Pubblichiamo qui di seguito uno scambio avvenuto tra Mauro Lenzi e Paolo Favilli sulle colonne de Il manifesto convinti che possa essere da stimolo per una riflessione più generale.
L’articolo di venerdì 21 ottobre di Paolo Favilli pubblicato sul manifesto (La sinistra e l'inedita questione sociale dei nostri tempi), purtroppo alla fine, introduce la necessità di un approccio al dibattito che consideri che “Oggi la ‘questione sociale’ si manifesta anche con tratti che “...nella…” storia non sono mai stati presenti. La nostra comprensione di questo nuovo (sottolineatura mia) è possibile solo se ragioniamo in termini di fasi di accumulazione di capitale, in particolare se ragioniamo sui caratteri dell’odierna fase di ‘accumulazione flessibile’. Qui stanno le radici analitiche di cui abbiamo bisogno.”
Mi pare un approccio promettente. Purtroppo, ripeto, arriva alla fine dell’articolo e la necessità di sintesi mi ha penalizzato in una comprensione più ampia: che si intende per "accumulazione flessibile"? Ho la sensazione che Favilli dia un significato importante a questo termine, addirittura dirimente. Probabilmente nella pubblicistica il concetto è da tempo e ripetutamente chiarito e esplicitato ma, per mia ignoranza, non ne sono edotto. È possibile da parte di Favilli fare un altro pezzo di approfondimento in grado, secondo me, di aprire ulteriori spazi al dibattito? Appunto, altro rispetto ai ‘balletti’ giustamente redarguiti di Favilli.
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Caro Lenzi,
hai perfettamente ragione, la necessità di sintesi ha portato a considerare scontate questioni che non lo sono per niente.
L'espressione "accumulazione flessibile" è del geografo inglese David Harvey, uno dei più importanti studiosi delle tendenze odierne del capitale. La fase indicata con quell'espressione non si contrappone alle tendenza generali di accumulazione del plusvalore, ma le modella a seconda delle forme che il contesto rende possibili. In un certo senso il capitalismo di ogni fase è sempre un "nuovo" capitalismo.
Le possibilità odierne di comprimere ed interconnettere a velocità crescente e sempre più profondamente le dimensioni dello spazio e del tempo, aprono ad un'ampia gamma di forme di flessibilità. Quelle più evidenti riguardano il mercato del lavoro che assume una struttura centrale sempre più ristretta di occupazione stabile e, via via che ci si allontana dal centro, sempre più ampie cerchie di lavori temporanei, subappaltati in una catena lunghissima di delocalizzazioni. Questa struttura del mercato del lavoro permette di combinare modi altamente tecnologici di estrazione del plusvalore e modi antichi. Infatti nella sfera centrale del mercato, dove è collocata una forza lavoro estremamente specializzata e con una capacità di comprensione e gestione delle nuove modalità tecnologiche e di orientamento al mercato, l'acquisizione di plusvalore non è direttamente legata alla durata della giornata lavorativa. Via via che si scende nella catena della flessibilità di assiste alla diffusa rinascita di sistemi di lavoro in cui è possibile estendere l'orario della giornata lavorativa e forme di sfruttamento sul modello dell'accumulazione originaria.
Inoltre l'abnorme finanziarizzazione dell'economia permette non solo un'accumulazione che non passa attraverso la produzione di merci, e quindi di lavoro, ma è anche un'ulteriore, ed assai importante, spinta alla velocizzazione dei tempi di tutte le forme di flessibilità.
Ecco, a mio parere, questo insieme problematico deve essere al centro tanto della riflessione che dell'iniziativa politica della nostra sinistra. Non è un compito facile, ma al di fuori di questo percorso, che non avrà tempi brevi, si perde davvero il senso della politica per chi intende davvero essere l'erede della storia del movimento operaio.
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