Il punto di partenza da cui occorre partire per capire i comportamenti di Stalin e dei membri del PCUS è il profondo senso di appartenenza alla dottrina marxista, e nello specifico alla versione “applicata” da Lenin, codificata dai posteri come “marxismo-leninismo”. La preoccupazione con cui si cerca di ricondurre ogni propria azione ai dettami di quello che appare un vero e proprio “verbo” dottrinale si scontra però con un enorme ostacolo: il fatto che non esista negli scritti di Karl Marx una teoria dello Stato. Mancava quindi del tutto un'indicazione concreta e operativa di come andasse costruita la società comunista, perchè Marx fu restio a prescrivere quelle che definì spregiativamente “ricette per l'osteria dell'avvenire".
Le uniche indicazioni offerte erano assai generiche: l'eliminazione della divisione delle classi e del lavoro, l'abolizione del rapporto di lavoro salariato (causa prima dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo) e della proprietà privata dei mezzi di produzione (che non doveva diventare proprietà pubblica, ossia statale, che avrebbe perpetuato in una certa misura l'alienazione e i rapporti di lavoro capitalistici); la società comunista doveva ergersi eliminando lo Stato, perché l'organizzazione statale ha senso solo quando è espressione del dominio di una classe sull'altra, e non lo ha quando sono scomparse le classi. L'obiettivo era quindi una società in cui vigesse l'uguaglianza reale tra gli uomini. Quando però i bolscevichi presero il potere nel 1917 si accorsero presto che queste indicazioni di massima non servivano a molto nella situazione apocalittica in cui si trovarono a governare. Bucharin confesserà candidamente così: “Ci immaginavamo le cose nel modo seguente: assumiamo il potere, prendiamo quasi tutto nelle nostre mani, mettiamo subito in moto un'economia pianificata, non fa nulla se sorgono delle difficoltà, in parte le eliminiamo, in parte le superiamo, e la cosa si conclude felicemente. Oggi vediamo chiaramente che la questione non si risolve così”.
L'assenza di saldi riferimenti teorici cui aggrapparsi, unita al bisogno urgente di mettere immediatamente in atto la radicalità di tali pur generiche istanze diede quindi luogo inizialmente alla stagione del “comunismo di guerra” in cui si arrivò anche al tentativo di abolire il denaro. Il contesto sfavorevole e l'approssimazione dilettantesca nel concretizzare la rivoluzione in maniera così rapida e radicale spinsero presto Lenin e la maggioranza del partito ad una svolta più moderata e realisticamente concreta. Tale fu l'approdo alla NEP nel 1921, cui si giunse non senza contrasti e violenti attacchi politici. Le prime accuse di aver tradito la rivoluzione giunsero quindi non a Stalin, bensì ai principali eroi della rivoluzione: Vladimir Lenin e Lev Trockij, accusati a più riprese di aver deviato dalle linee ideologiche del marxismo e di aver tradito gli interessi del popolo e della classe operaia. Motivo di tali accuse furono il trattato di Brest-Litovsk, l'approdo alla NEP, la repressione della rivolta di Krondstadt, il venir meno dell'uguaglianza socialista, il ritorno della presenza del denaro e del mercato, la moderazione nella concezione della famiglia, la progressiva emarginazione dei soviet e la conseguente messa in sospensione della democrazia diretta contro la vituperata rappresentanza “burocratica” (da notare che anche quella della “burocratizzazione” fu un'accusa tipica di Trockij nel corso degli anni '30).
La constatazione filosofica che Losurdo fa della questione è sintetizzabile in questa frase: “La tragedia della Rivoluzione francese (ma anche, e in scala più larga, della Rivoluzione d'ottobre) consiste in ciò: se vuole evitare di ridursi ad una vuota frase, il pathos dell'universalità deve darsi un contenuto concreto e determinato, ma è proprio questo contenuto concreto e determinato ad essere avvertito come un tradimento”. Fu l'inizio dello scontro di due tendenze tra loro contrapposte e inconciliabili: il tentativo da parte di tutti gli attori di rimanere fedeli alle attese messianiche e rivoluzionarie suscitate dalla propria propaganda e dalla propria stessa volontà, profondamente impregnata di ideologia marxista e volontà utopistica, andava a sbattere la testa contro il duro muro della realtà concreta, che imponeva compromessi e frequenti “passi indietro”. Ciò porta alla scissione di questa volontà ideologica “pura” nei bolscevichi: alcuni rimarranno fedeli nell'assegnare il primato alla parte “letteraria”, incapaci di applicare concretamente le indicazioni di massima date da Marx, e portati a rifiutare ad ogni costo la realtà esistente che imponeva di sciupare i sublimi princìpi. Per gli altri si può parlare di una volontà ideologica “concreta”, che si realizza in un'azione empirica capace di tenere conto realisticamente delle condizioni date, non propriamente favorevoli. Il leninismo, ossia l'insieme teorico e pratico della figura di Lenin, ha oscillato per alcuni periodi tra questi due poli (in particolar modo nella stagione del “comunismo di guerra”), ma con l'eccezione della sbornia ideologica post-rivoluzionaria è senz'altro prevalente in lui l'applicazione “concreta”, che spinge lo statista a favorire il mantenimento della presa del potere anche a costo di svariati compromessi.
A complicare ulteriormente il quadro fu, dal 1924 (anno della morte di Lenin) in poi l'affermazione del culto della sua personalità rivoluzionaria e della sua opera, tale da far diventare il “marxismo-leninismo” la nuova dottrina integrata cui i membri del partito dovevano fare riferimento per la prassi quotidiana. Alle mancanze strutturali del pensiero marxista si aggiungeva ora il rebus della corretta interpretazione dell'opera teorica e pratica di un uomo capace di grandi salti utopici come di repentine svolte verso un maggiore realismo politico, di grande generosità e tempra morale come di freddo e cinico machiavellismo. Una personalità che tra l'altro aveva scritto migliaia di pagine, lasciando una corposa teoria “aperta”. Nonostante il pregiudizio comune l'opera filosofico-politica leniniana non prevede infatti soluzioni chiuse, ma, in adesione alla teoria dialettica marxista, si può definire “aperta” alla realtà materiale in costante mutamento. Ciò aveva svariate conseguenze dal punto di vista della teoria politica (e come tale suscettibile di diverse interpretazioni, così come alla stessa maniera fu il “cantiere” di Marx) da studiare e cui richiamarsi.
I diversi esiti cui giunsero le interpretazioni teoriche dei settori politicamente più “coscienti” e impegnati della rivoluzione (quindi in primo luogo l'intellighenzia del PCUS), unite alle profonde contraddizioni in seno alla realtà sociale russa (tra contadini e operai, tra giovani e anziani, tra pacifisti e “rivoluzionari permanenti”, tra piccoli proprietari e proletari, in generale tra quelle che Marx definiva “classe in sé” e “classe per sè”) furono la radice di una conflittualità interna al campo rivoluzionario che, per il suo livello di fervore ideologico e fanatismo, non a torto è stata interpretata come una guerra di religione, presente esplicitamente (sotto forma di dissenso socio-politico organizzato dentro e fuori il partito) per l'intero primo ventennio dell'URSS, trovando un termine nelle Grandi Purghe del 1936-37, con cui Stalin eliminò alla radice il problema ideologico attuando l'eliminazione fisica di ogni opposizione politica e instaurando la propria piena autocrazia sul partito e sull'URSS.