Che fosse in un ghetto dell’Europa orientale o in una qualche multietnica città occidentale dopo l’abolizione dei ghetti, il principale elemento di unione era il ritorno in Palestina. A questo fine nacque in Svizzera il Movimento sionista internazionale di Theodore Herzl, che grazie ai fitti rapporti con il governo prussiano e britannico portò alla nascita delle prime colonie. Per la prima volta nella storia dai tempi della caduta di Gerusalemme del 70 d.C., insediamenti ebraici che si definivano tali civili e che non fossero colonie o scuole religiose vennero fondati da ebrei russi, tedeschi, polacchi ecc. L’epoca del kibbutz e il suo modo di concepire l’esperienza di vita ebraica furono il primo modello di colonizzazione della Palestina, in contrapposizione alle scuole religiose rabbiniche.
L’esplodere dei nazionalismi in Europa, l’Olocausto e un nuovo violento antisemitismo accelerarono il processo di fondazione di uno stato ebraico in Terrasanta. Un processo che sia il movimento sionista, inteso come movimento nazionale laico e politico, sia la retorica religiosa legata alla tradizione messianica, vedevano nella sua conclusione una terra per il popolo ebreo riunito e in pace con i propri vicini. Un concetto quest’ultimo espresso chiaramente sia nella Bibbia che nella tradizione talmudica, oltre che la precisa volontà di Theodore Herzl e degli altri leader sionisti nel loro progetto di fondazione di Israele. Dalla violazione del Trattato del Libro Bianco e dalla violazione della scellerata dichiarazione di Balfour, questo intento è stato tradito prima dalle grandi potenze mondiali.
In seguito, con la spaccatura del movimento sionista e la decisione politica del primo presidente israeliano David Ben Gurion di ricorrere alla via militare per l’indipendenza insieme a un patto con la fazione più religiosa, anche gli israeliani tradirono questo principio. Dalla Guerra dei Sei Giorni in poi, Israele ha tradito ogni proposito di pace con i vicini stati arabi nati dalla decolonizzazione e ha tradito anche la sua ricercata identità ebraica. Un’esperienza di vita ebraica totale infatti dovrebbe essere un’esperienza pacifica non solo interna alla propria comunità, ma anche con i popoli vicini. Togliere la vita per un ebreo è un atto estremo e orribile. Così lo è opprimere un altro popolo: le condizioni del popolo palestinese sono disperate, il più grande popolo di profughi del mondo da decenni, oramai diviso in una frattura tra Cisgiordania e Gaza, ostaggio della violenza.
Israele è ben lontano dalla promessa che ha animato per secoli il particolare, quanto unico nella storia, immaginario collettivo del popolo ebreo. Non a caso le comunità ebraiche nel mondo rimangono ancora molto numerose. Non solo per la frammentata identità dell’ebraismo e del suo rapporto con la dimensione storica, ma per le condizioni di insicurezza in cui vive lo stesso popolo israeliano. I vari quanto illusori momenti di pace dall’assassinio di Rabin, unico leader israeliano capace di pensare a una politica più lungimirante, sono forse definitivamente spariti con il massacro di ieri davanti all’ennesimo gesto provocatorio del presidente Benjamin Netanyahu, con l’apertura del consolato statunitense a Gerusalemme.
Ancora una volta quella terra e i suoi popoli sono vittima di una intricata politica internazionale più ampia, che coinvolge le schermaglie tra Iran e Arabia Saudita, specchio di un mondo arabo diviso e conflittuale. In questo Benjamin Netanyahu e il governo israeliano si sono dimostrati uguali ai tanti tiranni (o presunti tali) detronizzati in Medio Oriente in questi anni. Non c’è alcuna differenza tra il massacro di ieri e i numerosi episodi di violenza e repressione a Gaza rispetto all’uso del gas in Siria. Si è emesso in passato condanne su sei dossier d’intelligence falsi, mentre a Gerusalemme la terra era disseminata di cadaveri e sporca di sangue. Benjamin Netanyahu e il suo governo, nel loro uso pubblico di retorica religiosa e nazionalista, nel loro simbolismo, non sono dissimili dai terroristi dell’Isis e dalla restaurazione teocratica ottomana in Turchia.
Quello di ieri è solo l’ennesimo episodio di terrorismo di stato ai danni di una parte della sua popolazione, oltre che l’ennesimo tradimento ai valori fondativi di Israele e di quell’ebraismo che si vuole tenacemente legare all’identità dello stato. La Terra promessa rimane un orizzonte lontano, così come la speranza di una pace in quel piccolo angolo di mondo. A cui tutti, da troppo tempo, presi a interessi maggiori ed egoisti, guardiamo con uno sguardo indifferente.
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