Ogni settimana - circa - recensiamo per voi una novità cinematografica uscita nelle sale. Ogni tanto ci permettiamo di ricordare qualche pellicola del passato o altri film a cui teniamo particolarmente.
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Quanto è difficile scegliere bene
Una settimana molto ricca di titoli e generi, ma la qualità non è eccelsa. Ho analizzato sia l'atteso cinecomic di casa Marvel, "Doctor Strange", il secondo film di Pif, la nuova opera dei fratelli Dardenne presentata a Cannes 2016. Inoltre c'è anche la nuova pellicola di Gavin O'Connor ("Warrior") con protagonista Ben Affleck. Questi quattro film hanno in comune un tema: la scelta. È sempre complicato scegliere, oggi più che mai. Incluso il sottoscritto. Una delle paure più o meno nascoste dell'uomo è proprio questa. Doctor Strange deve lottare con il suo ego, Pif vuole sposarsi, ma sceglie di arruolarsi per chiedere la mano della "sua" Flora, la dottoressa Jenny nel film dei Dardenne sceglie di non aprire le porte a una donna che poi viene uccisa, Ben Affleck ha fatto scelte pericolose e deve fare i conti con il suo passato. Ecco le recensioni in dettaglio:
DOCTOR STRANGE ***
(USA 2016)
di Scott DERRICKSON
con Benedict CUMBERBATCH, Mads MIKKELSEN, Tilda SWINTON, Rachel MC ADAMS, Chiwetel EJIFOR
Durata: 1h e 55 minuti
Distribuzione: Walt Disney Pictures
Uscita: 26 Ottobre 2015
Quest'anno con "Captain America Civil War" è iniziata la Fase 3 dell'Universo Marvel. Ed ecco che arriva al cinema un personaggio dei fumetti secondario, ma innovativo: Doctor Strange, con lui la Marvel ha esplorato le arti mistiche, la meditazione, le arti marziali, il dominio della mente sul corpo. Materie di chiara influenza orientale. Fu una novità per i fumetti scritti negli anni Sessanta da Stan Lee, Steve Ditko e Jack Kirby. Bisogna dire che il film non è innovativo, ma è sicuramente migliore rispetto agli Avengers e ai capitoli cinematografici dei blasonati Iron Man, Hulk e Thor. Veniamo alla storia.
Doctor Strange (Benedict Cumberbatch) è un neurochirurgo di fama mondiale. È arrogante, ostinato ed egocentrico, avido e amante del lusso nello stile di Tony Stark. Anche l'ex Christine (Rachel Mc Adams) l'ha imparato sulla sua pelle. Un giorno una telefonata, durante la guida, gli è fatale. Un incidente spaventoso. Si salva, ma perde l'uso delle mani. Non può più fare il suo lavoro. La medicina tradizionale non lo può curare. Allora compie una scelta stile Bruce Wayne di "Batman Begins": su consiglio di Pangborn (Benjamin Bratt), decide di andare in Nepal alla ricerca della guarigione. Arrivato sul posto, conoscerà un nuovo mondo grazie alla guida dell'Antico (la solita trasformista ed androgina Tilda Swinton). A questo punto ecco una scelta di "matrixiana" memoria: pillola rossa o pillola blu? Tornare alla realtà o diventare il difensore della Terra contro minacce oscure? Una cosa non da poco, visto che dovrà superare la sua zona di confort, le sue paure e soprattutto abbandonare il suo ego. Cumberbatch aveva già fatto una cosa simile nei panni di Turing in "The Imitation Game": abbandonare i numeri per lanciarsi in un'insidiosa sfida che lo portò a sconvolgere l'equilibrio della Seconda Guerra Mondiale. Doctor Strange scopre che l'Antico è capo di una setta che ha il compito di difendere la Terra dal male. Il problema è che un ex discepolo, Kaecilius (Mads Mikkelsen de "Il sospetto" e "Casino Royale"), ha tradito il suo maestro e sta mettendo a soqquadro la società.
Scott Derrickson si è preso una bella responsabilità con questo film: unire il film d'autore, l'ironia di casa Marvel (stile Guardiani della Galassia) e lo sconvolgimento spazio – temporale tipico del cinema di Christopher Nolan (e di "Matrix"). Lo spettacolo regge bene grazie a un cast discretamente amalgamato dove spiccano la versatilità di Tilda Swinton e il talento di Benedict Cumberbatch. Anche se i personaggi di Rachel Mc Adams, Chiwetel Ejifor e il villain di Mads Mikkelsen non sono eccelsi a livello di scrittura. In ogni caso è abbastanza divertente fino in fondo. Nei titoli di coda poi la Marvel sa sempre sorprendere (attenzione a chi compare nella solita scena post credits). Da un punto di vista visivo, è uno spettacolo, grazie agli insegnamenti di "Matrix" e di "Inception" con picchi di "Batman Begins". Si vedono città sottosopra, edifici capovolti come nel già citato film di Nolan, con questi personaggi che se le danno dall'inizio alla fine. Il resto è abbastanza usuale, con un'assoluta certezza: chi ha fatto questo film ha fatto un uso pesante di droghe. Senza dubbio. Quel conta però alla fine è il messaggio: Strange, di nome e di fatto, non è un angelo con i suoi pregi e i suoi difetti. L'importante è la scelta che fa: quella di diventare migliore abbandonando il suo super ego per difendere un bene più grande. Se qualcun altro abbandonasse il suo individualismo, forse anche la nostra società sarebbe migliore.
TOP Il cast ben amalgamato (Cumberbatch e la Swinton soprattutto), gli effetti visivi, gli omaggi a Christopher Nolan (Batman Begins, Inception) e a "Matrix", il messaggio.
FLOP La serialità di casa Marvel potrebbe portare alla saturazione del genere, l'unione di temi importanti con l'ironia stile "Guardiani della galassia" non sempre giova al film, la scrittura dei personaggi di Rachel Mc Adams, Chiwetel Ejifor e del villain di Mads Mikkelsen non è particolarmente esaltante.
IN GUERRA PER AMORE **1/2
(Italia 2016)
di Pierfrancesco DILIBERTO in arte PIF
con Miriam LEONE, PIF, Andrea DI STEFANO
Durata: 1h e 39 minuti
Distribuzione: 01 Distribution
Uscita: 27 Ottobre 2015
Anno 2013. Il giovane siciliano Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, debuttava al cinema con "La mafia uccide solo d'estate". Un film ben fatto, attuale, necessario per l'Italia contemporanea che mescolava tono da commedia con immagini provenienti dall'archivio storico della Rai. Una storia di formazione e d'amore sullo sfondo dei fatti di sangue che imperversarono nella Sicilia dagli anni Settanta ai Novanta. L'opera seconda di Pif è una sorta di prequel di quel film. Ancora una volta il protagonista è Arturo Giammarresi (interpretato dallo stesso regista), che è una sorta di nemesi come Michele Apicella lo era per Nanni Moretti. Questa volta siamo catapultati nel 1943. Arturo è emigrato in America e lavora nel ristorante di Alfredo. Qui si innamora di Flora (Miriam Leone che "prende il ruolo" a Cristiana Capotondi). Vorrebbero sposarsi, ma c'è un problema: lei è la nipote di Alfredo ed è stata promessa in sposa a Carmelo, il cui padre è amico di Lucky Luciano. Per "ottenere la mano" deve andare dal padre di lei, a Crisafullo, nella natia Sicilia. Peccato che lì stava imperversando la Seconda Guerra Mondiale. Gli alleati sbarcarono nell'Isola il 10 luglio di quell'anno. Arturo allora sfrutta abilmente un'occasione: si arruola nell'esercito americano perchè non ha un soldo. Va in guerra per amore. Il presidente Franklyn Delano Roosvelt disse che gli americani avevano "il compito di portare democrazia, prosperità e libertà". Ma così non fu.
Ovviamente la storia d'amore è un pretesto narrativo per raccontare un fatto che pochi sanno: per favorire lo sbarco, i vertici dell’esercito americano si allearono con la mafia e con Lucky Luciano. In cambio la malavita ottenne ruoli chiave nelle amministrazioni locali. In questo modo la mafia decideva "chi campa e chi muore". Ma c'è dell'altro: quale sarà stato il Partito italiano più strettamente legato alla malavita? Ovviamente era la Democrazia Cristiana che gli americani aiutarono per fronteggiare l'avvento del Partito Comunista. Et voilà.
Pif ancora una volta dimostra di saperci fare mescolando fiaba e documentario (unendo "La vita è bella" con "Forrest Gump"), la finzione e il realismo analizzando alcuni mali che affliggono l'Italia contemporanea. Un esempio? Andare in galera per un reato minore, mentre i veri criminali rimanevano impuniti. Non è un caso che il film sia dedicato al maestro Ettore Scola, uno degli ultimi esponenti di grido del filone della "commedia all'italiana". Il pregio di Pif, tuttavia, è anche il suo difetto: non saper scegliere il tono. Ha ragione il critico Francesco Alò di "Bad Taste": questa sua voce da finto scemo del villaggio, come negli spot della Tim, fa venire i brividi (in negativo). La prima parte del film è decisamente insopportabile. È zuccherosa, melensa, non fa affatto ridere e poi... cliché a go-go. Nella seconda parte poi il film migliora e, da un punto di vista socio-politico, ha il suo perché. In ogni caso non bisogna considerare Pif un genio, come successe con Benigni dopo l'Oscar. Gli effetti si sono visti. Da allora il regista toscano si è fermato. Pif è molto abile, è un "cocchetto" (cit. di Francesco Alò) di Rai Cinema e del potente produttore Wildside. Il capo di quest'ultima società è Mario Gianani, marito del ministro Marianna Madia. Potete capire perchè questo film ha ottenuto finanziamenti a pioggia (budget raddoppiato rispetto al primo film e la cosa vi avverte nella ricostruzione degli ambienti a Cinecittà). Pif è un renziano della prima ora, ha partecipato a tutte le Leopolde. Sia del Renzi rottamatore sia di quello di Governo (vedendo il film quando si parla inglese, si capisce l'influenza). Tutto ciò lo rende piuttosto ruffiano e ipocrita: come fai a fare una critica ai costumi del Paese se poi ti adegui ai quei modelli? Oggi che Renzi governa, anche Pif è un uomo diverso. Dalle denunce del “Testimone” al film sulla mafia, si è "istituzionalizzato" al guadagno degli spot della Tim. Ken Loach, Oliver Stone, Francesco Rosi, i fratelli Dardenne (tra i tanti) sono sinceri perché nelle loro opere si schierano apertamente e appartengono a quelle posizioni. Pif invece no. E' un po' di qua e un po' di là, come il partito della "Balena Bianca". Perché la democrazia è un “pargolo che dobbiamo far crescere, aiutare, proteggere per evitare che si faccia male, perché a noi questi russi, questi comunisti mica ci piacciono…” - direbbe Don Tano Piazza nel film. Ovviamente noi italiani siamo come quel soldato semplice davanti alla Casa Bianca: in attesa di indicazioni dagli americani. Più che Houston verrebbe da dire "Washington, abbiamo un problema".
TOP L'omaggio a Ettore Scola, il personaggio di Andrea Di Stefano, i temi sollevati, il voler portare alla luce, nella seconda parte del film, una verità storica. Il fatto che l'Italia è una colonia americana è ormai sempre più certezza, anche i titoli di coda del film portano alla luce una cosa molto interessante in proposito.
FLOP L'odiosa voce narrante da (finto) scemo del villaggio di Pif, "l'ipocrisia indignata" del regista, la zuccherosa prima parte dell'opera che non decolla, la comicità non funziona, la sceneggiatura è viziata da alcuni marchi del cinepanettone (uno dei sceneggiatori è Marco Martani, che ha scritto film di Neri Parenti e Fausto Brizzi).
LA RAGAZZA SENZA NOME ***
(Francia, Belgio 2016)
di Luc e Jean Pierre DARDENNE
con Fabrizio RONGIONE, Adele HAENEL
Durata: 1h e 53 minuti
Distribuzione: BIM
Uscita: 27 Ottobre 2015
Al Festival di Cannes 2016 ancora una volta i fratelli belga Luc e Jean Pierre Dardenne hanno presentato la loro nuova opera: "La ragazza senza nome". Dopo aver affrontato il dilemma etico del lavoro in tempi di crisi nello stupendo "Due giorni, una notte" (leggi qui), questa volta sotto la lente d'ingrandimento ci sono sensi di colpa, il menefreghismo, l'individualismo della società europea ai tempi dell'euro. I Dardenne "flirtano" con il thriller. Siamo a Liegi, in Belgio. La giovane dottoressa Jenny (Adele Haenel) ha ricevuto pazienti tutto il giorno. Vuole andare a riposarsi. Improvvisamente una donna africana suona il campanello dello studio. Jenny non ne vuole sapere di rispondere, a differenza del suo tirocinante. Il problema però si ripresenta il giorno dopo: la polizia chiede di parlare con lei. La donna che aveva cercato aiuto era stata uccisa. Era una prostituta che girava per il Belgio senza passaporto. Era come il celebre elefante nella stanza: tutti la vedevano, ma nessuno la voleva vedere. I sensi di colpa riaffiorano nella mente di Jenny. "E se avessi aperto la porta, l'avrei salvata?". Un dubbio amletico. Così privatamente decide di indagare sul perché di quest'uccisione.Ed ecco che le protagoniste femminili dei film dei Dardenne (Lorna, Rosetta,ecc...) riemergono tutte quante nel corpo e nella curiosità di Jenny. Lungo il cammino la donna scoprirà la verità incontrando sulla sua strada trafficanti di uomini, migranti e tanti ignavi stile "limbo dantesco". Mancano solo vespe e mosconi a pungerli. Gente "che mai non fur vivi".
Il film sembra una metafora dell'Europa di oggi: porte chiuse, filo spinato, muri ovunque. I Dardenne invece, come già avevano fatto nel finale del precedente "Due giorni, una notte", decidono di schierarsi apertamente e dicono che non bisogna rimanere in silenzio di fronte a quello che vediamo. I muri vanno abbattuti. Dal punto di vista del messaggio il film è encomiabile. I problemi sono lo schematismo con tendenza alla ripetizione, la lentezza e la protagonista Adele Haenel. Francamente non so dire se è un problema di attrice o di sceneggiatura. C'è da dire che in "Due giorni, una notte" Marion Cotillard reggeva tutto il film sul suo corpo. Qui invece non siamo ai soliti livelli di carisma. Sicuramente i Dardenne amano il minimalismo e il realismo, però se confrontiamo quest' opera con le altre dei due fratelli, possiamo dire che quest'opera non aggiunge niente. Tuttavia il film resta da vedere, soprattutto per l'attualità dei temi portati alla luce. Per questo i Dardenne non sono secondi a nessuno.
TOP I temi etici (attualissimi) in linea con la filmografia dei Dardenne
FLOP Lo schematismo, la lentezza della narrazione. L'attrice protagonista Adele Haenel non ha il carisma per reggere il film sulle sue spalle, a differenza di Marion Cotillard in "Due giorni, una notte".
THE ACCOUNTANT **1/2
(USA 2016)
di Gavin O'CONNOR
con Ben AFFLECK, Anna KENDRICK, J.K. SIMMONS
Durata: 2h e 8 minuti
Distribuzione: Warner Bros
Uscita: 27 Ottobre 2015
Gavin O' Connor con "Warrior" ci aveva abituato male. A essere sinceri, questa sua ultima opera non è un cattivo film. Il problema che affligge la pellicola è il mettere insieme troppa carne al fuoco: l'essere geni (incompresi?), la malattia (la sindrome di Asperger, una sorta di autismo), il thriller finanziario, i drammi familiari e, perchè no, una spruzzata di romanticismo (i duetti tra Affleck e Kendrick). Troppa roba. "The accountant" è come mangiare una pizza ben cotta con tutti gli ingredienti possibili e immaginari: all'inizio è gustosa, saporita, poi piano piano prendi consapevolezza che è troppo condita, è troppo carica, poi diventa indigesta (specie se è mal lievitata). Il problema più grosso di questo film è la sceneggiatura (il "lievito"). Se Bill Dubuque voleva dimostrare che aveva idee, d'accordo ci ha colpito. Alla scuola di cinema mi hanno insegnato una cosa fondamentale: impara a fare le cose semplici. Non cercare di strafare. Evidentamente il buon Bill ("The Judge") non è della stessa parrocchia. Tanto che il regista O'Connor ci ha messo del suo infarcendo questo thriller di tutti i generi cinematografici possibili, tranne horror e fantascienza. Agli americani quest'opera è piaciuta assai. Credo invece che agli europei piacerà meno. Il perché lo capirete più avanti. Il filo conduttore tra i tanti temi e i tanti generi è uno solo: Ben Affleck. Perché il protagonista è sceneggiatore (premio Oscar con Matt Damon per "Will Hunting"), è regista (premio Oscar per "Argo") ed interprete di numerosi film (sia indipendenti sia commerciali). Tra i più importanti cito "L'amore bugiardo" di David Fincher, ma anche il Batman del nuovo Universo Dc Comics (si vocifera che stia preparando il nuovo film sull'Uomo Pipistrello, oltre alla prossima "Justice League"). Qual è il maggior difetto di Ben Affleck? Vi lascio un indizio.Anche Clint Eastwood nei film di Sergio Leone aveva due espressioni: c'era quello con il cappello e quello senza. Ben Affleck invece ha solo quell'enorme mascellone e la nota monoespressione, dietro a un'abbondante corazza muscolare. L'unico regista che lo ha capito alla perfezione (finora) è stato David Fincher nel maritino innamorato de "L'amore bugiardo". Su questo aspetto gioca molto anche O'Connor.
La storia è quella di Christian Wolff (Affleck), genio matematico affetto dalla sindrome di Asperger. È un po' un giovane "Rain Man" che ama giocare con i numeri più che con le persone. In più fin da giovane è stato costretto dal padre a un duro addestramento militare. Dalla serie siamo americani e ce ne vantiamo. Nonostante le continue vessazioni subite sin dalla giovane età per la sua diversità, da grande diventa un commercialista free lance abilissimo con i numeri e le arti marziali. Tanto che, segretamente, lavora per organizzazioni criminali pericolosissime. Mentre ha il Dipartimento del Tesoro sulle sue tracce, accetta un pericoloso lavoro di un nuovo cliente: una società di robotica. Una dei contabili, la giovane Dana Cummings (Anna Kendrick) ha scoperto che nei conti della società c'è una discrepanza di qualche milione di dollari. Mentre Dana scava, scopre che Christian è un uomo pieno di segreti. L'uomo dovrà fare i conti con il suo passato. Intanto più si avvicina alla verità e più le vittime aumentano. Ben Affleck affronta una delle prove più difficili della sua carriera svariando su tutto il fronte recitativo. Ed ecco che passa a ripercorrere quasi tutte le fasi della sua carriera. Solo che è un film di circa 2 ore. L'autismo viene trattato con troppa leggerezza, il film è marcatamente muscolare ed ammicca al ruolo dell'eroe americano. La storia è confusa, troppo lunga, condensa troppi temi (tra i tanti, non risparmia frecciate all'America delle frodi fiscali) e alla fine "la diversità prima o poi spaventa". O peggio ancora diventa normalità. Come il finale che, per chi come me ha visto molti film di genere, non si può definire un vero e proprio colpo di scena.
TOP I duetti Kendrick – Affleck, i temi del film, i combattimenti ben coreografati
FLOP Alcuni temi prettamente americani, la sceneggiatura mescola troppi ingredienti finendo per fare indigestione, la commistione dei vari generi non perfettamente riusciti, la monoespressione di Ben Affleck, il ruolo di J.K. Simmons, il colpo di scena finale.
L'Italia è... Inferno?
INFERNO ***
(USA 2016)
Regia: Ron HOWARD
Cast: Tom HANKS, Felicity JONES, Omar SY, Ben FOSTER, Irrfan KHAN
Durata: 2h e 1 minuti
Produzione: Sony Pictures
Distribuzione: Sony Pictures - Warner Bros
Uscita: 13 Ottobre 2016
Pablo Larrain: come rivoluzionare un genere
NERUDA *****
(Cile 2016)
Regia: Pablo LARRAIN
Cast: Gael GARCIA BERNAL, Alfredo CASTRO, Luis GNECCO
Durata: 1h e 47 minuti
Distribuzione: Good Films
Uscita: 13 Ottobre 2016
Quando intrattengo conversazioni sulle nuove generazioni di registi capaci di meravigliarmi, mi tocca sempre parlare di Pablo Larrain. Lo so molti di voi non sanno minimamente chi sia. Cileno, classe 1976, 6 film all'attivo (e un settimo in arrivo in Italia a febbraio 2017). Se avete letto le mie recensioni, dovreste ricordarlo. Nel suo curriculum ha solo film straordinari come “Fuga”, “Tony Manero”, “Post mortem”, “No i giorni dell'arcobaleno”, “Il Club”. Ha sempre combattuto artisticamente per far conoscere nel mondo il suo Paese, nel bene e nel male. Nelle sue storie si respira sempre una gran voglia di libertà dall'oppressore. Che sia la Chiesa, il colonialismo statunitense o il generale Pinochet non importa. La cosa interessante è che è figlio di due politici conservatori, l'ex presidente dell'Unione Democratica Indipendente Hernán Larraín e il ministro Magdalena Matte. Un figlio ingombrante (politicamente schierato a sinistra) che non risparmia frecciate alla politica, alla Chiesa e alle dittature in generale.
Finalmente, dopo il passaggio a Cannes, è arrivato in Italia il suo penultimo film “Neruda”. L'ultimo (passato dal recente Festival di Venezia) arriverà il 2 febbraio nelle nostre sale. Ovviamente sto parlando di “Jackie” che vedrà Natalie Portman nei panni della vedova Kennedy. In questo pezzo Vi parlerò di “Neruda”. Per il 2016 cinematografico, un film rivoluzionario senza se e senza ma. Sicuramente nella mia classifica di fine anno, lo troverete ai primi posti. Leggendo il titolo, si pensa subito a un biopic americano sul poeta Pablo Neruda. Larrain ha fiutato la cosa e mette lo spettatore in trappola. È un film cileno, cosa nettamente diversa dal cinema hollywoodiano. Non è una biografia epica dove il protagonista attraversa varie peripezie, diventando alla fine un santino. Il film porta avanti il contenuto tralasciando l'individuo principale. Non è un caso che il narratore non è Neruda, ma il poliziotto Oscar Peluchonneau (colui che gli dà la caccia). Riavvolgiamo il nastro.
1948. In Cile c'è la Guerra Fredda: il senatore Neruda (Luis Gnecco, una sorta di “Maigret” con il pancione) accusa il Governo di Videla (l'attore feticcio di Larrain, Alfredo Castro) di tradire gli elettori del Partito Comunista. Aveva vinto con i valori della Sinistra ed era finito per abbracciare la politica statunitense. Ricorda qualcuno. La scena iniziale sembra il Congresso del PD con Cuperlo, Bersani, Renzi e tutti gli altri che litigano. Con la differenza che nel film tutto è assai più ordinato. Anche se Larrain riserva ai comunisti dell'epoca delle frecciatine velenose: a loro non piace lavorare, non gliene frega niente del popolo, gli piacciono di più i festini. Pare di essere nei salottini della “grande bellezza”. La stoccata più forte viene da una donna del popolo quando chiede al poeta: “quando ci sarà il comunismo, saranno tutti come lei o come me che pulisco la merda dei borghesi da quando avevo 12 anni?”George Orwell la sua risposta la dette nella “Fattoria degli animali”: tutti sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri. Qui Larrain sembra limitarsi a quell'insegna rossa dell'albergo che si accende e si spenge. Nel frattempo Videla, che ha paura di Neruda, ordina al poliziotto Oscar Peluchonneau (Gael Garcia Bernal, indimenticabile protagonista di “No i giorni dell'arcobaleno” e giovane Che Guevara ne “I diari della motocicletta”) di trovare l'acerrimo rivale e di arrestarlo. D'accordo con il partito comunista, Neruda opera in clandestinità sotto falso nome. Proprio questi eventi lo ispireranno in una delle sue opere più note: “Canto General”. Questo film spiega come. Inizialmente sembra un noir alla “Heat” di Michael Mann o stile “Il fuggitivo” di Andrew Davis. Poi tutto cambia. Pablo Larrain confeziona abilmente un film d'autore prendendo spunto da “Il divo” di Paolo Sorrentino: tutto è grottesco, i personaggi sono deformati e al servizio della storia.
Il tutto impreziosito da una spruzzata di spiccato sense of humour. Sono tutti figli di un mondo finto che Larrain ha raccontato in ogni suo film: il Tony Manero di Alfredo Castro si credeva di essere l'unico sosia del personaggio di John Travolta (anche se non lo era), il pubblicitario di “No” dipingeva un mondo immaginario per far votare la gente, i personaggi de “Il club” vivevano nelle loro fantasie, nelle loro menzogne credendo di essere altro/i. Anche stavolta Neruda, Peluchonneau, Videla sono vittime del mondo che si sono creati. Credono di essere indipendenti e funzionali, ma sono vittime di quello che credono di essere. A tal proposito la fotografia di Sergio Armstrong è perfettamente bilanciata al racconto, ricostruendo i luoghi con un realismo sorprendente. Gli interni dei palazzi del potere si armonizzano a perfezione con gli esterni. Poi ci sono i personaggi, scritti in maniera incredibile.
Il grande poeta, definito un “operaio dell'arte” non è un santo: gli piace il sesso, è attratto dalla violenza e dal crimine. Non disdegna nemmeno incontri con prostitute e travestiti, a cui dedica le proprie poesie. Vuole essere un gigante popolare per essere “il peggior incubo dei fascisti di merda”. Contemporaneamente anche il poliziotto è fragile, ama la poesia (ma non lo può dire), è amante delle belle donne, ma è succube del potere. E questo significa non essere indipendente ed essere “un po' violento e un po' coglione”. Arriva addirittura ad “usare” l'ex moglie di Neruda per metterlo in cattiva luce di fronte alla gente (scena cult: l'incontro alla radio con la donna che non riesce a comunicare adeguatamente al pubblico le sottolineature del regime). Il presidente Videla, interpretato dal solito gigante che è Alfredo Castro, è ossessionato dalla paura per Neruda. Sa che il poeta ha ragione ed è dotato di un fine intelletto. Come giustamente dice la voce narrante, “l'insolenza in politica significa ammirazione”. A tal proposito è straordinaria la scena della fuga di Neruda che dà colpi di clacson per svegliare il presidente che non riesce a prendere sonno. Si alza, si affaccia alla finestra sperando di vedere l'auto di Neruda, mentre il poeta continua a “strombazzare”. Realtà, finzione, politica, letteratura, menzogna, erotismo ed elementi western (con forti richiami alla fotografia degli ultimi film di Tarantino) si mescolano fino al gran finale. Tutto è al proprio posto. Tutto è poesia, ogni tassello si incastra perfettamente con l'altro. Incredibile. Era tempo che non vedevo un film così. Correte a vederlo prima che venga tolto dalle sale. Naturalmente non vorrete mica che un'opera del genere sia distribuita in molte copie, vero?
FRASE CULT:
“È più divertente aiutare un comunista che la polizia”
TOP
– Regia, sceneggiatura, attori straordinari
– la fotografia di Sergio Armstrong ricostruisce gli ambienti in maniera incredibile
– Pablo Larrain ha le idee chiare riguardo quello che fuori comunicare allo spettatore
– La coerenza di Larrain con tutti i film precedenti
– Il sense of humour che in alcune scene strappa più di una fragorosa risata
– Poesia, letteratura, cinema, vita, biografia si uniscono in maniera incredibile. Tutto è al suo posto.
FLOP
– La scarsa distribuzione di un titolo importante come questo
Musica e politica vanno a braccetto?
ELVIS E NIXON ***1/2
(USA 2016)
Regia: Liza JOHNSON
Cast: Michael SHANNON, Kevin SPACEY, Colin HANKS
Durata: 1h e 26 minuti
Produzione: Amazon Studios
Distribuzione: Videa
Uscita: 22 Settembre 2016
Andate agli archivi di Stato a Washington e chiedete qual è l'immagine più richiesta. Vi diranno senza dubbio la foto tra il re del rock Elvis Presley e il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon. Partendo da questo spunto, è stato fatto un film su questo storico incontro. Sembra una bazzecola, ma quest'immagine è un perfetto bignami (molto pop) di storia americana: da una parte un'icona culturale, dall'altra un'icona politica. Un personaggio amatissimo da molti e uno dei presidenti più contestati del 20° secolo.
Scordatevi i film come “Frost/Nixon” di Ron Howard, “Elvis il re del rock” di John Carpenter o “Gli intrighi del potere” di Oliver Stone. Qui tutti e due i personaggi sono dei burattini al servizio di una commedia delicata, diretta da Liza Johnson e prodotta da Amazon. Sembra di essere in una serie Tv di lusso con due attori sublimi: Michael Shannon e Kevin Spacey. A dir la verità quest'ultimo ci ha già abituato piuttosto bene (dopo “House of cards”, interpreta un altro presidente).
Siamo nel dicembre 1970. Siamo alle soglie del Natale, visto che è il giorno 21. Alla Casa Bianca avviene lo storico incontro. Il re del rock and roll Elvis Presley (il poco somigliante Michael Shannon) ha scritto una lettera in cui richiede al presidente Richard Nixon (lo straordinario Kevin Spacey) di diventare un agente segreto sotto copertura.
Lo staff di quest'ultimo (nel cast c'è anche il figlio di Tom Hanks, Colin) capisce che è una grande occasione per riavvicinare alcuni elettori delusi. Anche se Nixon ha poco tempo, finisce per accogliere nello studio ovale il famoso cantante. Soprattutto per ottenere in cambio un autografo per la figlia. Il film è abbastanza lento, ma bisogna lasciarlo decantare. Come un buon vino. Perché i due protagonisti, apparentemente lontanissimi, diventano simili: sono appassionati di armi, sono conservatori, odiano gli hippy, i comunisti, i Beatles e i Rolling Stones (figli della cultura britannica dell'epoca).
L'asso della manica di questo film è che anticipa i futuri problemi dei due. Elvis Presley viene ritratto in maniera diversa dall'immaginario collettivo. Un personaggio infantile, contraddittorio e pieno di problemi, nonostante la fama. I problemi psicologici iniziavano a bussare alla porta. Infatti poco tempo dopo (nell'agosto 1977) verrà ritrovato morto per abuso di farmaci. Soffriva di depressione. Richard Nixon, politico piuttosto sboccato, inadeguato e rancoroso, è interpretato in maniera macchiettistica da Kevin Spacey che si diverte a imitarlo alla perfezione perfino nei movimenti. Verrà travolto nell'agosto 1974 dallo scandalo Watergate (per i pochi che non sanno cos'è, consiglio la visione di “Tutti gli uomini del presidente” di Alan J.Pakula). Fu costretto a dimettersi, schiacciato dalle pressioni dell'opinione pubblica.
Il grosso pregio del film è quello di mettere in mostra la fine di un'epoca che non esiste più. Oggi alla massa non interessa più la musica, la cultura, tanto meno la politica. Negli anni '70 invece c'erano icone vere come Elvis e Nixon. Possono piacere o meno (a me ad esempio non piacciono nessuno dei due), ma bisogna ammettere che incarnavano perfettamente l'effervescenza culturale e politica di quegli anni. Il tutto è condito da una sottile ironia che domina l'intera vicenda. Qua e là si sorride, ma l'intento di Liza Johnson è quello di rendere il tutto grottesco. Tanto che nel film non ci sono sesso e droga. Ogni tanto c'è del rock n roll. Ma non ci sono le canzoni di Presley, bensì quelle dei Creedence Clearwater Revival. Il giochino riesce nel complesso grazie ai due attori e alla sceneggiatura che non risparmia frecciatine sul futuro degli inconsapevoli protagonisti. È innegabile che non somigliano fisicamente agli originali, ma sono sublimi nelle movenze. In particolar modo Kevin Spacey è camaleontico e perfettamente a suo agio. Guardate il vero Nixon e vedrete che Spacey si ingobbisce, si inarca in maniera del tutto identica all'originale. Un piccolo grande film “da camera” che, nonostante qualche pecca, merita di essere visto. Anche se poteva trattare questo incontro in maniera più approfondita visto lo spessore della storia in questione.
TOP
– Un film teatrale dominato da due attori bravissimi
– Le interpretazioni grottesche di Michael Shannon e Kevin Spacey
– Kevin Spacey, in particolar modo, imita alla perfezione Nixon anche nei movimenti
– Lo storico incontro proposto in maniera grottesca come simbolo di una società che non esiste più
– Il fatto di aver proposto una storia che molti non conoscevano
– L'approfondimento psicologico dei personaggi principali
FLOP
– La lentezza
– Un'opera piuttosto didascalica dominata da pochi movimenti della macchina da presa
– Alcuni momenti un po' superficiali e “facili”
– L'incontro poteva essere maggiormente approfondito, vista l'importanza storica e simbolica della vicenda
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