Le differenze tra l'una e l'altra disciplina sono in alcuni casi eclatanti, basti pensare al confronto tra il calcio ed il rugby, alle ordinanze sindacali, per fare un esempio, che vietano la vendita di alcolici nelle vicinanze di uno stadio dove si gioca a pallone ed alla birra che si distribuisce invece liberamente sugli spalti tra chi assiste ad una partita del sei nazioni. Una diversità di “trattamento” che evidenzia una natura profonda del gioco del calcio o del rugby che si riversa sulla qualità e sulla espressione del fenomeno di massa delle tifoserie.
Riflessioni inevitabilmente confinanti con la psicologia di massa e con i processi di emulazione sociale che hanno tanta parte e tanta forza nella diffusione di modelli comportamentali, un tema di riflessione che non sarebbe certamente estraneo a chi si pone l'obbiettivo di trasformare la società partendo dal basso influendo sulla costruzione di sensi comuni spesso abbandonati esclusivamente alla logica del mercato e devastati dai conflitti orizzontali.
Il fenomeno del rugby saltato recentemente alla ribalta per la sua peculiarità ma anche spinto dai primi successi della nazionale italiana e meriterebbe riflessioni un po' più approfondite di quelle sviluppate dalla ordinaria cronaca sportiva. Ma perchè il rugby rappresenta pure nell'asprezza del contatto fisico non la metafora della guerra, ma quella dell’incontro? Perché rappresenta una metafora positiva dello sforzo collettivo per il raggiungimento dell’obiettivo comune ed allo stesso tempo dell’impegno al rispetto reciproco tra i partecipanti ed i contendenti? La risposta è naturalmente complessa e sta nella natura del gioco e nella evoluzione del sistema di regole che lo governano dal giorno in cui nella piccola cittadina di Rugby il giocatore di una squadra di calcio che stava subendo una pesante sconfitta, senza riuscire a segnare nemmeno il gol della bandiera, tra le ovazioni del pubblico, prese il pallone con le mani portandolo in tuffo nella rete avversaria. Giocare in questo nuovo modo richiese fin dall’inizio un patto di reciproco rispetto di regole condivise che garantisse la continuità del gioco ed il rispetto dell’incolumità dei partecipanti.
Ma altri due elementi divenuti centrali nella conquista materiale della meta si sono fissati in specifici gesti tecnici costituendo il patrimonio fondamentale di un giocatore di rugby, questi sono il mettere la palla a disposizione del compagno nel momento in cui si viene placcati ed il giocare il sostegno da parte dei compagni che non hanno il possesso palla. Credo che non possa sfuggire a nessuno come ciò alluda inevitabilmente ad una idea di collaborazione allo sforzo comune: pensare non solo a se stessi, ma soprattutto a chi viene dietro di te ed allo stesso tempo essere pronti a sostituirsi allo sforzo di un tuo compagno che è più avanti.
Per questo il rugby, sport di squadra, di lotta e di situazione, ha contenuti che possono essere assimilati a quelli della politica, non a quella fatta di gesti individuali, ma a quella dello sforzo collettivo, insomma ad una politica buona mirata alla soddisfazione non di desideri individuali, ma di bisogni sociali. Il paragone ci offre spunti che ci possono riguardare più da vicino come formazioni di sinistra. La domanda se siamo stati o no capaci di metterci a disposizione e di giocare il sostegno nella lotta politica, se siamo stati capaci di lottare e di soffrire, di “leggere” la partita, di interpretare le condizioni del campo, di mantenere la necessaria lucidità senza abbandonarsi alla rissa fine a se stessa, che spesso non ci poniamo e che la passione sportiva per il rugby può aiutarci a formulare.