Il Partito Democratico e la sinistra italiana: una lettura di fase
Corbyn: la rivoluzione dei privilegiati
Dopo l’inattesa sconfitta elettorale laburista del 2015 Pat McFadden, allora responsabile degli affari europei nel governo ombra di Ed Miliband, disse: «Saremo sempre il popolo dei meno abbienti, ma dobbiamo essere più di questo ed essere il partito della famiglia che aspira al benessere [the aspirational family that wants to do well]. Dobbiamo parlare di creazione di ricchezza e non solo di distribuzione della ricchezza».[1]
Questa ricetta sembrerebbe essere stata contraddetta dal recupero del partito di Corbyn, passato dal 30% della precedente tornata al 40% del 2017, con un programma decisamente schierato per la distribuzione.
A proposito di legge elettorale
Le elezioni in Regno Unito dello scorso 8 giugno hanno sorpreso gran parte dei commentatori. Theresa May, che si era giocata il tutto per tutto scommettendo sul voto anticipato quando i sondaggi davano ai Conservatori un vantaggio di venti punti, ne è uscita chiaramente sconfitta, costretta a sperare negli unionisti del DUP per formare un governo di minoranza.
Il Labour invece, pur nella sconfitta, ha conquistato un buon risultato, smentendo chi considerava Jeremy Corbyn un ineleggibile minoritario. Vista dall'Italia, la politica britannica troppo spesso viene ridotta a una caricatura da letture tendenziose o dal “tifo” politico. Come sempre qui sul Becco, col dieci mani di questa settimana cerchiamo di ragionare alla luce dei fatti.
Prima di tutto, devo ammettere di essermi sbagliato sul conto di Jeremy Corbyn. Ritenevo che Corbyn fosse incapace di unire il Labour e di conquistare voti oltre la cerchia degli elettori di sinistra più o meno radicale, e invece le elezioni dello scorso 8 giugno hanno provato che mi sbagliavo completamente. Il Labour, pur perdendo, ha portato a casa un ottimo risultato, strappando diversi seggi ai Conservatori e consolidando la già forte dominanza nelle grandi città, ma soprattutto è riuscito a pescare dall'astensione, specie giovanile. Le cause generali di questa buona prestazione e della contestuale bruciante “quasi-sconfitta” dei Conservatori sono analizzate molto bene in diversi articoli reperibili online, che invito a cercare per approfondimenti. Mi interessa infatti concentrarmi su altro.
Sul piano dell'unità del partito Corbyn si è mosso bene, evitando di ingaggiare una battaglia insensata ed autolesionistica per sostituire parlamentari veterani appartenenti alle tendenze interne moderate con fedelissimi inesperti. “Moderati” di primo piano come Chuka Umunna, Yvette Cooper e Liz Kendall sono stati candidati e hanno vinto il rispettivo collegio, e nei giorni che ci separano da giovedì Corbyn ha addirittura proposto di allargare il Goveno Ombra aprendo ai suoi ex critici. D'altronde, se i mal di pancia interni non sono stati del tutto esorcizzati dal buonsenso, il successo elettorale può sicuramente accontentare anche i più critici.
Corbyn ha portato avanti un'ottima campagna elettorale, presentandosi in modo sempre molto simpatetico e sobrio. Soprattutto, si è potuto presentare forte di un Manifesto sicuramente radicale ma anche profondamente di buonsenso, vale a dire mediato con la realtà. Abolire le tasse universitarie (For the many not the few, p. 43), eliminare gli zero hour contracts, ridare peso ai sindacati (pp. 47-48), costruire nuove case popolari per tutti (pp. 60-64), tutte proposte realistiche e chiaramente in grado di migliorare la vita delle persone, che diventano giustamente esempi da seguire per le sinistre europee. Ingiustamente sotto silenzio tra la sinistra non britannica passano invece altri punti del Manifesto laburista, come un approccio duro con il crimine, 10.000 poliziotti in più (pp. 76-77) e 3.000 nuovi secondini (p. 82), una riforma della giustizia penale affinché in carcere non finiscano soprattutto persone con problemi mentali o di dipendenza, o ancora il rinforzo delle capacità militari britanniche messe a dura prova dai tagli tory (pp. 120-121): proposte sensate in un mondo difficile e pericoloso come il nostro, che hanno il pregio di rispondere in modo razionale alle paure dei cittadini e di costituire una mediazione in positivo con tutta la società. Il fatto che non vengano mai citate dai nostrani corbynisti della prima o dell'ultima ora forse spiega in parte come mai, a differenza del Labour di Corbyn – che gode indubbiamente di buona salute – la sinistra italiana resti minoritaria e moribonda.
Le elezioni britanniche si inseriscono sulla falsariga delle ultime elezioni in Francia, Olanda e Austria. Si sta assistendo ad una rimonta dei partiti socialdemocratici nel loro nuovismo postdemocratico. Così c'è chi ammanta questa restaurazione di partiti di governo con l'ecologia e chi insiste più sull'equità. Nei fatti siamo di fronte a un'inversione di rotta. I principali paesi europei nordici stanno dando adito ai dubbi sull'uscita dall'Unione e, a distanza di un anno della Brexit, anche la Gran Bretagna inizia ad avere pesanti ripensamenti in merito.
Immotivatamente, perché i risultati economici vedono il Regno Unito come il primo paese per crescita della produzione tra le economie avanzate nel 2016. Ma d'altra parte stiamo parlando della prevalenza, nell'ambito della vecchia politica di governo, di una retorica rivolta a rinnovare tematiche classiche: su tutte l'equità liberale. Il Labour di Jeremy Corbyn ha riscosso grandi consensi su tematiche quali i tagli alla polizia con il problema del terrorismo, la riduzione delle tasse e il multiculturalismo. Un programma socialista dovrebbe prevedere ben altro, ma siamo di fronte al ritorno dei partiti socialdemocratici in nuove vesti. Falliti il Pasok e il Partito Socialista Francese la necessità di rilanciare una politica riformista nel vecchio continente è sempre più forte e farlo in un paese che si stava allontanando dall'unità politica con esso è ancor più importante. E in Gran Bretagna questa novità, a differenza del caso francese, non si percepisce nemmeno tanto visto che si sta pur sempre parlando del Labour e di un leader organico a quel partito da un trentennio. Eppure c'è davvero chi esulta davanti alla rimonta del Labour neanche fosse l'ultimo argine rimasto alla crisi sistemica in cui siamo immersi.
La Gran Bretagna è una realtà complessa, in cui convivono i reazionari protestanti nord-irlandesi e la conservatrice paladina dei diritti civili scozzese. Troppo spesso pensiamo all'Inghilterra come ad un paese europeo tra gli altri, dimenticando la dimensione di un impero mai realmente integratosi con il continente.
Impressionante è la ricerca della conferma oltre il confine di modelli di lettura capaci di giustificare la tattica più di corto respiro da praticare nell'immediato presente. Corbyn ha certamente qualcosa in comune con Sanders e l'affermarsi delle nuove stelle della sinistra europea, certamente più radicale di quella di Clinton-Blair-D'Alema-Schroeder (o, in seguito Zapatero o, ancora dopo, Obama) ma pur sempre "di governo". Il problema è la patina di nostalgia che pervade anche generazioni del tutto aliene alla fase di crescita della globalizzazione, che magari nei primi anni del percorso di istruzione hanno conosciuto l'illusione della crescita senza fine ed ora pretendono una società dal volto umano, un mercato più aperto ad istanze egualitarie.
Corbyn è il sogno erotico degli amanti del laburismo, di quella socialdemocrazia non ostile all'Unione Sovietica, compatibile con la tradizione della terza internazionale, ma non compromessa con gli "errori ed orrori" del socialismo reale.
Una favola. Destinata a scontrarsi con le mille difficoltà della realtà, ma pur sempre migliore della narrazione unica di un capitalismo inevitabile, o di una Brexit da cavalcare sulle spalle delle classi lavoratrici.
Il problema è quanto Corbyn sia in grado di costruire un sistema, di governo o di opposizione che sia. Quanto il programma non rimanga per raccogliere consenso durante le elezioni e poi tornare a prendere polvere sul palco della rappresentazione politica, mentre il sistema prosegue a smantellare le conquiste del secolo precedente, mentre qualche coraggioso oversessanta narra le storie di un mondo più giusto.
Perché Corbyn ha vinto perdendo. Ma ancora il paradigma egemone nella società europea è che non si vince perdendo, ma solo vincendo. Così Sanders e Corbyn dalla loro hanno l'assenza del governo, per rimanere sulle bacheche Facebook dei giovani progressisti, mentre Macron e Renzi (?) si "sporcano le mani" continuando con l'idea che si vince correndo verso il centro(-destra).
Sarà che ricordo gli entusiasmi per Zapatero ed Obama, sarà che penso che un uomo non possa cambiare da solo alcunché, se non nella percezione mediatica e mediata, ma la buona notizia delle elezioni britanniche non dovrebbe entusiasmare tanto, o almeno non dovrebbe portare ad una rimozione della complessità della realtà britannica e delle difficoltà storiche in cui versa la sinistra occidentale di alternativa (comprese le comuniste ed i comunisti).
Il Labour di Ed Miliband fu per quattro anni in testa ai sondaggi e poi perse la campagna elettorale e con essa le elezioni. Corbyn, scivolato dai -8 punti del settembre 2015 (sua elezione a leader) ai -20 dell’indizione delle elezioni, ha recuperato fino a un -2 nelle urne posizionandosi come il vincitore, se non delle elezioni, almeno della campagna elettorale.
In più, le forze del Remain (laburisti, liberaldemocratici, nazionalisti di Scozia, Galles e Irlanda del Nord, verdi, unionisti moderati) contano complessivamente sul 54%.
Quali ragioni per questo rapido recupero del Labour? Il gruppo che più massicciamente si è schierato per il partito di Corbyn sono i giovani, tra i quali il consenso è di fatto duplicato in questi due anni (dal 35 al 70%). Questo voto giovanile catalizzato dai laburisti era in precedenza diretto ai liberaldemocratici, ai verdi, e in parte agli stessi conservatori. Per spiegare l’abbandono del partito di governo è forse sufficiente ricordare l’ampia maggioranza di europeisti tra gli elettori sotto i 30 anni; per quanto riguarda le altre forze, invece, si nota che tanto Corbyn oggi quanto Lib-Dem e verdi ieri esprimono un’identica istanza: la contestazione del presente sistema sociale in nome di ritmi di vita più sostenibili. Diversa, però, la visione di fondo: una vivibilità che discende non dalla liberazione dal lavoro, magari come eteroprodotto della robotizzazione, ma dalla valorizzazione del lavoro stesso (si pensi alla lotta contro i contratti a zero ore).
Un’ulteriore dinamica può spiegare il recupero di Corbyn tra il 2015 e oggi. L’elezione di Trump e la vittoria del Leave hanno, da un lato, diradato il fumo degli inganni demagogici neofascisti; dall’altro, la sconfitta della Clinton ha riassegnato nuova gloria ai progetti à la Sanders.
Per tali ragioni non sono quindi azzardati i paralleli tra Macron e Corbyn: entrambi sono elementi che sfidano il bipolarismo thatcherismo/socialdemocrazia. Il Presidente francese è più proiettato verso la costruzione del quadro comune europeo, il leader laburista invece (di necessità, vista la Brexit) insiste d’abord sulla lotta economica all’interno dello stato nazione. Le due traiettorie sono tutt’altro che inconciliabili, come segnalano i buoni risultati de La République En Marche! nella cintura rossa parigina.
En passant, un segnale da monitorare viene dall’Irlanda del Nord: per la prima volta raccolgono seggi solo i partiti radicali delle due comunità (Dup e Sinn Féin). Anche questo è un segno delle crescenti tensioni esacerbate dalla Brexit.
C’è modo e modo di essere sconfitti. Fino a pochi mesi fa sembrava del tutto irrealistico immaginarsi un Labour in grado anche solo di resistere in molte delle sue roccaforti storiche nel Nord dell'Inghilterra e nel Galles. Oggi il partito guidato da Jeremy Corbyn ha rafforzato la sua presenza in parlamento incrementando il proprio numero di seggi ed è arrivato a un incollatura dai Conservatori anche in termini di voti assoluti.
Quando Theresa May ha indetto elezioni anticipate, il Labour versava in una crisi di consenso senza precedenti. Persa la fiducia della classe operaia e delle categorie sociali più vulnerabili, il partito rischiava di essere travolto da una discussione sulla brexit monopolizzata dalla destra e che aveva visto la sinistra in grosse difficoltà identitarie e divisa fra i sostenitori del “remain” e quelli di una uscita “soft”. L’elezione di Jeremy Corbyn, proveniente dall’area radicale, alla guida del partito, era il sintomo di un bisogno profondo, radicato nella base del partito, di dover tornare a dire cose di sinistra dopo anni di avvicinamento al centro e di eccessivo moderatismo politico. In un periodo segnato dai successi elettorali di Hollande prima e Renzi poi, Corbyn appariva a molti analisti una scelta suicida e anacronistica che avrebbe fatto perdere al Labour una vasta fetta di elettorato moderato.
I Conservatori, che potevano contare anche sulle difficoltà dello Ukip e dello Scottish National Party, sembravano insomma destinati a ottenere una vittoria schiacciante in grado di rafforzare l’esecutivo britannico e legittimare il piano di un’uscita dura dall’Europa. Il fallimento di questo progetto va in gran parte attribuito alla capacità di Corbyn di rimettere insieme il partito attorno alle tematiche tradizionali (lavoro e diritti sociali) senza rinunciare a sedurre la componente liberal e cosmopolita del ceto medio-alto delle metropoli. Niente a che vedere però con l'europeismo ingenuo e il centrismo post-ideologico di Macron, con il quale il segretario del Labour è stato assurdamente paragonato da alcuni analisti nostrani. Piuttosto la somiglianza è con Bernie Sanders se non altro almeno perché sono soprattutto i giovani ad aver premiato un progetto che ha permesso una resurrezione di idee socialiste che sembravano accantonate nei due grandi partiti della sinistra anglofona.
Corbyn, ha dimostrato che la strada per il successo elettorale non passa necessariamente per il moderatismo politico e l’accettazione delle regole del gioco dettate dal neoliberismo. Per ora non si poteva chiedere di più. Ma in un futuro molto prossimo occorrerà anche dimostrare di poter vincere con un programma di questo tipo e, sopratutto, di riuscire ad attuarlo.
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La Brexit e la crisi della narrazione politica della sinistra
L'egemonia che la destra ha avuto sul dibattito attorno alla Brexit obbliga ancora una volta a chiedersi quale possa essere il ruolo storico della sinistra nel Vecchio Continente. Le difficoltà elettorali e identitarie del Labour Britannico non bastano infatti a spiegare la quasi totale estraneità di una narrazione di sinistra rispetto ai pro e i contro di rimanere in Europa. Se forse è esagerato affermare che il referendum sia stato semplicemente il prodotto di una bega interna al partito conservatore, appare evidente come le destre abbiano completamente monopolizzato la discussione politica riducendola a due posizioni alternative chiare e semplici(stiche): da una parte chi, come Cameron, vuole una Gran Bretagna in Europa per i vantaggi che ne derivano dalla libertà di movimento di merci e capitali e dall'integrazione dei mercati finanziari, e dall'altra chi, come Boris Johnson e Farage, rivendica un Regno Unito indipendente da scelte eterodirette e in grado di esercitare in pieno la propria sovranità.
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