Gli attuali critici del socialismo reale dimenticano spesso il contesto storico in cui si è affermato e sviluppato il principale esperimento socialista moderno. L'URSS, sorta il 30 dicembre 1922, era un paese sostanzialmente a pezzi. Distrutto da guerre, carestie, calo democrafico, crisi produttiva, isolato a livello internazionale sia politicamente che economicamente, e per di più alle prese con la difficile questione della successione del proprio leader indiscusso, Lenin, colpito il 25 maggio del 1922 da un ictus che ne iniziò un calvario concluso con la morte il 21 gennaio 1924. Il periodo in questione è assai delicato, perché risale solo all'anno precedente l'inizio della malattia di Lenin (1921) la contestata svolta della NEP (Nuova Politica Economica) che reintroduceva elementi di mercato nell'economia. I contrasti interni tra le varie anime del partito c'erano sempre stati, sia prima che dopo il 1917, ma la figura carismatica di Lenin era sempre riuscita a placarli, trovando una sintesi o imponendo con la propria autorevolezza le scelte che creavano più divisioni.
Il venir meno della figura di Lenin rappresenta quindi la caduta dell'ultimo argine ai conflitti interni e a quella “guerra religiosa” sempre più intensa dentro e fuori il partito. Questa ebbe come prima causa l'incapacità di costruire una cultura politica unitaria e condivisa fondata sia sulla nascente dottrina marxista-leninista sia sulla necessità di prendere atto delle sfavorevoli condizioni interne ed esterne del paese, che fin dall'inizio avevano marchiato come indispensabile il ricorso allo “stato d'eccezione”. Lo stato d'eccezione nell'ontologia politica di Carl Schmitt si contrappone allo stato di diritto, perché si configura come una situazione in cui per una situazione di particolare crisi o pericolo il diritto è sospeso. Recentemente Giorgio Agamben ha ripreso il concetto, attribuendolo ad un Stato in cui vi sia una sospensione del diritto paradossalmente legalizzata. È tesi di chi scrive che lo stato d'eccezione sia stata una condizione permanente di tutta l'epoca staliniana, in continuità con l'epoca “leniniana”. Nei due leader però lo stato d'eccezione ha origini e cause diverse: per Lenin infatti lo stato d'eccezione non è solo conseguenza obbligata dell'emergenza e della crisi, ma è anche il portato ideologico conseguente all'ostilità verso l'istituzione dello Stato.
Nella dottrina marxista infatti si prevede l'abolizione dello stato, contrapponendovi al limite la fase intermedia e provvisoria di una vaga nozione di “dittatura rivoluzionaria del proletariato”, termine che compare solo dodici volte nei testi marxiani ed engelsiani, rimanendo un'espressione usata da Marx “in maniera parca e generica”. I bolscevichi volgevano inoltre in continuazione lo sguardo verso l'Europa (con particolari speranze rivolte alla Germania e all'Italia), nell'attesa della propagazione della rivoluzione, ritenuta premessa indispensabile per l'affermazione del comunismo. Su questa speranza si continuerà a puntare fino ai primi anni '20. Inutile quindi secondo questa prospettiva costruire uno stato di diritto se l'obiettivo è proprio quello di cancellare lo stato in quanto ritenuto strumento dell'ordinamento borghese. Alla base del primo stato d'eccezione c'è quindi sia una causa contingente sia una causa ideologica, nonostante quest'ultima sia stata ripudiata dallo stesso Lenin, che scaricò la responsabilità del “comunismo di guerra” e del terrore conseguente sia alla “pressione dell'emergenza” sia ai settori più estremistici del partito, scegliendo la NEP strategicamente come nuovo sentiero ideologico da seguire (con il duplice vantaggio di pacificare il Paese e porre un freno al crescente antagonismo tra città e campagne).
Con il fallimento della rivoluzione in Germania e nel resto d'Europa salirono all'interno del PCUS le quotazioni di chi (Stalin in primis) sosteneva la necessità di prendere atto del mutato assetto internazionale e concentrarsi sulla costruzione del socialismo nella sola Russia. Siamo tra il 1924-25, al noto conflitto interno che si polarizza non solo genericamente tra Stalin e Trockij, ma tra quest'ultimo (cui solo più tardi si assoceranno le ali più “intellettuali” del partito: Zinov'ev e Kamenev, in questa fase stretti in un “triumvirato” informale assieme a Stalin) e la maggioranza del partito (a scagliarsi contro la teoria della rivoluzione permanente fu ad esempio Bucharin), che accoglieva le tesi proposte dal georgiano del “socialismo in un solo paese”. Quel che interessa ora rimarcare è che proprio in questa fase, in cui per volere anche dello stesso Lenin il 30 dicembre 1922 nasce ufficialmente l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, lo stato d'eccezione non cessa ma rimane attivo, seppur con fasi e gradi diversi d'intensità, ininterrottamente almeno fino al 1953.
Contano ancora sia un motivo ideologico che uno pratico: mentre si costruisce lo Stato infatti i quadri del partito continuano a ragionare attraverso l'ottica del materialismo storico, ossia nell'idea che la lotta di classe venisse combattuta anche a livello internazionale dalle potenze capitaliste occidentali contro il nascente regime comunista, e che tale processo sarebbe stato piuttosto lungo. Per fare un esempio Arthur Ransome in Six weeks in Russia in 1919 riportò questa frase di Bucharin: “Penso che siamo entrati in un periodo di rivoluzione che può durare cinquant'anni prima che la rivoluzione trionfi in tutta Europa e infine in tutto il mondo”. Il problema non era certo astratto, dato che contingenti militari francesi, inglesi, americani (e di svariati altri paesi) erano intervenuti fin dal 1918 a fianco delle “armate bianche” in una guerra civile i cui ultimi fuochi si spensero con fatica solo nel 1923. In quel frangente lo scopo dichiarato delle potenze occidentali era quello di allontanare quella che temevano potesse divenire una rivoluzione socialista mondiale.
Sempre tra il 1919 e il 1921 inoltre l'armata Rossa dovette fronteggiare anche l'invasione militare della Polonia. Contestualizzare questi eventi significa capire come il gruppo dirigente del nascente stato sovietico, già sufficientemente convinto della divisione manichea tra comunisti e capitalisti, rimanesse strutturalmente marchiato da questi eventi, e iniziasse a concepire la propria realtà come un mondo sotto assedio permanente, che al primo segnale di debolezza le forze capitalistiche avrebbero cercato di spazzare via. L'idea della lotta di classe, non solo interna ma internazionale, permea quindi in profondità la coscienza dei bolscevichi, e ne determina l'azione. Sarà anche su questo tema (come portare avanti la lotta di classe su un piano internazionale) che esploderà la spaccatura ideologica tra Trockij e il resto del partito. Questa rottura si ripercosse sul tessuto del partito e della società, creando i presupposti per quella guerra civile tutta interna al partito che caratterizzerà l'URSS fino alla seconda metà degli anni '30.
Abbiamo finora identificato due elementi che spiegano e determinano il mantenimento dello stato d'eccezione: la lotta di classe permanente contro i paesi capitalisti e il conflitto politico interno al PCUS, che degenererà in alcuni momenti in vera e propria guerra civile. La sensazione di essere costantemente sotto minaccia di un prossimo attacco diventa ancora più forte con l'avanzata imperiosa degli autoritarismi (fascismo e nazismo) in tutta Europa. Il più pericoloso e potente tra questi fu la Germania di Hitler, che al di là degli intenti politici di sottomissione schiavista del mondo slavo nasceva strutturalmente come reazione alle violenze comuniste. Quella dell'accerchiamento e della possibilità di essere presto attaccati non era quindi una paranoia infondata, ma un pericolo concreto che convinse il gruppo dirigente a portare avanti uno stato d'eccezione necessario a sviluppare un paese assai arretrato a livello economico e industriale (e quindi militare). Per raggiungere questo obiettivo però, in mancanza di finanziamenti stranieri, occorreva creare plusvalore chiedendo sacrifici alla popolazione, al fine di poter sviluppare quell'indispensabile industria pesante necessaria alla difesa del paese. Così si spiega in primo luogo (ma non esclusivamente) la “rivoluzione dall'alto” portata avanti contro il mondo contadino, che diventa il terzo conflitto fondamentale per capire il mantenimento dello stato d'eccezione. La riottosità del mondo contadino ad accettare un peggioramento delle proprie condizioni di vita in vista dell'obiettivo “superiore” degenerò in una guerra civile che entrò in relazione con gli altri due conflitti (quello politico guidato dai trozkisti e quello delle intelligence straniere interessate a indebolire il regime sovietico per trarne vantaggi). In questo contesto si pongono le durissime e tragiche risposte dettate, dal 1929 in poi, da uno Stalin sempre più solo al comando.
Si capisce quindi il circolo poco virtuoso in cui si trovò a cadere il PCUS nella seconda metà degli anni '20: gli sviluppi internazionali e le condizioni ideologiche portavano a teorizzare l'inevitabilità di una prossima guerra cui si sarebbe potuto far fronte solo attraverso un rapido ed intensivo sviluppo industriale. Per fare ciò occorreva d'altronde costruire un apparato statale imponente e centralizzato, obiettivo raggiungibile in tempi rapidi solo ponendo fine alla NEP e quindi alla tregua sociale con il mondo contadino. Ciò però intensificò i contrasti politici con un'opposizione interna sempre più riottosa e pronta ad ogni mezzo per impedire quelle che sembravano delle degenerazioni inaccettabili. La sensazione di un attacco imminente iniziò già a metà degli anni '20 con il peggioramento dei rapporti diplomatici con i britannici e con l'ascesa al potere in Polonia di Jozef Pilsudski ma diventò quasi una certezza nel corso degli anni '30, con l'ascesa del nazismo in Germania (1933) e dei fascismi in tutta Europa, oltre che con l'approssimarsi del pericolo giapponese in estremo oriente (è del 1931 l'invasione della Manciuria cinese).
Lo stato d'eccezione si potrasse anche dopo il termine della Seconda Guerra Mondiale, secondo una linea di continuità che conduce sul terreno della guerra fredda. Le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, oltre infatti a sancire la fine del secondo conflitto bellico mondiale, diventarono il segnale con cui coscientemente certi settori dell'amministrazione americana vollero dare un messaggio di intransigente avviso all'espansionismo sovietico. La reazione di Stalin, ormai solo al vertice del potere, fu quella di rimandare ogni eventuale disgelo delle pratiche repressive per recuperare terreno sul piano economico, industriale, militare, ed essere quindi in grado di poter reggere il nuovo status acquisito di superpotenza mondiale. Si può discutere sul minor grado di intensità oggettiva (e quindi sull'indispensabilità di un controllo repressivo così asfissiante sulla società sovietica così prostrata dopo anni di guerra) americana rispetto a quella precedente “europea” e giapponese.
Occorre probabilmente ritornare alle origini storiche e ideologiche che portavano Stalin a non concepire la dialettica “amico-nemico” come una questione strumentale, ma come una convinzione profonda alla base della quale si leggevano i fatti storici susseguenti il 1917, periodo nel quale nessuna potenza capitalista aveva cercato di pervenire ad un rapporto pacifico e dialogante col l'URSS. Se consideriamo che i sovietici riuscirono a colmare il tanto temuto gap nucleare nel 1949, anno della loro prima bomba a fissione, e che dal 1950 al 1953 la guerra oltre a restare fredda era assai calda nella penisola coreana, si può quindi affermare che l'intera storia dell'Unione Sovietica nell'era staliniana (ma più in generale dal suo avvento con la rivoluzione d'ottobre del 1917) sia stata caratterizzata da uno stato d'eccezione causato in ultima istanza da fattori esogeni internazionali, cui si cercò di rispondere tentando di invertire con ogni mezzo i rapporti di forza sfavorevoli.