Intervista di Dmitrij Palagi a Giovanni Mazzetti
1) In un articolo dell'inserto economico di la Repubblica (lo trovi qui) si parla del "capitalismo del web" come della "vera rivoluzione". In tedesco viene definita Plattform- Kapitalismus, in inglese Share Economy. Chi si oppone a questo nuovo modello viene chiamato "conservatore" e additato come persona fuori dalla storia. Eppure in questo meccanismo ogni pezzo della nostra vita diventa merce e non esiste alcuna regola al di fuori di quelle del mercato. Di nuovo torna l'elogio della flessibilità, come se questa non si fosse rivelata un dramma di precariato ed insicurezza nel recente passato. Come risponderesti ad Alessandro De Nicola, autore del suddetto articolo?
Direi che De Nicola, e gli altri con i quali fa il corifero, vedono dei cambiamenti senza rendersi conto di che cosa si tratta. Da come descrive il Plattform Kapitalismus - "un sistema di scambi volontari attraverso il quale una persona mette a disposizione i propri beni per il loro utilizzo parziale da parte di altri attraverso una piattaforma web gestita da un'organizzazione o un'impresa" descrive un’evoluzione del sistema in modo apologetico, invece che critico. Non vede, innanzi tutto, che c'è una forma di parassitismo dell'impresa che crea la piattaforma, la quale preleva una parte dei soldi che passano di mano per il solo fatto di fare da intermediario. In fondo, dietro a questo sistema non c'è altro che il vecchio commerciante tecnologicamente ripulito.
Tuttavia, in quel "mette a disposizione" c'è una dinamica della quale De Nicola non ha proprio idea. La società borghese poggia infatti storicamente sul fatto che i beni di ognuno sono sua proprietà esclusiva. Storicamente chi ospitava a casa sua estranei in cambio di denaro era considerato un “poveraccio”, che non aveva abbastanza per vivere e lo rimediava in quel modo. Ricordo ancora chiaramente gli affittacamere degli anni ’40 e ’50 nel mio palazzo, così come ricordo delle famiglie che riciclavano i vestiti dismessi dei figli per integrare un misero reddito. Questo perché alla forma merce della ricchezza si accompagnava normalmente l'uso esclusivo della stessa. Solo i poveri dividevano quel poco che avevano in cambio di denaro, ma lo facevano perché costretti dalla loro povertà. È fuori di dubbio che, se il buon Adam (personaggio della “parabola” apologetica del De Nicola, avesse i soldi agirebbe in tutt'altra maniera, e cioè noleggerebbe una macchina o prenderebbe un taxi invece di doversi rivolgere a quello che fino a ieri era considerato un abusivo; invece di andare a casa di una "deliziosa"(?) vecchietta a mangiare, andrebbe in un buon ristorante; invece di noleggiare uno smoking, che magari gli andrà largo o stretto, lo avrebbe comperato; invece di affittare una casa per tre giorni sarebbe andato in albergo. L’ignorare che la condivisione per necessità è una manifestazione di povertà, può derivare solo da una forma apologetica di pensiero, che raccolta la vita in maniera favolistica. Gli individui che non possono soddisfare i loro bisogni sono costretti a muoversi entro limiti che mettono in discussione la loro proprietà (privata), e poiché gli intermediari capitalisti creano le condizioni tecniche della riuscita di questo regresso, De Nicola e gli altri la incensano come “libertà rivoluzionaria”.
La mistificazione sta, dunque, nel far apparire questa necessità come una libertà. Nel rappresentarla addirittura come un potere nuovo, che “rivoluzionerebbe” lo stato di cose esistente. Qui bisogna procedere con circospezione. È vero che questa forma di condivisione mercantile di momenti della vita e della cose rappresenta un’ulteriore socializzazione delle condizioni dell’esistenza. Ma il fatto che intervenga in forma capovolta, cioè sulla base dei rapporti capitalistici, la determina come un’evoluzione profondamente contraddittoria. Per spiegarmi meglio. Un passaggio del genere è già intervenuto nella storia dell’umanità. Come forse sai, nel Seicento e nel Settecento, molti borghesi in ascesa cercavano di affermare il loro potere – potenzialmente nuovo – con l’accesso alle forme del potere preesistenti. Vale a dire che chiedevano di entrare a far parte della nobiltà. Non si rendevano conto che il tal modo confermavano proprio quei rapporti dai quali cercavano di emanciparsi. Ma quando, a fine Settecento, riconobbero il loro errore, mossero in direzione opposta, abolendo i titoli nobiliari come forme del potere sociale, e rivendicando l’eguaglianza di tutti gli individui. Ora, questa “condivisione mercantile della vita e dei beni svolge un ruolo analogo a quella della rivendicazione dei titoli nobiliari da parte dei borghesi: riproduzione di un abbozzo del nuovo in una forma vecchia che lo contraddice.
Purtroppo mancano oggi i soggetti capaci di sperimentare la contraddittorietà di questa evoluzione, e sta a quei pochi che conservano un approccio critico alle forme di vita, socializzare la loro esperienza.
In una precedente intervista ci avevi spiegato come separare la questione del reddito dal tema del lavoro sia funzionale all'impedirci di pensare ai modi di produzione. Su Il Becco abbiamo tentato spesso di andare oltre il dibattito sul reddito di cittadinanza, provando a guardare a una nuova proposta di società. Tu credi che per poter ipotizzare nuovi modelli economici si debbano recuperare Marx e Keynes?
Marx e Keynes sono i pensatori che più di altri hanno saputo anticipare la dinamica insita nei rapporti sociali capitalistici e del livello ai quali sono giunti oggi. E siccome sarebbe ingenuo sperare di poter procedere da zero, ad essi dobbiamo far riferimento. È però importante distinguere il pensiero dei due autori, da quello di molti seguaci che si sono susseguiti nel tempo.
Come per il resto dei problemi sociali dei quali si nega la complessità, il pensiero di Marx e di Keynes, è stato spesso banalizzato, sia dagli avversari che dai seguaci. Quanti keynesiani oggi insistono che le vecchie politiche keynesiane dovrebbero consentirci di riprendere la strada della crescita! Ma entrambi gli autori hanno sottolineato che quando sopravviene una crisi è illusorio pensare di poter affrontare i problemi ferma restando la struttura delle relazioni sociali. La crisi corrisponde infatti al disgregarsi della forma di vita data, per l’inadeguatezza della cultura nella quale si concretizza. Certo, si tratta di un compito immane, che però non può essere evitato. Ma credo che la maggior parte dei keynesiani non abbiamo alcuna idea di che cosa possa trattarsi. Ma anche molti sedicenti marxisti, rimasticano vecchie categorie, che indubbiamente erano adeguate per le lotte del passato, ma che ornai non sono più all’altezza del mondo che abbiamo creato.
In un recente libro-intervista di Carlo Formenti e Fausto Bertinotti la crisi della socialdemocrazia è direttamente collegata alla fine dell'esperienza del socialismo reale e al mutamento sociale che ha sgretolato ogni classica forma di rappresentanza, anche sindacale. Le speranze si rivolgono ai movimenti dal basso e a chi spesso guarda ad un paradigma alto-basso sostitutivo di quello destra-sinistra. Sindacati e partiti appaiono strumenti superati. Tu che ne pensi?
Non credo che sia stata “la fine del socialismo reale” a determinare “lo sgretolamento di ogni forma classica di rappresentanza”. È piuttosto che il mondo è cambiato così profondamente, in conseguenza del raggiungimento degli obiettivi che in maniera solo parzialmente consapevole la società ha perseguito che rende i preesistenti rappresentanti non all’altezza dei nuovi problemi. Se si prova a spiegare ad un sindacalista o a un politico che, come avevano previsto sia Marx che Keynes, è emersa “una difficoltà di riprodurre il rapporto di lavoro salariato” e li vedrai letteralmente scappare. Si tratta di un problema che per loro è impensabile – e lo è stato anche per Bertinotti, che in un congresso di Rifondazione ha sostenuto che si trattava di un’emerita bufala. Ma se il riconoscimento dell’emergere di questa difficoltà si frappone alla rappresentazione di qualsiasi sviluppo alternativo, è ovvio che chi pretende di rappresentare i bisogni della società finisca col mostrare una totale impotenza. E prima o poi non venga più ascoltato.
Trovo l’idea di un movimento salvifico “dal basso” una vera e propria trappola. Per concepirla bisogna avere un’idea del tutto distorta della situazione in cui ci troviamo. Vale a dire che le classi dominanti non andrebbero incontro ai bisogni delle masse per opportunismo o per cattiveria. Ma nella realtà le classi dominanti sono travolte da una totale incomprensione della crisi. Tuttavia le classi subalterne non sanno esprimere i loro bisogni e la loro condizione contraddittoria meglio di loro. Mi trovo continuamente a discutere sulle questioni previdenziali, con compagni molto schierati e critici. Eppure, scava scava, e ti trovi di fronte a forme di pensiero che non hanno nulla di alternativo rispetto al demente senso comune oggi prevalente. Non dimentichiamo che quando è stato investito da Napolitano del compito di formare il governo, Monti aveva il gradimento positivo di circa il 70% degli italiani.
Temo che prima di porre il problema di chi rappresenta coerentemente i bisogni sociali si debba ancora lavorare a dipanare la matassa della costruzione di una cultura alternativa. Non è detto che poi non si riesca ad organizzare il movimento in una forma partitica (profondamente diversa da quella attuale) e a trovare lo spazio per agire sindacalmente.
Il Becco è una testata registrata come quotidiano online, iscritto al Registro della Stampa presso il Tribunale di Firenze in data 21/05/2013 (numero di registro 5921).