C'è una via, a Firenze, dove l'asfalto si fonde con la memoria di un passato violento. Migliaia di turisti la lambiscono ogni  giorno, mentre indaffarati nel dare un senso al loro viaggio fagocitano con una fotocamera frammenti di arte rinascimentale, destinata a divenire un mucchio di pixel da mostrare orgogliosi ai parenti. Qualcuno l'attraversa, ma in pochi forse ricordano: incastonata in un triangolo delle meraviglie, tra Ponte Vecchio, gli Uffizi e Piazza della Signoria, si trova via dei Georgofili. Qui, la notte del 27 maggio 1993, Cosa Nostra decise di estendere il metodo stragista adottando una strategia di carattere terroristico-eversivo, in una guerra allo Stato da condurre su tutti i fronti. “Ucciso un giudice, questi viene sostituito; ucciso un poliziotto avviene la stessa cosa, ma distrutta la torre di Pisa si distrugge un bene insostituibile con danni incalcolabili per lo Stato”, queste le parole del presunto trafficante di opere d'arte che suggerì agli esponenti mafiosi l'idea dell'attentato. L'autobomba, che causò cinque morti, quarantotto feriti e la distruzione della Torre dei Pulci, rappresentava la risposta della criminalità organizzata all'inasprimento delle pene previsto dall'articolo 41 bis, il quale comprendeva un regime di carcere duro e l'isolamento. L'esplosione causò anche il parziale danneggiamento di numerosi dipinti, nonché del complesso artistico-monumentale della Galleria degli Uffizi.

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