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Venerdì, 13 Marzo 2015 00:00

Il resistibile fascino del caso Caselli

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Le prime manifestazioni in cui mi chiedevano di andarmene dal corteo perché avevo una bandiera di partito. Gli spintoni e le mani che si alzano durante accese discussioni, l’attacco ad altri che erano in piazza, accusati di essere meno compagni (o falsi compagni). Il presidio che si trasforma in momento di scontro con le forze dell’ordine, le discussioni dopo, le divisioni, le prese di distanza su gesti non concordati, la rabbia di chi non voleva alimentare la tensione in piazza, le offese ricevute perché non condividi alcune modalità. Sono cose da cui molti sono passati, spesso causa di nervosismo e frustrazione. Sul coro che si è alzato a difesa di Caselli, prevale però l’insofferenza verso un muro di ipocrisia dietro cui si nasconde la vita reale. Meglio litigare con compagne e compagni con cui non si concorda, piuttosto che ritrovarsi a sostenere cose slegate dalla realtà, funzionali ad una propaganda istituzionale assordante.

La premessa: chiunque è libero di dire quello che vuole, chiunque è libero di organizzare momenti di contestazione, purché una delle due cose non escluda l’altra (questo vuol dire sia permettere a un’iniziativa di svolgersi, sia essere liberi di contestarla, senza chilometri di zona rossa, od opinabili gestioni dell’ordine pubblico, su cui pare sia vietato aprire discussioni pubbliche).

Le organizzazioni che hanno invitato il noto magistrato Gian Carlo Caselli avevano il diritto di farlo? Certo. Così come altre realtà erano libere di spiegare perché questa scelta fosse infelice, alla luce delle modalità con cui il suddetto si è relazionato con i conflitti sociali, oltre che rispetto alla criminalità organizzata di stampo mafioso, su cui il personaggio era stato chiamato a parlare.

Se si crea un dramma intorno ad un insieme di considerazioni che dovrebbero essere banali, stando all’unanimità del pensiero comune, la colpa è degli "estremisti dei collettivi". Ci sarebbe un gruppo di fascisti che impediscono la libertà di parola, a dare retta alla ricostruzione che viene veicolata.

“Questi studenti, sedicenti scienziati politici dei Collettivi sono ignoranti, idioti e pericolosi, per la democrazia e la libertà degli altri. [...] Mentre a Firenze questi scalmanati si esercitavano in intimidazioni incivili e fasciste, a Torino i loro compari hanno imbrattato una targa intitolata a Paolo Borsellino in una aula dell’Università”. A dirlo una persona che ha ricoperto l’incarico di Procuratore della Repubblica (lo stesso Caselli).

“Un gesto fascista grave e violento. Una tecnica intimidatoria che punta al controllo del territorio e minaccia la libertà” è la dichiarazione di Enrico Rossi, attuale presidente della Regione Toscana, i cui manifesti per la rielezione sono già affissi per le strade di Firenze. A questo si accompagna l’invito di ospitare la ri-organizzazione dell’appuntamento, quasi il suo livello istituzionale svolgesse un ruolo analogo a quello dei Caschi blu dell’Onu.

Molte voci, bianche, rosse, nere, hanno cantato stornelli di solidarietà e condanna. Sul Corriere Fiorentino (l’allegato locale al Corriere della Sera) vengono intervistati i due candidati a rettore per le imminenti elezioni. Entrambi sostengono che si è agito contro “il pensiero fondante dell’Università” (Elisabetta Cerbai), contro i principi di “democrazia, libertà e tolleranza, quindi di ciò che è il pane quotidiano dell’Università” (Luigi Dei).

Nella provincia di Firenze il problema della libertà di espressione si era posto di recente anche con Salvini. Anche lui “fascista”, a cui l’Arci ha fatto bene a non permettere di consumare nei suoi locali (stando anche allo stesso Enrico Rossi), ma che ha potuto usufruire della biblioteca comunale insieme a CasaPound. Diciamo che se per i toscani la bestemmia è un intercalare, a livello politico lo sta diventando anche l’accusa di fascismo. Che dovrebbe essere una cosa seria. Eppure viene citato storicamente anche dal vicesindaco di Firenze, Cristina Giachi, che “ha paragonato l’episodio [di Caselli] a quello del 1925, quando i fascisti impedirono a Gaetano Salvemini di parlare in Ateneo” (citazione dal Corriere Fiorentino).

Eppure a Caselli nessuno ha impedito di venire, nonostante la Repubblica di Firenze titoli “il collettivo caccia Caselli”. Difficile cacciare qualcuno che non si presenta, ma tant’è. Si è trattata di una sua scelta, quella di evitare momenti di tensione ed eventuali scontri (ci mancherebbe solo che si comincino a processare le persone sulla scia di reati ipotizzati ancora da compiere, come in alcune narrazioni fantascientifiche).

Sulla versione locale del Corriere della Sera segue un altro grande tema di illegalità: l’abusivismo di due aule occupate senza legittimità (“un’illegalità tollerata”). La risposta del candidato rettore Luigi Dei, sul fatto che "l’aula dei Collettivi" sia occupata a danno di altre realtà è però onesta: “istanze di questo genere, da parte di chi sarebbe stato privato di questo diritto, in Senato non sono arrivate”.

La superficialità con cui viene tratta la questione è decisamente meno tollerabile di qualsiasi modalità di contestazione che si può non condividere. Perché si creano situazioni di militarizzazione degli atenei? Perché le contestazioni finiscono in scontri violenti? A sentire il sistema di informazione e le istituzioni la colpa è di chi contesta. Facinorosi violenti, pericolosi per la democrazia.

Anche perché quando le manifestazioni si svolgono in modo pacifico, si preferisce non parlarne, così come è accaduto recentemente ai manifestanti del movimento No Expo.

Se poi alle elezioni universitarie partecipa un numero ridicolo di studenti poco conta. Che alla maggioranza assoluta di utenti della pubblica istruzione interessino più i risultati del campionato di calcio, anziché le scelte che li coinvolgono, non importa. L’importante è mettere in scena la criminalizzazione del dissenso, così da poter fare titoli di giornale che scoraggiano la partecipazione e creano inutili tifoserie.

Da una parte un collettivo che sceglie pratiche di contestazione da condividere o contestare a loro volta (ma è difficile mutare i processi laddove non c’è partecipazione). Dall’altra un sistema istituzionale e di informazione che deforma la realtà, fino a renderla surreale.

Nel mezzo la devastazione che sta attraversando l’università pubblica e il vuoto politico riempito dalla rassegnazione generalizzata del paese. Con i giornali che suonano una musica sempre uguale, tesa a fomentare le polemiche che dividono l’eterogeneo mondo della sinistra, che purtroppo non riscontra grandi differenze nelle modalità balcanizzanti che attraversano, in modo diverso, partiti, sindacati, organizzazioni studentesche.

Ultima modifica il Giovedì, 12 Marzo 2015 23:32
Dmitrij Palagi

Nato nel 1988 in Unione Sovietica, subito prima della caduta del Muro. Iscritto a Rifondazione dal 2006, subito prima della sconfitta de "la Sinistra l'Arcobaleno". Laureato in filosofia, un dottorato in corso di Studi Storici, una collaborazione attiva con la storica rivista dei macchinisti "ancora IN MARCIA".

«Vivere in un mondo senza evasione possibile dove non restava che battersi per una evasione impossibile» (Victor Serge)

 

www.orsopalagi.it

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