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Domenica, 15 Settembre 2013 00:00

Stalin e Unione Sovietica (1922-53) - [parte 4/9]

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4. Il PCUS e le tre fasi dell'epoca staliniana

Credo che la sfiducia nella vittoria dell'edificazione del socialismo sia l'errore fondamentale della nuova opposizione. Questo errore è, secondo me, fondamentale, perchè da esso derivano tutti gli altri errori della nuova opposizione. Gli errori della nuova opposizione circa le questioni della Nep, del capitalismo di Stato, della natura della nostra industria socialista, della funzione della cooperazione in regime di dittatura del proletariato, dei metodi di lotta contro i kulak, della funzione e del peso specifico del contadino medio, tutti questi errori derivano dal primo errore fondamentale dell'opposizione, dalla sfiducia nella possibilità di condurre a termine l'edificazione di una società socialista con le sole forze del nostro paese.
(Stalin, dall'opera Questioni del leninismo, lezioni tenute all'Università Sverdlov nell'aprile 1924)

Nella vulgata popolare si parla spesso dell'epoca staliniana come di un periodo estremamente unitario, caratterizzato nel suo complesso dalla barbarie scatenata da un solo colpevole: Stalin. In realtà la questione della detenzione e gestione del potere è molto più complessa di quanto non venga descritta perfino in molti manuali, secondo cui alla morte di Lenin, Stalin avrebbe instaurato il potere esautorando chiunque gli si mettesse di traverso (i più noti: Trockij, Zinov'ev, Kamenev, Bucharin), scegliendo poi in un secondo tempo di eliminarli non solo politicamente ma fisicamente, così da poter soddisfare la propria sete di potere (“di sangue”, secondo alcuni). In realtà è possibile identificare almeno tre fasi che caratterizzano la vita politica interna al PCUS. La prima va dal 1922, anno della malattia di Lenin, che ne segna il progressivo distacco dagli affari politici, fino al 1929. In questo periodo si assiste ad un'aspra lotta politica tutta interna al partito, guidato collegialmente da Stalin, Bucharin, Zinov'ev e Kamenev fino al 1925, dal duo Stalin-Bucharin da questa data al 1929. Nell'intero periodo Stalin riveste il ruolo di “primus inter pares”, ossia di leader identificato dal partito ma strettamente controllato e guidato da quest'ultimo, che non accetta certo passivamente la sua ascesa, ma vi contribuisce piuttosto attivamente, riconoscendosi nel programma politico e nella strategia proposti in contrapposizione a quella di Trockij.

È questo però un periodo di progressiva crisi del partito, dovuta in primo luogo all'incapacità di risolvere dialetticamente in una sintesi i contrasti interni che provocano la nascita di vere e proprie correnti politiche organizzate. Questa era una pratica che rompeva il normale funzionamento del partito, fondato sul centralismo democratico e quindi sul rifiuto di accettare opposizioni interne organizzate e autonome che creassero dissidi e divisioni nei luoghi di potere. La costruzione da parte di Trockij di quella che verrà definita “l'opposizione di sinistra” (attorno alla quale nell'estate del 1926 si stringeranno anche Zinov'ev e Kamenev, contrari nel proseguire la NEP) si fonda sulla necessità di portare avanti la linea della rivoluzione permanente e contrasta aspramente (scrive Carr: “In una tempestosa riunione del Politbjuro Trockij bollò Stalin con l'epiteto di “affossatore della rivoluzione”; e il Comitato Centrale del partito, reagendo alla tensione crescente, espulse Trockij dal Politbjuro”) sia la costruzione dello stato sovietico, sia più in generale il concetto del socialismo nazionale. Fino al 1922 c'erano sempre stati contrasti interni al gruppo dirigente del PCUS ma Lenin era sempre riuscito a ricomporli ed evitare frazionismi pericolosi che ne mettessero a rischio l'unità. Non peraltro senza contrasti e la necessità di assumere misure anche drastiche, come quelle decise dal X° Congresso del PCUS (1921) in cui si approvò una clausola segreta che vietava la costituzione di frazioni. Proprio questa clausola “fu usata nei mesi seguenti anche dai trockisti per reprimere l'Opposizione operaia guidata da Sljapnikov”.

Con il venir meno della sua figura, e l'impossibilità di risolvere il “problema ideologico” non fu più possibile ricomporre queste fratture. La polemica politica scatenata dall'opposizione di sinistra degenerò presto al pericoloso livello delle accuse di tradimento, burocrazia, opportunismo e imperialismo russo. Le stesse accuse che solo pochi anni prima furono rivolte allo stesso Trockij da parte di settori sociali in rivolta e duramente repressi. Una situazione del genere era difficilmente sostenibile sul lungo termine, sia per la continua presenza dello stato d'eccezione (in un periodo in cui soffiavano di nuovo forte possibili venti di guerra per le tensioni internazionali), sia per l'intensificarsi della protesta, che sfociò in quello che da più voci è stato descritto come un tentato golpe con cui nel 1927, durante le celebrazioni del decimo anniversario della rivoluzione, Trockij provò a riottenere il potere politico. Il mancato moto pre-insurrezionale fallì, e trascinò con sé i protagonisti della sua progettazione, che furono tutti espulsi dal partito con l'assenso di Stalin e Bucharin. La coincidenza temporale non è casuale, e stupisce che tale riferimento non venga ricordato quasi mai per spiegare l'evoluzione progressiva di quella che negli anni '30 divenne una vera e propria guerra civile politica. La cacciata dal partito e il successivo esilio di Trockij dall'URSS non misero fine alla sua volontà di ribaltare la situazione e porre fine a quello che nel frattempo si caratterizzava sempre più come il partito di Stalin.

Dal 1929-30 al 1936-37 si assiste infatti al graduale passaggio da quella che secondo diversi storici era la dittatura del partito alla piena autocrazia di Stalin. Come e perchè ciò è avvenuto? Pesa una recrudescenza impetuosa dello stato d'eccezione, accelerato stavolta non solo da condizioni esogene (l'avvento progressivo del nazifascismo in Europa) ma anche da una recrudescenza di quelle endogene: la fine della NEP e l'inizio della collettivizzazione forzata delle campagne rinfocolava la guerra civile nelle campagne e creava parecchi malumori nello stesso partito oltre che tra le leve del potere e dell'esercito. È in questo clima di tensione che aumentano i casi di terrorismo interno, di cospirazione e di quella tattica propagandata dallo stesso Trockij che prende il nome di “doppiezza”: il tentativo cioè di infiltrare propri simpatizzanti tra le leve del potere manifestando solo un'adesione esteriore al potere staliniano. Domenico Losurdo è uno dei pochi autori ad aver messo in rilievo questi aspetti sottolineandone l'importanza nell'accentuazione dello stato d'eccezione, con conseguente tendenza ad un sempre maggiore leaderismo e autoritarismo solitario di Stalin. La sua reazione a quella che si prefigura come una guerra civile-religiosa senza esclusione di colpi è all'insegna dell'estrema durezza. Il motivo principale è che il regime non si può permettere di far perdurare tali disordini interni in vista del conflitto ormai imminente con una Germania sulla via del riarmo.

A dare probabilmente la conferma ultima della necessità di “fare pulizia” è l'omicidio di Kirov del 1934, per mano di un giovane comunista. Attorno a questo evento in molti hanno visto la ricercata macchinazione di un casus belli creata ad arte dallo stesso Stalin. Eppure non sembra esserci nessuna prova concreta che attesti quest'accusa, mentre sarebbero da ricordare le parole con cui commentò il fatto Trockij dal suo esilio: “se apprendessimo che Nikolaev ha colpito consapevolmente nell'intento di vendicare gli operai di cui Kirov calpestava i diritti, le nostre simpatie andrebbero senza riserve al terrorista”. Solo alla luce di questa propaganda favorevole al terrorismo interno è possibile capire la durissima reazione scelta da Stalin: rafforzamento del potere personale, progressivo esautoramento del partito, passaggio dall'emarginazione politica all'eliminazione fisica degli oppositori politici, avvio delle “grandi purghe” con cui nel 1936-37 si intese colpire ogni elemento ritenuto sospetto o poco affidabile in vista della futura guerra. È importante anche sottolineare come fu proprio l'imminenza del prossimo conflitto con la Germania nazista, collegato con lo scoppio della guerra in Spagna, a convincere Stalin della necessità delle grandi purghe: la guerra di Spagna, “oltre a riportare la guerra in Europa, anticipando il prossimo conflitto mondiale, mostrava infatti il pericolo costituito dalla possibile saldatura tra dirigenti ostili, scontenti del regime, che Stalin sapeva essere tanti, e “quinte colonne” di vario tipo”. In questo contesto vanno inquadrati le centinaia di migliaia di fucilati e arrestati, oltre che i processi e le condanne eccellenti di gran parte dei vertici politici e militari.

Nel clima di sospetto finì nel mirino anche la gran parte dei vertici militari, con particolare riferimento al generale dell'Armata Rossa Tuchacevskij, accusato (con prove non definitive ma neanche con sospetti immotivati) di progettare un tentato colpo di stato in combutta con la potenza tedesca. Il “caso Tuchacevskij” è il simbolo di un'epoca in cui bastava un giustificato sospetto per avviare rapidi processi sommari capaci di far cadere anche chi per decenni era stato uno dei più fedeli servitori dello stato sovietico. Non sembra sostenibile l'idea che tali processi siano stati un mero capriccio personale di uno Stalin volenteroso di essere l'unico volto noto del regime. Indebolire a tal punto i vertici militari con la guerra alle porte era un gesto disperato e controproducente di cui si può comprendere l'attuazione solo ragionando sulla profonda e motivata convinzione da parte di Stalin (e del gruppo dirigente a lui più vicino) che vi fossero state serie e profonde infiltrazioni di oppositori (interni ed esterni) nei più alti livelli dell'esercito. In questo contesto va inquadrato anche il “culto della personalità”, fenomeno che non si può negare ma che occorre ridimensionare e inquadrare nel contesto.

Il culto della personalità affonda le sue origini nella storia russa, e come tale era stato un importante strumento di potere per contrapporre alle icone religiose il culto di Lenin, introdotto di fatto da Stalin (con il sostanziale assenso del partito che ne riconosceva la “necessità”, nonostante certe perplessità e alcune opposizioni) con la sua morte. Occorre però constatare come il culto della personalità si presenti in forme diverse anche negli altri paesi occidentali, pur con varietà e livelli diversi, e trovi linfa vitale nell'accentuazione dello stato d'eccezione dovuto alla crisi economica o alla guerra. Oltre agli autoritarismi il fenomeno è riscontrabile negli USA del presidente Roosevelt, eletto per tre volte consecutive nonostante il divieto costituzionale, ma anche nell'icona di Churchill in Gran Bretagna. In entrambi i casi si assiste ad un ampliamento dei poteri dell'esecutivo e ad una messa al bando più o meno parziale delle garanzie costituzionali. Non stupisce quindi che in un Paese già di per sé caratterizzato dalla dittatura del partito, da uno stato di necessità permanente pluriventennale, e da un retaggio cultural-popolare predisposto secolarmente all'iconismo religioso e politico (si pensi agli assolutismi zaristi durati ininterrottamente fino al 1917), Stalin abbia sfruttato questo strumento per affrontare quella che si annunciava come una crisi di proporzioni enormi (come in effetti fu il periodo della seconda guerra mondiale).

Più problematica appare l'ultima fase di potere staliniano (1945-53) in cui, passato il pericolo nazista, lo stato d'eccezione è condizionato dalla guerra fredda e dall'avversione verso gli USA. È in questi ultimi anni che il terribile pugno di ferro staliniano si mostra forse incapace di moderare uno stato d'eccezione che viene invece intensificato sul piano sociale, con una recrudescenza notevole della repressione. Luciano Canfora ha evidenziato il rovinoso errore di aver prolungato la guerra civile anche oltre la vittoria del 1945, invece di esaurirla o attenuarla. Rita Di Leo segnala anzi “il paradosso per cui nel secondo dopoguerra, la paura dell'esperimento sovietico ha spinto le élite dei paesi capitalistici avanzati a politiche di welfare e a un'economia del benessere per assicurarsi il consenso politico e la pace sociale dei propri popoli. Invece, nel medesimo periodo, nell'URSS il boom capitalistico del dopoguerra acuì la paura dell'accerchiamento e spinse a consolidare il settore strategico-militare”. In questo periodo ci sono giustificati motivi che impediscono ad un regime assai in difficoltà (sul piano interno ed internazionale) di allentare la pressione sulla propria popolazione? È così fondato il pericolo di una guerra imminente con quelli che nella seconda guerra mondiale erano stati gli alleati dell'URSS? Secondo Stalin, uomo prudentissimo, probabilmente non era il caso di correre rischi, prendendo tutte le contromisure necessarie, ancorché durissime per il proprio popolo. Ma il giudizio politico e morale su questo periodo è quello che più di altri sembrerebbe legittimare l'uso del concetto di “stalinismo”.

Il lettore accorto avrà notato che finora si è evitato il termine “stalinismo”. L'omissione non è casuale, ma è figlia dell'idea che sia totalmente inaccettabile ricondurre la sola personalità di Stalin all'equiparazione con Hitler e più in generale ad un totalitarismo feroce fine a sé stesso. Prendendo in esame il periodo 1922-45 si ritiene che la personalità di Stalin presenti certo alcune peculiarità teoriche e pratiche rispetto a quelle degli altri dirigenti bolscevichi, ma non così marcate da giustificare il ricorso ad una categoria a sé come quella di “stalinismo”. Se si vuole formulare un giudizio morale e politico sulla personalità di Stalin occorre piuttosto aver pienamente presente la continuità teorica e pratica con la cultura politica bolscevica (a sua volta inserita in un certo filone del comunismo “marxista”) e soprattutto il contesto geopolitico, economico, sociale e culturale, nazionale ed internazionale nel periodo complessivo, ricordando come la violenza sia una caratteristica intrinseca dell'epoca in questione, e come tale praticata, giustificata e sollecitata come strumento di sviluppo anche da parte delle potenze capitalistiche liberali. A tal riguardo Losurdo ha parlato di un peccato originale del '900 e ha ricordato i numerosi crimini perpetuati dalle potenze imperialiste europee durante l'epoca “liberale”; la questione dell'origine della violenza e del terrore non è problema da poco, anzi appare centrale per spiegare come ci siano potute essere violenze difensive e violenze offensive, con importanti conseguenze sul piano morale e politico, oltre che sul giudizio storiografico. Non è un caso che molti storici, mettendo a paragone la Germania nazista e l'URSS staliniana assegnino il primato cronologico della violenza alla seconda, spiegando in questa maniera il carattere “difensivo” dei regimi nazifascisti; questi autori presentano gli orrori di Auschwitz come “perfezionamenti” di Kolyma, omettendo però di ricordare che i primi campi di concentramento furono realizzati sia dalla Russia zarista, sia dalle potenze coloniali europee già in epoca tardo-ottocentesca. Chi ha sviluppato il concetto di “stalinismo” e ne ha fatto materia di studio specifico dandola come una categoria ormai scontata sembra invece non aver tenuto conto nella debita misura di questi fattori.

Il discorso però si complica per il periodo 1945-53. È lecito formulare l'ipotesi che l'anziano e rigido statista, che aveva condotto con inflessibilità e paternalismo il proprio Paese per oltre vent'anni, portandolo alla vittoria contro Hitler, avesse ormai acquisito delle peculiarità personali tali che gli rendevano difficile, se non impossibile, ritenere che l'URSS potesse sopravvivere senza la sua guida “illuminata”. Le affermazioni di maggiore protagonismo ed egocentrismo si riscontrano non tanto sulla spinosa e discutibile questione del culto della personalità (più volte condannato dallo stesso Stalin che si rendeva conto del problema), quanto soprattutto dalla totale cancellazione di una normale dialettica democratica interna al partito negli anni '45-'53; in tale periodo il pericolo esogeno per il regime esiste, ma non pare paragonabile a quello del periodo '33-'45 che aveva portato all'accentuazione dell'autoritarismo; il fatto che questo venga spinto al suo culmine in un periodo che consentiva quanto meno il ripristino di una legalità politica interna al partito è sintomatico; è sempre in questo periodo che si afferma in maniera totalizzante la pretesa di imporre il proprio giudizio e le proprie idee (sia per convinzione ideologica personale, sia per l'utilità politica che queste potevano avere) anche in campi non strategicamente indispensabili come quelli scientifico-culturali. Ciò che preme sottolineare al termine di questo capitolo è però la serie di durissime prove che si trovarono ad affrontare Stalin ed i suoi collaboratori dal 1922 in poi. Un adeguato approccio di lettura deve quindi cercare di inquadrare gli orrori dell'universo “concentrazionario” e repressivo del regime all'interno di un contesto estremamente problematico, violento e conflittuale. La gran parte delle azioni politiche di Stalin si spiegano con la necessità di rendere l'URSS un paese in grado di difendersi da un imminente attacco militare scatenato dalle forze capitalistiche (tali erano ritenuti i nazifascismi) che avrebbe esposto il popolo sovietico (con la minaccia del progetto schiavista, razzista e anticomunista del nazismo) ad un terrore ben maggiore di quello che per necessità si scelse di portare avanti come male minore. Rimane aperto il problema morale di quanto sia accettabile o meno questo machiavellismo estremo, ma dare questo giudizio esula dal compito di questo lavoro.

Ultima modifica il Domenica, 27 Ottobre 2013 22:20
Alessandro Pascale

Nato nel 1985, laureato in Scienze Storiche, lavoratore precario e aspirante professore di Storia e Filosofia con certificazione TFA già ottenuta. Tesi e tesine svolte su "Berlinguer e il compromesso storico", "Popular Music politica. Un'analisi storico-sociale sul contesto italiano", "Stalin e l'URSS (1922-1953)", valutate sempre con il massimo dei voti. Dal 2008 faccio militanza nel PRC tra Valle d'Aosta e Lombardia. Convinto che il 90% delle risposte del presente si trovino nello studio attento e ponderato del "nostro" passato.

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