In vista del conflitto per Stalin imminente, si servì dell’oramai rodato sistema delle deportazioni per una politica strategica per il controllo dei confini. Vi furono tre fattori che determinarono la paura del governo bolscevico e di Stalin nei confronti delle nazionalità non russe: lo scontro con i contadini, l’importanza crescente della categorizzazione etnica in Unione Sovietica con l’emergere del carattere propriamente russo e l’ascesa di Hitler in Germania nel 1933, a cui seguì il patto anti-Comintern tra Germania e Giappone nel 1934. Fu però nel 1936 il passaggio fondamentale, con la promulgazione della nuova Costituzione voluta da Stalin che definì l’Unione Sovietica una società senza classi, dal momento quindi che non esisteva più il conflitto sociale la discriminante nazionale divenne il metro di giudizio rispetto alla fedeltà nei confronti dello stato. Per la prima volta in Europa il trasferimento forzato di gruppi etnici e della popolazione non fu contemporaneo o direttamente conseguente a un fattore bellico, ma si svolse e cominciò in tempo di pace come misura preventiva in vista di un possibile conflitto. Tra il 1937 e il 1938 oltre 250.000 persone di nazionalità tedesca, polacca, lettone e giapponese vennero deportate e ricollocate, se non direttamente internate in villaggi speciali.
La xenofobia a seguito dell’imminente conflitto e la sua trasformazione in pulizia etnica culminò nel caso della popolazione coreana residente in territorio sovietico vicino alla frontiera con la Corea. Fu il caso di un intero gruppo etnico che venne completamente deportato e ricollocato. La presenza della minoranza coreana su suolo sovietico era un fatto recente, risaliva alla seconda metà dell’Ottocento e era aumentata in corrispondenza dell’invasione giapponese della Corea nel 1910, quando migliaia di profughi coreani abbandonarono la loro nazione occupata attraverso la frontiera russa. Secondo il censimento nazionale del 1926 circa 169.000 coreani abitavano nelle regioni dell’estremo oriente sovietico, di cui due terzi erano sprovvisti di cittadinanza sovietica. La frontiera fino agli anni Trenta era poco controllata e circa 30.000 coreani l’anno l’attraversavano illegalmente. Il governo sovietico attraverso il Commissariato per l’agricoltura nel 1928 inviò gruppi di risicoltori in Kazakistan per importare la coltivazione di riso, per sedare le rivolte contadine in seguito alla richiesta di grano dopo le requisizioni. Erano quindi giudicati dal governo sovietico come una popolazione leale e fidata e non vi erano state tensioni con altri gruppi etnici. La situazione dei coreani sovietici mutò radicalmente con il cambiamento della situazione internazionale e con la minaccia a oriente del Giappone, che si preparava a essere un alleato prezioso della Germania. Inoltre nel 1936 il governo giapponese pose le basi per un vasto programma di colonizzazione agraria della Manciuria, arrivando a quasi 300.000 coloni giapponesi e creò lo stato direttamente dipendente dal Giappone del Manchukoko. Il rafforzamento demografico e militare giapponese nelle regioni confinanti con l’Unione Sovietica fecero crescere le apprensioni di Stalin e il sospetto nei confronti del gruppo nazionale coreano.
Il 21 agosto del 1937 Stalin firmò un patto di appoggio con la Cina nazionalista in ottica antigiapponese, che coinvolgeva l’impegno di consulenza militare e materiale bellico, più la fornitura al governo cinese di 135 bombardieri e circa 200 piloti. Lo stesso giorno Stalin firmò un ordine di deportazione portatogli da Molotov della popolazione coreana residente vicino alla Manciuria in Kazakistan e in Uzbekistan, al fine di prevenire lo spionaggio giapponese. Il 28 settembre Molotov firmò un secondo ordine che allargava la misura preventiva all’intera popolazione coreana residente in Unione Sovietica e il governo bolscevico invitò i coreani che volessero tornare in patria a farlo frettolosamente, cosa che circa 2000 famiglie fecero. Vennero costituiti quasi duecento convogli ferroviari dalle regioni orientali sovietiche verso l’Asia Centrale per di circa 175.000 coreani, che subirono le condizioni terribili del viaggio e arrivarono in Kazakistan e Uzbekistan in villaggi costruiti appositamente per loro in condizioni climatiche e ambientali durissime. La vocazione totalitaria di Stalin mai portata a termine prevedeva le operazioni di massa e le grandi requisizioni per la costruzione della potenza economica e militare sovietica. Il tardo emergere all’interno della retorica sovietica del carattere nazionalista russo ripreso durante la guerra patriottica non fa delle operazioni etniche staliniane operazioni finalizzate allo sterminio razziale, ne all’eliminazione fisica vera e propria anche se le condizioni durissime dei trasporti e i luoghi inospitali previsti come meta d’arrivo spesso portavano alla morte di interi gruppi nazionali considerati pericolosi per lo stato sovietico deciso ad allontanarli. Rispetto alla decisa strategia etnica di sterminio nazista, attraverso la rete di campi di concentramento e sterminio, Stalin mostra spesso incertezza e rivela come le operazioni etniche siano seguite a impreviste rivolte in seguito alla collettivizzazione e requisizione del grano.
Le operazioni di pulizia etnica in prossimità dello scoppio della seconda guerra mondiale furono eseguite per la sua paura di perdere la guerra contro la Germania e la sua incertezza sulla preparazione dell’Unione Sovietica al conflitto, in termini di industrializzazione e risorse. L’esigenza della costruzione del mito collettivo della guerra patriottica portò all’esaltare la nazionalità russa come guida delle repubbliche sovietiche, giustificando così le prime operazioni etniche e dividendo in due categorie, fedeli e nemiche, i gruppi nazionali della federazione. L’entrata in guerra della Russia salvò probabilmente il regime staliniano dall’esplodere di conflitti interni sociali e etnici e la sua vittoria ne affermò la potenza economica e militare al termine del conflitto, designando come dominante la nazione russa all’interno della federazione come dimostra il proseguo delle operazioni etniche in Cecenia e nel resto dell’Asia Centrale sino alla morte di Stalin nel 1954. Centrale in questo processo l’Ucraina, nella quale venne sperimentata la politica nazionale sovietica della indigenizzazione, quando gran parte della popolazione si considerava russa e legata alla lingua e alla culture russe. Questo doppio binario di proteste, della popolazione ucraina orientale in rifiuto alla korenizatsiia e della popolazione cosacca e ucraina contadina contro la collettivizzazione, insieme alle resistenze all’affermarsi di questo programma delle nazionalità dai burocrati russi ai vertici del Partito, Chruščёv su tutti, che non informarono mai puntualmente Stalin delle reali condizioni del paese e dell’effettiva realizzazione di questa operazione, come si può vedere dalla fitta corrispondenza tra Partito comunista ucraino e Comitato Centrale, portarono Stalin a un brusco cambio di strategia proprio in questa repubblica. Con la creazione di un grande distretto nazionale russo nell’Ucraina orientale, regione considerata più “fedele” della repubblica, le cui conseguenze si rispecchiano ancora oggi. Durante la guerra, proprio la popolazione cosacca e parte della popolazione dell’Ucraina occidentale, secondo statistiche studiate, furono attivi collaborazionisti dell’occupazione tedesca. Una frattura mai risanata, che si è accentuata con la fine della guerra e con il proseguimento delle operazioni speciali anche sotto la presidenza di Nikita Chruščёv. E che spiegano quel grande spirito di patriottismo filorusso delle regioni del Donbass, considerate criminali e ribelli dal resto d’Europa, che resistono a quel governo ucraino figlio dello spirito antirusso e antisovietico che tradizionalmente in questa terra è sempre stato sulle posizioni opposte.