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Domenica, 16 Dicembre 2012 00:00

Seves, anche lavorare bene non basta

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Se alle Acciaierie Lucchini di Piombino l'altoforno potrà riaccendersi fra un mese, alla Seves di Firenze lo spegnimento del forno fusorio rischia di essere definitivo. Sarebbe la fine della produzione, e del lavoro per 106 fra operai e impiegati. I mattoni in vetro-cemento che escono dalla fabbrica di Castello, cuore produttivo dell'intero gruppo industriale, finirebbero nell'album dei ricordi. Nonostante abbiano ancora mercato, e siano considerati come un prodotto di alta qualità. Tutte queste considerazioni sono state riassunte nel grande volantino “Un'eccellenza fiorentina mandata in rovina, storia di un vetro infranto”, affisso ai cancelli dal presidio-picchetto operaio che ha deciso di fare resistenza nonviolenta. Per impedire ai tecnici di spegnere il forno.

Cosa ha messo in difficoltà la Seves? I vertici dell'azienda si giustificano dicendo ai sindacati che c'è una crisi di liquidità. Talmente forte che, secondo alcune voci, da gennaio l'intero gruppo industriale potrebbe essere dato in pegno alle tre principali banche creditrici. I lavoratori denunciano invece la persistente assenza di un piano industriale, e lo spostamento di grandi quantità di merce dallo stabilimento di Firenze verso un altra fabbrica Seves in Repubblica Ceca.

Bernardo Marasco della Filctem Cgil fiorentina, in presidio insieme agli operai, è convinto di un fatto: “Questo stabilimento può fare qualità industriale. Per questo dobbiamo continuare a lottare”. Mentre il segretario generale della Camera del Lavoro, Mauro Fuso, non dimentica cosa era accaduto appena due anni fa, quando Seves si era trovata come oggi nel pieno di una crisi: “Era stato sottoscritto un accordo che portava ad una riduzione di 50 lavoratori dal ciclo produttivo, assicurando loro gli ammortizzatori sociali, ma permetteva agli altri 107 di continuare il lavoro. Perché quell'azienda ha un futuro, se solo ci fosse un piano industriale adeguato”. Invece si è andati avanti a vista, con una minima diversificazione produttiva – ai mattoni si sono aggiunti oblò per lavatrici e piastrelle – che non poteva bastare.

Di fronte alla richiesta di cassa integrazione per 13 settimane per 97 dei 106 lavoratori Seves, i sindacati hanno risposto: se serve la cassa integrazione siamo disposti a farla. Anche se questo vuol dire 800 euro al mese, pochissimi per i tanti lavoratori che hanno una famiglia. Ma il forno non si può chiudere. “Riaccendere un impianto di questo tipo ha dei costi notevoli – spiega Bernardo Marasco - tenerlo acceso al minimo sarebbe meno rischioso, permetterebbe di risparmiare sul consumo energetico senza pregiudicarne la riaccensione. Così c'è il rischio, reale, che l'attività non riparta. E questo è assurdo, perché Seves fa un prodotto di altissima qualità, nella sua specialità è al top nel mondo. Davvero non possiamo permetterci di perdere tutto questo”. Gli operai non si arrendono: “Quando la settimana scorsa abbiamo manifestato sul Ponte Vecchio, sullo striscione che abbiamo srotolato c'era scritto: 'Sappiamo lavorare, fatecelo fare'. Noi crediamo ancora nelle potenzialità di questa fabbrica”.

I padroni no. “I tecnici venuti a spegnere il forno - racconta a fine giornata Fabio Bernardini della Rsu - hanno forzato con un'auto il nostro presidio, abbiamo corso il rischio di essere investiti. Poi è arrivato in fabbrica anche l'amministratore delegato Piero Canova. Ci ha detto che lo stabilimento verrà fermato e che per ora non ci sono le garanzie per una ripresa produttiva”.   

Ultima modifica il Lunedì, 17 Dicembre 2012 19:27
Riccardo Chiari

Giornalista de il manifesto, responsabile della pagina regionale toscana del quotidiano comunista, purtroppo oggi chiusa. Direttore di numerosi progetti editoriali locali, fra cui Il Becco e La Prospettiva.

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