziamo, insieme ovviamente all'autrice

Aprireste una banca del sangue nel castello di Dracula? In un certo senso è stato fatto. L’ultima e diciottesima Cop (conferenza delle parti) dell’Onu sulla crisi climatica - ormai una questione di vita o di morte – si è svolta a Doha, capitale del Qatar, un Creso climalterante. L’Onu avrebbe piuttosto dovuto riunire i governi in una delle tante aree che già subiscono gli effetti della guerra climatica: fra la sabbia del deserto che avanza in Sahel, ai piedi dei ghiacciai che si sciolgono sulle Ande, ai bordi delle pianure inondate in Bangladesh, fra le zolle delle campagne in carestia, arse da ripetute siccità, o sott’acqua nell’oceano dove tante isole-stato si inabisseranno per via dell’innalzamento del livello dei mari. L’emirato qatariota non aveva il physique du role per presiedere la Cop 18. E’ infatti la massima espressione delle minoranze privilegiate mondiali, paesi e ceti sociali del Nord globale, che dovremmo chiamare grandi debitori del clima. Così infatti li definiscono i paesi “creditori”: dell’Unione africana, dell’Aosis (le piccole isole- stato del Pacifico), e dell’Alleanza bolivariana Alba, con in testa la Bolivia; i più attivi nella denuncia di un capitalismo che ha sconvolto anche il bene comune più globale di tutti.

Responsabili molto irresponsabili contro vittime non responsabili. Belligeranti contro bombardati

Il Qatar, emirato islamista, è il primo paese al mondo per emissioni pro capite di gas serra: 54 tonnellate all’anno. Il Niger, all’ultimo posto, è a circa 300 kg annui. Questa è la faccia dell’ingiustizia climatica, parallela al gap sociale ed economico. Il peso piombo dell’emirato dipende sia dai pletorici consumi interni sia dalle enormi esportazioni di gas naturale, la grande pepita dell’emiro al-Thani (“il gas darà al mondo 300 anni di sicurezza energetica”: e di caos climatico?). Il Qatar è anche il più ricco paese del pianeta: i 250mila sudditi si godono un reddito pro-capite medio di 400mila dollari l'anno (e son serviti da un milione e mezzo di lavoratori stranieri dal Sud globale). E come usa il Qatar i grassi proventi del gas? Non certo a scopi sociali e redistributivi. Ma nel lusso, nella crescita pletorica e in spese militari.

Pubblicato in Internazionale

“Un bel dì vedremo, levarsi un fil di fumo”. Le celebri parole della Madama Butterfly ben potrebbero descrivere l'ansia che da mesi gli abitanti di Castelfranco vivono sul loro territorio. Il fumo però, in questo caso, è profeta di sventura più che di speranza, almeno per buona parte dei castelfranchesi. A preoccupare è il nuovo contestatissimo inceneritore che la ditta Waste Recycling (gruppo NSE Industry) da ben due anni tenta di aprire nel comune fra mille difficoltà, non ultima la netta contrarietà di buona parte della popolazione, protagonista di clamorose manifestazioni di piazza, serrata da tempo intorno a tre ricorsi al Tar promossi rispettivamente dall'Amministrazione Comunale, dal locale Comitato Antinquinamento e da Rifondazione Comunista; vertenza giunta lo scorso 20 novembre all'ultima udienza prima della sentenza, attesa entro la metà di gennaio. Centro delle ultime preoccupazioni dei residenti, venerdì 30 novembre, è stata la mattutina comparsa di una colonna di fumo bianco levatasi dal camino dell'impianto, il quale com'è noto è attualmente bloccato dall'ultima ordinanza del Consiglio di Stato. Dopo la primissima sentenza del Tar nel febbraio 2012, in cui i giudici davano ragione ai ricorrenti che chiedevano il blocco dei lavori di costruzione in attesa della fine del processo, il cantiere è stato fatto riprendere dal Consiglio a maggio, con una conferma però della prima sentenza in merito all'attività d'incenerimento: finite pure i lavori se vi va, e a vostro rischio – hanno detto, in soldoni, i giudici ai dirigenti della NSE – ma non potrete accenderlo fino alla decisione ultima. Queste, nello specifico, furono le parole del Consiglio di Stato:

Il Consiglio di Stato […] accoglie in parte l'appello cautelare (i ricorsi, n.d.a.) […] nella sola parte relativa all'attivazione dell'impianto di cui si tratta, escludendo l'effetto inibitorio del completamento della struttura (il blocco dei lavori, n.d.a.)

Pubblicato in Toscana
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