Ombre della sinistra europea in Italia
Mentre si avvicina il voto del 4 marzo, Daniela Preziosi, su il manifesto ha scritto un articolo da titolo «Le figurine della sinistra europea nella sfida italiana». Le elezioni nazionali non hanno chiaramente al centro la dimensione continentale, ma più che in passato c'è un certo imbarazzo - trasversale - a rapportarsi con i vicini dell'Unione (Europea!).
Le sinistre italiane si confermano contenitore di grande confusione. La visita di Grasso a Corbyn, l'iniziativa di Fratoianni con una esponente della Linke, le relazioni di Potere al Popolo con il GUE appaiono come timidi echi di pratiche del recente passato.
Proviamo a concentrare le nostre dieci mani a partire da due notizie di attualità.
A fine gennaio Mélenchon ha chiesto l'esclusione di Syriza dal Partito della sinistra europea, con una dura replica di Tsipars ("noi non siamo una sinistra sola a parole"). L'allarme frattura pare essere rientrato ma certo la tensione rimane e appaiono lontani i tempi dell'asse greco-francese in chiave solidaristica.
Il PSE non se la passa meglio. Schulz pareva dover rafforzare il vento di Sanders e Corbyn, con una campagna di rilancio della SPD (eletto come candidato con il 100% dei voti del partito) incentrata sul rifiuto delle grandi coalizioni. Ha dovuto fare passi indietro su numerose questioni di principio e infine ritirarsi anche dal ruolo concordato con la CDU di Ministro degli Esteri. Le sue dimissioni dalla presidenza del partito ricordano più la disfatta di Hollande che il successo narrativo del Labour.
Di tramonto delle sinistre europee abbiamo sempre scritto sul Becco, queste Dieci Mani provano ad aggiornare la riflessione.
Il nesso tra la concezione occidentale del mutamento sociale radicale (quello che ora chiameremmo “rivoluzione”) e l’escatologia cristiana non è un mistero per nessuno: storicamente le troviamo fuse in più di un’occasione.
Dall’istante in cui si realizza il fatto della venuta del Regno nulla nel mondo è più ciò che era, tutto è santificato o condannato per sempre. Similmente, si pensa che, conquistato “il potere”, che purtroppo è perlopiù concepito come il controllo dell’apparato statale, una realtà umana come un leader o un partito possa fare tabula rasa del vecchio stato di cose e instaurarne uno nuovo radicalmente diverso. Se ciò non accade è per il tradimento (vecchio refrain stalinista) o per la pusillanimità di chi di dovere, oppure per la malvagità del vecchio mondo che non accetta di perire.
È facile comprendere come una simile concezione abnorme dell’essere umano non possa non essere frustrata dalla realtà. È infatti un’ovvietà assoluta che la storia vada avanti per processi, e non per salti repentini, così come dovrebbe essere un’ovvietà che qualunque mutamento sociale ed istituzionale, proprio in quanto è oggetto della storia umana, tenda ad essere marcatamente path-dependent: fatti e decisioni del passato vincolano il presente, riducendo il campo del fattibile.
Ciò non significa che il mutamento, anche radicale, di istituzioni, modelli economici e costrutti socioculturali sia da escludere; significa però che avviare un processo storico di lunghissimo periodo è cruciale, che nel breve e medio periodo è d’uopo darsi obiettivi realistici e non investire gli strumenti del potere di una mistica che non gli appartiene.
Lo stato sociale non è un’invenzione del Messia Roosevelt o del Messia Attlee, è un punto in un processo storico iniziato quasi un secolo prima in Prussia, a sua volta parte del più ampio processo storico del capitalismo; così come la controrivoluzione thatcherian-reaganiana di fine anni ‘70-inizio anni ‘80 che ha profondamente modificato quel sistema ha radici nell’Europa dilaniata dalla Seconda guerra mondiale, per esempio. Nell’immediato dopoguerra, nei dipartimenti di economia delle università più prestigiose del Vecchio e del Nuovo mondo gli studiosi istituzionalisti o keynesiani erano l’assoluta maggioranza; oggi ciò che non si basa su una matematizzazione estrema ed esasperata e/o sulla fede nel pallido mainstream propinato dai 2-3 manuali di macroeconomia “ufficiali” o nelle teorie neomonetariste rischia di passare per pseudoscienza: l’importanza assoluta di conquistare e tenere casematte.
Ultimo a fare le spese della confusione tra storia ed escatologia il premier greco Tsipras. Su SYRIZA la sinistra europea ha investito un enorme carico emotivo, ma purtroppo poche energie intellettuali. L’errore di Tsipras (che comunque nei sondaggi viaggia intorno al 20% stabile, perdendo non contro forze antiausterity ma contro la destra di ND) non sta in qualche fantomatico “tradimento”, vale a dire nell’aver voluto governare una situazione reale, già gravemente compromessa e condizionata da decenni di scelte sbagliate che non si possono realisticamente cancellare con un colpo di spugna, ma nell’aver pensato che bastasse vincere, che il potere potesse destrutturare e ristrutturare a piacimento la realtà, che il vecchio contesto si sarebbe arreso di fronte al nuovo che viene.
Un errore replicato da tutti coloro che, in giro per l’Europa, continuano a sostenerlo o al contrario lo denigrano, come Mélenchon. “Fare qualcosa” e “cambiamo tutto” continuano ad alimentare investimenti emotivi ed entusiasmi, mentre si trascura completamente la preparazione necessaria per quando il momento di fare qualcosa arriverà davvero e si vive di belle idee astratte e belle intenzioni. Al contrario di molti, ho sempre preso molto seriamente (e in parte condivido) l’idea che al governo non ci si debba andare, che sia meglio costruire contropotere che prendere il potere.
Se si decide altrimenti, però, al potere è utile arrivarci solo alla fine di un processo consapevole.
Il tradimento verso il popolo greco del governo Syriza-Anel deve aver screditato ciò che resta della sinistra europea se lo stesso Melenchon è arrivato al punto di chiedere l'espulsione di Syriza dal Partito della Sinistra Europea.
La risposta di Syriza sembra un bieco tentativo di arrampicarsi sugli specchi accusando di antidemocraticità e di irresponsabilità chi si è quantomeno indignato per la macelleria sociale del governo Tsipras.
L'unica sensata accusa che si sarebbe potuta muovere a chi ora punta l'indice contro Syriza è cosa avrebbero fatto al loro posto, dovendo mantenere l'appartenenza all'Unione Europa.
Con quale linearità e coerenza si sarebbe potuto mantenere l'ideale di un'altra Europa in un contesto dove è risultato evidente che di Europa ne esiste una sola e non è certamente disposta a farsi riformare da qualsiasi movimento di sinistra alternativa continentale?
Insomma, Melenchon pensa di avere un Piano B e va in giro con Varoufakis a spiegarcelo da quel maledetto 5 luglio 2015. L'unico pulpito da cui proviene la predica è basato su quello striminzito Piano B che pensa di donarci un'altra Europa dal volto umano.
L'unica base di una politica economica neokeynesiana per formare un'altra UE è basata su politiche di redistribuzione della ricchezza con creazione di opportunità di lavoro dignitoso e transizione ecologica in opposizione al modello neoliberista su cui è storicamente fondata l'UE.
La sola partecipazione democratica dovrebbe magicamente donarci questa nuova prospettiva idilliaca, anche se abbiamo già visto il totale fallimento di questo percorso.
Le perplessità non mancano neanche verso Melenchon e la sua voglia di rilanciare la Sinistra Europea all'interno delle istituzioni ordoliberali.
La nascita del GUE e del Partito della Sinistra Europea sono una diretta responsabilità della cultura politica italiana. Abbiamo già avuto modo di sottolinearlo sul Becco già qualche anno fa ormai, ma alcuni nodi di fondo dei problemi europei rimangono non affrontati. Certo le analisi devono essere aggiornate ma l'atteggiamento generale pare essere ossessivamente "cerchiamo qualcosa che funzioni per aggrapparci da una zattera all'altra".
Sabina Guzzanti non è una politica, ma il suo documentario Viva Zapatero!, collegato al recente sostengo per Potere al Popolo (con una convergenza dell'ex socialista Mélenchon) potrebbe interrogarci su quali sono i percorsi di maturazione delle varie narrazioni, spesso estemporanee e prive di processi stratificati, che dovrebbero portare a robuste sedimentazioni organizzative.
Il livello delle sinistre sul piano continentale è un disastro. È stato Renzi a portare il Partito Democratico nel PSE, mentre questa famiglia continua a registrare numerosi insuccessi, con l'informazione schierata a sostenere il fenomeno Corbyn, il cui profilo non entusiasma i dirigenti dei vari partiti europei.
L'isolamento della Grecia ben si conferma con l'attenzione di Tsipras a ciò che avviene in Germania (con tanto di invito a creare un nuovo governo di grande coalizione, scavalcando la linea ufficiale di Schulz da destra).
La replica di Syriza ("noi non siamo di sinistra solo a parole") non è che una ferita già aperta in Italia, se uno ripensa al dibattito interno a Rifondazione per il sostegno all'Unione (intesa come coalizione del "secondo Prodi").
Quale è la cultura di governo della sinistra socialista? E quale quella della sinistra di alternativa?
C'è qualcosa di male ad ammettere di non avere ancora elaborato una complessiva capacità di governare ma voler rappresentare la difesa degli interessi di chi subisce questo sistema? Il potere e il governo sono categorie collegate ma distinte, far finta che esista un obbligo storico perché continuino a esistere "destre" e "sinistre" non farà che rafforzare i sostenitori del superamento di queste categorie.
Per chi è convinto della necessità di una sinistra di classe si tratta di non rassegnarsi ai tempi brevi, alla tattica e allo scoraggiamento, pur insistendo nella ricerca di equilibrio per agire nel presente.
La scorsa settimana è stato diffuso il primo sondaggio che evidenzia in Germania un sorpasso di AfD sulla SPD (16% contro 15,5%). Molti sono stati così impegnati ad allarmarsi da non prendersi la briga di ricercare quel sondaggio e consultarlo nella sua interezza. Se lo avessero fatto, avrebbero scoperto che la somma di SPD, Linke (11%) e Grünen (13%) porta la sinistra complessivamente al 39,5: un vantaggio di fatto abissale su AfD e quasi appaiato alla coppia CDU-CSU (32) e FDP (9). Inoltre, la somma di queste somme porta a un oltre 80% per le forze politiche democratiche.
La crisi della SPD è vecchia di molti anni, ma non è stato possibile sinora affrontarla per la doppia sordità delle sue due anime. La dirigenza e i giovani movimentisti, infatti, condividono la medesima radicalità anticomunista che impedisce l’unità delle sinistre e, sebbene si dichiarino antifascisti, continuano ancora ad accettare, a ventisette anni dall’unificazione, l’assenza di una Costituzione tedesca e la permanenza della provvisoria “Legge fondamentale” creata nel 1949 per la zona occidentale sotto tutela anglo-franco-americana. La disconnessione con la realtà rasenta a tratti l’inverosimile: nei sondaggi Schulz aveva inizialmente agguantato la parità con la CDU, ma che il suo faccione rassicurante non bastasse era diventato noto fin dalle prime occasioni di voto reale (e non demoscopico) per i parlamenti regionali a maggio 2017. Nonostante questo, la SPD ha continuato su una linea politica schizofrenica, che rifiutava la Grosse Koalition e neppure considerava una politica unitaria a sinistra.
Questa linea suicida è la medesima battuta anche in Francia da Mélenchon e in Italia da alcune sparute forze di sinistra. Il primo, invece di accettare la sfida di Macron sulla «societé du travail», si è limitato a contestarlo sulla memoria storica negando le responsabilità della Francia nei rastrellamenti e deportazioni degli ebrei. In Italia i paradossi sono esemplificati da Fratoianni che invoca il fronte democratico per battere il fascismo (quindi per questo se ne sta fuori dal centrosinistra e inveisce contro il fronte democratico Pd-Forza Italia) e da Rizzo che invece di lottare per un governo comunista europeo vuol far precipitare l’Italia nel baratro dell’isolamento (per la serie: amo così tanto Serbia e Transnistria che voglio essere come loro).
Nessuno, in tutto questo, si è fermato a riflettere sulla svolta politica post-elettorale di Corbyn, che ha riconosciuto la necessità per i partiti socialisti di essere al centro della società (leggasi: Partito della Nazione). Grasso era troppo occupato a tradurre dall’inglese lo slogan elettorale “For the many, not the few” per documentarsi su cosa è successo dopo.
La sinistra, almeno in Occidente, sta facendo di tutto per rendere il celebre ammonimento reazionario di Margaret Thatcher, "There is no Alternative" (non c'è alternativa al neoliberismo), una vera e propria profezia.
In crisi di egemonia e di legittimità, la sinistra europea lavora duramente per ottenere un minimo di visibilità, di credibilità e di consenso in un campo dominato dal realismo capitalista. Le poche energie vengono necessariamente mobilitate nel breve periodo: si guarda alle prossime elezioni, ci si organizza come si può per provare a fermare la prossima legge che precarizza (ulteriormente) il mercato del lavoro, e così via. La debolezza cronica della sinistra ha così necessariamente spinto in secondo piano il fondamentale problema del "che fare?" una volta vinte le elezioni e preso il potere politico.
Il neoliberismo è un modo di governare l'economia e la società che ha una sua logica intrinseca.
Esistono ovviamente delle varianti nazionali e geopolitiche nella sua governance ma queste condividono tutte una serie di ricette e di modi di organizzare la realtà specifici.
Nell'apparante caos dell'ordine globalizzato e post-westfaliano attuale, il neoliberismo segue una sua cinica ma coerente logica.
Forse ha torto Foucault quando afferma che al socialismo è sempre mancata una sua specifica governamentalità ma è evidente che in questa fase storica, manca un modo coerente e complessivo di pensare l'alternativa politica. Come vogliamo che sia l'economia? Come deve essere la società? Come vogliamo che sia l'individuo all'interno di questa società?
Il neoliberismo sa benissimo ciò che vuole mentre mi pare che manchi una visione d'insieme a sinistra sulla società del futuro da costruire (non si è nemmeno d'accordo su come deve essere pensata la coppia sovranità/globalizzazione).
In questa fase storica l'ammonimento di Foucault va dunque preso sul serio: manca un progetto politico reale e ci si appoggia su governamentalità già esistenti: forze come Podemos, Linke, La France Insoumise sembra che facciano molta fatica a proporre qualcosa di più che non sia la solita ricetta socialdemocratica e keynesiana.
Ma che succede quando queste ricette sono sostanzialmente inapplicabili? Vincoli di bilancio, creditori internazionali, trattati di libero scambio, accordi europei non rendono quasi mai possibile mettere in atto reali misure redistributive (se stai all'interno delle regole del gioco la coperta è sempre cortissima).
Quello che è accaduto a Syriza in Grecia è paradigmatico. Una volta vinte le elezioni, tutte le promesse elettorali fatte si sono dimostrate immediatamente irrealizzabili. Restavano due strade: una rottura drastica resa proibitiva proprio dalla mancanza di un progetto politico e di una logica di organizzazione dell'economia e della società nuovi e diversi oppure una gestione politica nella cornice delle logiche neoliberiste, non difformemente da quanto fatto da tutte le altre forze politiche.
Syriza, in mancanza di una realistica alternativa, ha optato fin da subito per la seconda ipotesi e sarebbe ingenuo pensare che se vincesse l'estrema sinistra in Francia, Spagna o Italia sarebbe diverso. Conta poco il potere istituzionale se poi non si ha un' arte di governo in grado di trasformare la realtà.
Immagine di copertina liberamente ripresa da www.wikipedia.org
Elezioni in Germania: un commento a caldo
Dopo le elezioni britanniche e francesi, è il turno delle elezioni tedesche. Un appuntamento che sicuramente merita attenzione, tra i timori di uno sfondamento dell'ultradestra, i dubbi sulle possibili alleanze di governo e gli inevitabili riflessi europei. Ne ragioniamo qui sul Becco, con il Dieci Mani di questa settimana.
I dati delle elezioni tedesche, per il loro valore, sono ormai di dominio pubblico, ed è inutile ripeterli. Vale la pena passare direttamente al commento.
C'è l'avanzata della destra radicale, declinata localmente sotto la sigla dell'AfD. Un fenomeno che riporta la Germania, fino ad oggi unico Paese (oltre al pur lodevole Portogallo) ad aver resistito alle sirene della demagogia, al triste comun denominatore della politica europea degli ultimi trent'anni. Come sempre le analisi che ricostruiscono un rapporto di causazione tra i risultati della destra e il disagio economico si sono sprecate, e sicuramente sono riuscite a catturare una parte non irrilevante del problema. La Germania, a livello di diseguaglianze, statisticamente si colloca nella media, con un Gini del 30.7 (contro il 26.3 di uno Stato poco diseguale come il Belgio, il 31.6 del Regno Unito ed il 32.4 dell'Italia), ma profonde fratture a livello socioeconomico esistono, e ci sono state ampiamente raccontate dalla stampa di questi giorni.
Il materialismo ingenuotto che vede un rapporto di causa-effetto tra voto di destra e problemi economici soffre però di gravi limiti, che diventano evidenti quando si va ad ampliare la comparazione a livello europeo. In Svezia la destra dei Democratici svedesi viaggia attorno al 20% nei sondaggi, la Danimarca è la patria di uno dei partiti della nuova destra storicamente di maggior successo, il Partito del Popolo Danese, mentre in Norvegia il Partito del Progresso – partito sui generis, più vicino alla destra repubblicana libertarian statunitense che al nazifascismo – è stato confermato dalle recenti elezioni nel suo ruolo di partner junior del governo conservatore. Per non parlare dell'Austria o della Svizzera. Tutti Paesi poco diseguali, in gran parte risparmiati dal peggio della crisi economica e dall'auserity “neoliberista” a cui si vorrebbero addebitare tutti i mali dal diluvio universale in poi. Allo stesso modo risulta difficile ricollegare onestamente le fortune delle forze neofasciste nei Paesi dell'ex patto di Varsavia – Germania Est inclusa – alle (reali) sofferenze economiche patite dai popoli esteuropei all'indomani della crisi definitiva del sedicente socialismo reale o nel contesto della recente crisi. Non si capisce, tra l'altro, perché le masse impoverite si dovrebbero affidare a forze che in molti casi (ed è il caso dell'AfD) portano avanti programmi liberisti da lacrime e sangue. Sarebbe forse il caso di indagare meglio, senza sottovalutare il fattore economico ma anche senza che questo diventi il paraocchi incontestabile, gli scontri culturali che hanno fatto a pezzi il tessuto sociale europeo negli ultimi trent'anni. Immigrazione, Stato-nazione, temi “etici” come l'aborto, diritti civili. Dovunque la destra lavora per rompere schieramenti e costruirne di nuovi, all'insegna della reazione sociale. La discriminate di classe si perde o è travisata dagli intruppamenti delle guerre culturali del tardo capitalismo.
Ma l'ascesa di partiti come l'AfD segna davvero il trionfo dell'estrema destra? Oppure è al contrario il segno della sua definitiva, storica, crisi? In Germania esiste già un partito neonazista, l'NPD, sostanzialmente cancellato dall'avanzata dei cugini “sovranisti” dell'AfD relativamente più presentabili negli ultimi due anni. In Francia il Front National di Marie Le Pen prosegue in una operazione di ripulitura di una facciata politica che già era nata, sotto l'egida di Jean-Marie, col preciso scopo di ripulire rifiuti tossici politici come i reduci dell'Action française e del terrorismo di destra degli anni '60-'70. I Democratici svedesi, per arrivare ai risultati odierni, hanno dovuto espellere un gran numero di vecchi iscritti, giudicati “troppo estremisti” per uno sdoganamento come partito mainstream che ormai sembra a portata di mano.
Il fenomeno resta assolutamente preoccupante, ma la realtà, come sempre, è più complessa dei titoli di giornale. Noi antifascisti dovremmo saperlo.
Le elezioni in Germania hanno rivelato un esito più scontato di quanto ci si aspettasse. La Cdu di Frau Merkel viene confermata, anche se in forte arretramento, e al secondo posto resta il partito socialista Spd che garantisce il bilanciamento di un sistema sostanzialmente bipolare vocato ai governi di coalizione e quindi ancor più difficilmente scardinabile da qualsivoglia populismo. Certo, il babau del populismo è il preferito per la retorica europeista che si bea di un sostegno praticamente unificato delle varie forze politiche alla ricerca di facili scranni parlamentari. In realtà in Germania il voto del popolo in sofferenza è relativamente ridotto viste le capacità economiche di un paese che ha fatto dell'unione economica il suo punto di forza e oggi vive di rendita.
Insomma, il populismo che sembra comunque in arretramento su tutto il continente, in Germania pare non aver mai sfondato per semplici ragioni economiche. È vero che esiste un ampio settore di mercato del lavoro destabilizzato dai minijobs, ma parliamo del paese che ha risentito meno di tutti nell'area euro delle ricadute economiche della crisi. Afd entra in parlamento, ma se analizziamo con realismo il fenomeno ci accorgiamo di una forza politica che stenta a decollare e che vede restringersi la sua base di consenso potenziale, poiché i flussi in uscita dal partito socialista si dirigono verso forze politiche di sistema e il mondo dei disoccupati e sotto-occupati da cui un partito populista dovrebbe raccogliere i consensi a piene mani sembra più sfiduciato e impegnato in un voto di protesta e nelle classiche forme di militanza leggera che nella costruzione di una reale alternativa all'Unione Europea. Insomma, si tratta della solita raccolta voti dei delusi dalla politica in nome dell'euroscetticismo (di destra in questo caso, viste le praterie lasciate dalla Linke sul tema).
In definitiva si può comunque prendere atto dell'esistenza anche in Germania di un processo di destrutturazione delle vecchie forze politiche, detto questo però non si può andare molto oltre. Infatti questo processo sembra avanzare meno che altrove nel paese egemonico dell'Unione Europea che viaggia verso il quarto mandato consecutivo di colei che rappresenta la vera lady di ferro dell'Unione Europea. Angela Merkel dai primi anni duemila si è dimostrata una guida sicura per una Germania che dal processo di unificazione monetaria ha saputo trarne solo vantaggi, scaricando sugli altri partecipanti all'Unione tutti gli oneri.
Nell'analizzare i risultati elettorali bisogna sempre stare attenti a non guardare strumentalmente ai dati, per trovare conferme impossibili da riscontrare, specialmente all'estero. Il fenomeno AFD spaventa in maniera tragicomica la stampa liberale e progressista europea. Nonostante la Germania possa vantare una classe dirigente caparbiamente cinica, capace di piegare l'europeismo agli interessi nazionali, a danno di altre nazioni del vecchio continente, l'elettorato tedesco non si allinea alla narrazione di un'UE in ripresa, dopo la vittoria di Macron.
Gerhard Schröder è ancora oggi intervistato come il coraggioso riformista, sfortunato nel pagare in termini di consenso scelte unanimamente riconosciute come epocali e giuste, da parte dello stesso sistema di informazione disorientato nel vedere la barbarie culturale affermarsi in sempre maggiori paesi.
L'SPD ci dice molto dei nostri "socialisti" (categoria tornata ad essere utilizzata in Movimento Democratici e Progressisti, in particolare da Enrico Rossi). Così come era stato per Zapatero, Hollande ed Obama, anche Schulz è apparso un novello rivoluzionario, al pari di Sanders e Corbyn. Non importano i contenuti, l'importante è una narrazione in cui il rosso "torna di moda", con qualche accento di giustizia sociale e sfumature di redistribuzione delle ricchezze. Al centro del dibattito deve essere posto il lavoro, ma non il modello di produzione ed il tipo di economia.
Anche la Linke parla della sinistra italiana, suo malgrado e indipendentemente dalla sua volontà. La formazione tedesca esprime oggi la presidenza della Sinistra Europea e ricerca in modo significativo (con un forte interesse da parte di Tsipras) accordi con il PSE. L'accusa "da sinistra" mossa all'SPD è di non accettare un'alleanza rossa. Nel frattempo in Spagna qualcosa si muove, mentre in Portogallo prosegue un esperimento ignorato da troppi e per questo sorprendentemente privo di critiche da parte di una sinistra italiana sempre pronta a regalare patenti di tradimento, o assegnare fiaccole della salvezza.
Dalle elezioni tedesche può essere tratta una conferma anche per chi ritiene che oggi balbetti un progetto europeista, interrogandosi su come sopravvivere a contraddizioni che non riesce a sanare (lo scontro tra Draghi e alcuni ministeri di Berlino meriterebbe di essere approfondito), mentre le alternative suono vuote di progettualità, sia a sinistra (in fondo interessata a ricucire con la socialdemocrazia dove si pone il problema del governo) che a destra (i sovranisti sono certi di non avere speranze e in fondo va bene così, fino a un decennio fa non avevano praticamente nemmeno diritto di parola).
Sgombriamo anzitutto il campo da una leggenda metropolitana, ovvero il presunto ingresso della destra radicale nel Parlamento tedesco per la prima volta dopo il 1945. Formazioni di estrema destra e apertamente composte da “post”-nazisti ottennero seggi nel 1949, 1953, 1957. Cosa ancor più importante, laddove si guardi alle politiche e non alle sigle, il democristiano Adenauer condusse una politica revanscista denunziando gli accordi di Potsdam, mentre reduci del Terzo Reich, civili e militari, sedevano nelle istituzioni di Bonn.
Detto questo, il voto pare disegnare ancora una volta due Germanie lungo la ex cortina di ferro, ma la differenza è solo nei toni: l’aumento di Linke e AfD all’Est viene recuperato dagli altri partiti ad Ovest: in entrambe le zone destre e sinistre replicano il loro aggregato nazionale di 56% e 39%. Lo stesso risultato di AfD pare dovuto assai poco a motivi economici – gli elettori avrebbero altrimenti premiato la Linke o lo stesso Schulz che ha impostato la campagna sulla giustizia sociale – e molto al razzismo. I soli collegi in cui AfD è la prima lista sono nell’estremo sud-est della Sassonia, incuneati tra Polonia e Cechia del cui clima xenofobo paiono risentire.
Di certo l’asse politico tedesco si è spostato a destra: a destra hanno perduto consensi la CDU (verso FDP e AfD) e la Linke (verso AfD), mentre i socialdemocratici hanno sofferto verso entrambi i lidi (Linke, Grünen, FDP e AfD in misure simili). A mobilitarsi chiaramente sono stati anche gli ex astenuti: si stima che 1,2 milioni di essi abbiano votato per l’estrema destra, un flusso secondo solo a quello CDU-FDP (1,36 milioni).
La SPD, in coerenza con dieci anni di sbandamento, ha reagito d’impulso dichiarando la morte della Grosse Koalition per “non lasciare l’opposizione alla AfD” (la tesi che fu ed è di Bersani, con più successo per Grillo e Salvini che per lui). E tuttavia l’87,4% dei votanti – sette su otto – ha rifiutato l’estrema destra. Chiamandosi fuori dalla maggioranza i socialdemocratici lasciano la cancelliera sotto il ricatto dei falchi liberali e bavaresi, con ricadute sulla politica monetaria europea non troppo difficili da immaginare. Accettando di sedere al tavolo, invece, potrebbero reclamare un governo di unità nazionale che isoli la AfD e ponga le basi per l’unione della sinistra, magari rilanciando tramite la richiesta di una Assemblea Costituente, attesa dal 1990.
Le larghe intese, lungi dall’essere demonizzate, devono dunque essere estese, perché solo un blocco popolare unitario è in grado di contendere i ceti medi e popolari all’integrazione nell’unica alternativa: il blocco reazionario.
Alla fine lo stallo che si paventava si è effettivamente prodotto. In una tornata elettorale che ha visto i pronostici della vigilia sostanzialmente rispettati, Angela Merkel rimarrà con ogni probabilità cancelliera ma avrà grosse difficoltà a formare una coalizione di governo. La soluzione più logica sarebbe stata quella di riproporre la grande coalizione con l’SPD di Schulz che però, dopo aver rimediato una batosta terrificante, non è disposto a perdere ulteriori consensi e legittimità per qualche poltrona. L’ipotesi “Giamaica” (CDU+FDP+Verdi) è l’alternativa più tangibile anche se pare già molto forzata. Il problema non è tanto la lontananza che separa i liberali o i verdi dalla Merkel, distanza che non pare incolmabile, ma proprio fra i due possibili alleati minori della Merkel: da una parte l’FDP di Lindner ha un profilo nettamente anti-immigrazione e professa un'Europa dell’austerity e a due velocità, dall’altra i verdi che su questi aspetti hanno posizioni decisamente diverse e quasi opposte. Con Merkel che ha promesso una stretta sull’immigrazione da una parte e una apertura sul versante della fine del regime di austerità in Europa, i margini per un accordo a tre sono veramente risicati.
Sebbene siano state elezioni per certi versi dalla portata storica, quelle tedesche sono l’ennesima dimostrazione della presenza di alcune dinamiche politiche in atto in Europa già da diversi anni. Da una parte la crisi della socialdemocrazia tedesca sembra ormai cronico-degenerativa e segue quella di Grecia, Spagna, Francia. Proprio come in questi paesi, l’SPD non ha saputo presentarsi come credibile proposta politica per risolvere i problemi concreti dei meno abbienti e ha finito per diventare la brutta copia della CDU di Merkel. Dall’altra si assiste alla crescita di forze politiche di estrema destra dal carattere spiccatamente xenofobo. L’AFD ha un carattere peculiare (un confuso programma che unisce il peggio del neoliberismo col peggio del nazionalismo) ma è chiaramente in sintonia con il FN francese e la Lega italiana (per non parlare degli omologhi in Austria, Polonia, ecc…).
La sinistra arranca e non può far altro che rimanere marginale e settaria. Gli appelli all’unità dei “democratici” contro il pericolo dei nuovi fascismi non può essere colta da forze politiche come la Linke: sono le politiche neoliberiste ad aver generato le condizioni per il malcontento che nutre la destra xenofoba, cooperare per attuarle non farebbe altro che alimentare ancora di più i sentimenti fascistoidi che pervadono le nostre società. Per questo fa bene la Linke a tenersi fuori da qualsiasi coalizione di governo che con la scusa di ergersi come baluardo contro il fascismo, lavora ogni giorno per produrre quelle politiche che lo alimentano.
Immagine liberamente tratta www.lettera43.it
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