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Martedì, 23 Settembre 2014 00:00

La memoria per un futuro migliore

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“Le testimonianze dei nostri padri che hanno fatto la storia, ci vengono in aiuto e ci dissetano,
ci arricchiscono di valori; sono uno scrigno prezioso senza il quale, poveri noi, tempo tre generazioni di oblio, perderemmo memoria.
Oggi come mai sento la necessità di coinvolgere lo spirito, di nutrirlo,
è una necessità che nasce dalla percezione di una attualità sempre più povera di valori umani […]
sarà che a un certo punto nasce la consapevolezza che ognuno debba contribuire con le proprie peculiarità […] penso che ognuno debba dare qualcosa di sé, qualcosa che sa fare, che siano parole,
suoni, forme, non importa.
Il colore può divenire quindi anche veicolo efficace e trascinatore di contenuti nella sfera delle emozioni
opponendosi al pericolo dell’indifferenza”
da Frammenti di Tiziana Faccendi

Una mostra intensa, struggente, commovente, gravida di memoria storica, quella che è stata inaugurata lo scorso sabato 13 settembre a Signa, all’interno dell’ex Caserma dei carabinieri di Viale Mazzini, in occasione del 70esimo anniversario della Liberazione. La mostra, intitolata “In marcia... La memoria per un futuro migliore” ripercorre momenti significativi dei signesi durante la seconda guerra mondiale e offre un repertorio di fotografie, lettere, frammenti di giornali dell’epoca, riconoscimenti d’onore, cimeli, reperiti dall’archivio storico del gruppo Archeologico di Signa o gentilmente forniti dalle famiglie di alcuni dei partigiani e da donazioni di comitati e associazioni e curati grazie al minuzioso lavoro dello stesso gruppo archeologico.

La mostra si apre con una didascalia che rievoca un primo pezzo di storia: il 7 dicembre del 1920 la Squadra del Fascio di Combattimento fiorentino attacca le case della campagna signese, sui tetti delle quali sventolavano bandiere bianche, simbolo dell’occupazione da parte dei contadini cattolici. Durante la serata i fascisti rientrarono innalzando come trofeo le bandiere strappate dalle cascine. Era solo la prima delle molte incursioni che i fasci fiorentini compirono nelle Signe. Il fascio di Combattimento fiorentino fu fondato nel 1921 da Pirro Nenciolini, fortemente attivo nell’organizzazione del Partito Nazionale Fascista, e che nel 1923 venne ucciso in seguito ai dissidi interni allo stesso partito fascista. Non mancarono gli scontri con gli antifascisti, ma il più duro avvenne nei primi anni ’20. Con la nomina di commissario straordinario di Carlo Sestini, nel febbraio del ’23, la fascistizzazione della zona di Signa fu portata a compimento. Sestini infatti riuscì a far conquistare al Partito Nazionale Fascista l’amministrazione comunale del paese e inoltre favorì la nascita di un nucleo di sindacati fascisti per i quali si occupò di far costruire una sede adeguata presso la confinante frazione di Ponte a Signa, requisendo i materiali necessari dalle ditte di laterzi nelle zone. Sempre nel ’23, poi, esautorati i consiglieri dei loro poteri e sostituiti con un consiglio di sua fiducia si impossessò della cooperativa di consumo La pace di Porto di Mezzo, gettando nella disperazione i soci in difficoltà (info tratte dalla stessa didascalia esposta nella mostra)

Forti le immagini che ritraggono lo stesso Podestà Sestini, altero e rigido, o le immagini delle adunate fasciste nella piazza Ernesto Rossi, o le foto dei piccoli Balilla, tutti vestiti uguali, conficcati nella loro divisa, o le foto dei gruppi di gioventù italiana del littorio immortalati nell’anno 1940. Compaiono anche immagini del 1926, che ritraggono il gonfalone del Comune di Signa sventolato gloriosamente dai fascisti durante l’anniversario della Marcia su Roma.
La mostra prosegue con un altro frammento di storia signese che ricorda un episodio accaduto l’11 giugno del 1944 quando si compie l’attentato al (ex) dinamitificio Nobel: il paese di Poggio alla Malva ed i suoi dintorni vennero scossi da un fortissimo boato, una cipresseria fu distrutta, così come molte case furono terribilmente danneggiate. Queste furono le conseguenze di una grossissima esplosione verificatasi in località Covaccia, causata da un’azione di sabotaggio organizzata da una squadra di Azione Patriottica composta da giovani partigiani che operavano sul Montalbano. Guidati da Bogardo Buricchi, una delle personalità di maggior spessore del pratese, durante la notte fecero saltare in aria otto vagoni merci fermi s un binario morto della stazione di Carmignano. L’obiettivo dell’attentato, durante il quale, oltre allo stesso Bogardo e suo fratello, persero la vita Alighiero, Aliodante Naldi e Bruno Spinelli, era il contenuto dei vagoni carichi di tonnellate di tritolo prodotto dalla fabbrica di esplosivi che la società Nobel aveva impiantato a Signa trent’anni prima in quell’area che, costeggiata dalla ferrovia e coperta da un folto bosco, era posta al confine con il territorio di Carmignano. Grazie alla sua posizione strategica lo stabilimento aveva rivestito un ruolo fondamentale per l’esercito italiano durante i due conflitti mondiali, e anche quando fu occupato dalle truppe naziste nel ’44 era in piena attività. L’attentato provocò di fatto solo lievi danni alla struttura ma la voragine che squarciò il terreno così profonda da arrivare fino al livello dell’Arno, frantumò la ferrovia di Carmignano privando in tal modo le truppe tedesche di un’essenziale fonte di approvvigionamento di esplosivi. Dopo l’esplosione la produzione cessò definitivamente minando le potenzialità distruttive dell’esercito tedesco (Info tratte dalla didascalia esposta alla mostra).

Quelle che seguono sono foto che ritraggono quel che resta di quella zona, una fabbrica abbonda nata, desolata, circondata da una boscaglia squallida ma carica di memoria, memoria dolorosa, tinta del sangue sparso di quei giovani coraggiosi e che versa le loro lacrime e quelle di coloro che li piangono ancora. E gli occhi un po’si umidificano e il cuore si stringe al cospetto delle poesie scritte da Bogardo Buricchi, fornite dal Centro di Documentazione del Comitato 11/06/1944 di Poggio alla Malva e di cui qui, potremo riportarne solo alcune. Una di queste, intitolata “La madre”, è scritta come se Bogardo si mettesse nei panni della mamma: “... Non piango figliolo / benché il cuore sussulti. Vivere solo d’azzurro di sole/ io che sposo ebbi, e figliolo, un eroe”. Un’altra molto bella, si intitola “Uomo”: “Uomini ci sentiamo, di giorno in giorno cresciamo / come le viti d’aprile / e il volto tenero ancora pare quello di un bimbo. / Con la morte a due passi / si ha tanta voglia di vivere / che non si crede nemmeno. / Domani quando torneremo / non mostreremo le medaglie / come quelli che l’hanno comprate / ma sulla fida bicicletta / di nuovo veloci voliamo.” È proprio questo che si avverte nei volti giovani che sporgono dalle vecchie fotografie: nei loro sgurdi trepidanti, accesi, profondi si legge un’ansia di vivere irrequieta, la fame di chi vuole lottare e nellos stesso tempo mordere quasi con avidità ogni occasione che quella vita, per quanto difficile, dura, tremenda, dolorosa, feroce, offriva e in questa lotta, in questa urgenza quasi erotica di esistere persino la morte assomiglia al volo sopra una bicicletta, senza lustrini o medaglie, ma solo il sentirsi correre insieme al vento, per aver amato forse troppo la libertà, la propria terra, la giustizia, la vita, la vita come avrebbero desiderato fosse e per cui avrebbero combattuto, fino a morirne. L’aspetto più struggente della mostra sono proprio le lettere che i giovani partigiani scrivevano, alla famiglia, agli amici, alle fidanzate. Bellissimo e intenso lo scambio di lettere di amore delicato, pudico, timidamente pacato tra i due giovani Fausto Sellari e Lida Bercigli, durante il loro periodo di lontananza, di dolorosa distanza nel 1942, quando Fausto si trovava in Libia. “Mi sono tanto care” scrive Lida all’amato, “le vostre notizie, che mi avvicinano di più a voi in codesta terra di fuoco e quando il Ghibili soffia impetuoso le sue folate di vento bruciante, vorrei essere vicino, tanto vicino, per dividere insieme a voi i disagi e le sofferenze. […] Qui, in questo istante, in queste brevi ma sincere parole, voglio ripetere, con più dolcezza e confidenza… Fausto, ti voglio bene – tanto bene. Gradisci i miei più affettuosi saluti, Lida”. L’amore è più forte di tutta quella sofferenza, di quell’abissale distanza senza la promessa certa di potersi rivedere, di potersi riabbracciare. In quella distanza in cui si sopravvive e si riesce a sorridere grazie a una foto della persona amata (Lida e Fausto si scambiavano le rispettive fotografie ) o alla lettura di parole dolci come queste, che quasi riescono ad avere lo stesso effetto di mille carezze o di pudici baci. Il 21 giugno del 1942, Fausto invia a Lida le informazioni che ha richiesto su Radio Tripoli e le manda alcuni ritagli di giornale con la programmazione della stazione radiofonica, raccomandandole di ascoltare la trasmissione il giorno di S.Pietro: ha richiesto una romanza della Bohème, opera che entrambi amavano tanto, così che riascoltandola insieme nello stesso momento, sarebbe stato come se quella musica annullasse la lontananza e potesse tessere un filo che li avrebbe stretti e uniti, come se il battere dei due cuori all’unisono nell’ascolto della stessa melodia tanto cara a entrambi avrebbe potuto farli sentire vicini fin quasi a sentirsi, fin quasi a toccarsi, fin quasi a riallacciare in un unico nodo quelle due anime così distanti. Purtroppo Lida non riuscirà a sintonizzarsi sulla radio e ne sarà molto dispiaciuta, ma fortunatamente la loro storia d’amore avrà un lieto fine: infatti i due giovani, una volta ricongiuntisi si sposeranno e lavoreranno fianco a fianco un una fabbrica di ceramiche. E nelle foto che li ritraggono da sposi i loro volti sono raggianti, gli occhi ridenti, come se tutta la sofferenza passata ormai fosse scomparsa in quel giorno di festa, in quell’arabesco di mani che finalmente si riannodano l’una all’altra e si stringono per non staccarsi più, e nonostante la loro estrema magrezza rifulgono belli e luminosi come a ripeterci, ancora una volta che la morte, l’odio, la crudeltà umana non possono nulla contro l’amore.

Non per tutti gli altri partigiani finirà felicemente e commuovono le loro lettere a mamme, padri, fratelli, in cui cercano di rassicurare questi ultimi, come quella di Tito Bertini, prigioniero degli inglesi, alla madre, o quella di Aldo Bologni in cui cerca di rassicurare i genitori, assicurandogli di stare bene, o la commovente lettera di Liliana, madrina di guerra, che scrive ad Aliviero Fossi, altro partigiano, per comunicargli della morte dei suoi fratelli, uccisi dai tedeschi in quanto ebrei; o la lettera dello stesso Aliviero al padre, in cui sfoga i suoi dubbi sulla dilaniante scelta tra l’andare in Germania o entrar nella milizia, che risale all’anno 1943. Lettere che fanno venire i brividi, così come li fanno venire le foto di questi ragazzi, la loro scrittura sbilenca, i loro errori grammaticali, l’affetto infinito verso i cari, la forza e il coraggio estremi che traspaiono anche da una sola riga di una di quelle lettere, così che anche a noi spettatori sembra un po’ di rivivere la loro storia, di entrare nei loro mondi, di camminare insieme al loro “con l’anima in spalle”, con la morte a due passi, come direbbe Bogardo, ma la fronte alta e il cuore scoppiettante di vita, di sogni, di passioni umane, quei sogni spezzati troppo presto da uno sparo di fucile, forse, ma quei sogni che hanno salvato la vita di tutti noi. E dalle lettere emerge anche la loro normalità, per noi sono eroi, ed è giusto ricordarli così, ma non dobbiamo dimenticare che erano dei giovani ragazzi con sentimenti, paure, stati d’animo, emozioni come tutti i ragazzi possono avere. Erano uomini ordinari che la storia, la storia del loro coraggio e della loro tenacia ha reso straordinari, ma è la loro umanità e la loro tenerezza che forse colpisce più di tutto leggendo queste timide lettere, queste frasi così lievi, vere, così pure, a volte anche spensierate, queste lettere così fragili e preziose come petali di rosa, che possono spezzarsi da un momento all’altro se non vengono trattate con la delicatezza che esse trasmettono a chi si sofferma a leggerle.

Alle lettere si alternano poi altre foto che ritraggono scene durante le campagne di Libia (1942), Polonia e Bulgaria (1941- ’42), o foto che mostrano macerie, case e strade distrutte, campagne con pecore al pascolo, la ricostruzione del Ponte sul Bisenzio, distrutto nel ’43, della Porta Fiorentina di Lastra a Signa, distrutta anch’essa dai tedeschi, immagini del bombardamento del ponte ferroviario in località Camaioni, nel 1943, o della chiesa di Sant’Anna distrutta dai bombardamenti del ‘44... Ce n’è una in cui sullo sfondo si vede il Ponte Bailey – che fu ricostruito dopo che quello cinquecentesco fu distrutto dai tedeschi nel ’44 – e in primo piano una giovane donna e un bambino che guardano attoniti, forse un po’ perplessi verso l’obiettivo. Molte sono anche le foto, del ‘45 e del ‘46 in cui sfila la processione sul Ponte Bailey per la Beata Giovanna (patrona di Signa), per ringraziarla della fine della guerra, e quello che colpisce non è l’esultanza per la pace tanto agognata, il senso euforico di liberazione ma piuttosto, forse, la spossatezza, il dolore così difficile da spazzar via: i volti che si affastellano nelle foto sono lugubri, cupi, come se ricalcassero il passo lento della processione, come se le loro spalle e i loro sguardi così desolati fossero caricati di tutto il peso degli anni precedenti, tutto il peso del male subito, di tutta quella sofferenza folle, assurda che la fine della guerra, non può comunque far cessare del tutto. E poi ancora, frammenti di giornale (Nazione del Popolo, Il Corriere del Mattino, L’unità..) dell’epoca; foto della prima Orchestra cittadina nata nel 1944, composta da 5 ragazzi – tra cui lo stesso Aliviero Fossi e il fratello Enzo – che si dettero nome “i cinque Ivan” e che spesso suonavano nei circoli del paese e delle zone limitrofe e che sorridono con i loro occhi giovani e belli; Compare poi anche un elenco dei partigiani, perché non sono numeri ma nomi, persone, come Danilo Benelli, Paolo Lenin detto Lino – nella mostra vi è anche il suo Diploma d’onore al Combattente per la Libertà d’Italia” firmato da S. pertini, e il suo non è l’unico diploma a far parte della mostra – i già ricordati Fausto Sellari, Aliviero Fossi, Pietro Berelli, Giuliano Romanelli, Raffaello Ballerini, Giorgio Giorgetti, insigniti di medaglie d’onore, la già nominata madrina di guerra Liliana e insieme a lei altre due donne, e poi tanti altri che come loro hanno contribuito a cambiare il destino del nostro paese.

Vorrei concludere con parole che meglio di me possono rendere il senso di questa bellissima mostra che parla attraverso le voci e i volti dei giovani partigiani, cittadini signesi e dei dintorni o attraverso le immagini delle loro case ferite, dei loro ponti distrutti, delle loro lettere piene di calore. Sono le parole scritte da Tiziana Faccendi – la stessa da cui abbiamo tratto l’incipit – che ricorda così il padre Ubaldo, combattente per la libertà assieme a Manilo Romoli, Claudio Bigagli, Aldemilio Paolloni, Enzo Desideri, Danilo Benelli: “Mi hai ricordato anche il mio babbo combattente per la libertà; quando i suoi ricordi andavano a “quei giorni”, era la calma che caratterizzava il dialogo, perché in quel clima di rispetto si potesse fare memoria e rendere omaggio ai tanti giovani che avevano sacrificato la loro migliore età perché noi ne godessimo i benefici. Ricordo gli occhi lucidi di mio babbo che si arricchivano di rivoli come incisioni indelebili che con calma scendevano per arrivare al mio cuore. Non si vergognava il mio babbo di quelle lacrime e io sono orgogliosa di averle viste, di averle condivise: rendevano memoria all’amico Manilo Romoli.” Anche noi siamo contenti di aver visto, attraverso questi indimenticabili documenti, quelle lacrime di Ubaldo e di tutti gli altri, e in qualche modo,di averle forse, sebbene a distanza, anche un po’ condivise, grazie al ricordo senza tempo e alla traccia indelebile che esse si portano con sé, insieme con la speranza che scavando nel nostro passato, si riesca, un giorno, a rendere migliore il nostro presente e il nostro futuro..se davvero “ognuno contribuisse con quello che sa fare, che siano parole, suoni, colori o forme”.

Ultima modifica il Lunedì, 22 Settembre 2014 22:56
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

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