Di Luca Onesti
Fuga o ricerca di innovazione? Sguardi multipli sugli italiani a Londra.
Si parla di 500 mila in una città da 8 milioni e mezzo di abitanti, ma i numeri sono solo approssimativi. Se gli iscritti all’Aire, il registro degli italiani residenti all’estero, ne conta 85 mila a Londra e 220 mila nel Regno Unito, il numero di italiani che vi risiede di fatto, senza iscrizione, è molto più alto. E in crescita continua. Secondo l’Office for National statistics lo scorso anno si sono registrati 44 mila nuovi arrivi, il 66% in più rispetto all’anno predente. Ed è un fenomeno che riguarda anche altri paesi in difficoltà economica dell’Europa del sud, Italia, Spagna, Portogallo e Grecia innanzitutto, ma anche la Francia.
Londra però, rispetto ad altre capitali europee, dove pure c’è una crescita degli arrivi italiani, esercita un’attrazione maggiore. L’apprendimento dell’inglese è uno dei motivi principali: anche solo un corso estivo di alcune settimane può far scattare in un giovane la voglia di fermarsi, cercare lavoro, reinventarsi una vita a Londra. E poi ci sono i programmi di volontariato europeo, il programmi di scambi di studio come l’Erasmus e tutte le sue varianti, i programmi di praticantato post laurea, come il Leonardo, ma non solo. Molti italiani scelgono di integrare il proprio percorso di studi a Londra, con corsi di laurea, master e dottorati. La crisi delle università italiane, che stanno conoscendo un calo delle iscrizioni negli ultimi anni, favorisce la percezione, tra studenti e genitori, che ad esempio un master nel Regno Unito sia meglio spendibile in un mercato del lavoro che si fa sempre più difficile, e che ormai ha creato in Italia un blocco in entrata, vista la enorme disoccupazione giovanile. Ma la prospettiva, terminati gli studi, spesso è quella di rimanere all’estero e non tornare in Italia, dove quegli studi non verranno valorizzati appieno.
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