Giovedì, 09 Agosto 2018 00:00

Il Partito Democratico e la sinistra italiana: una lettura di fase

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Il Partito Democratico e la sinistra italiana: una lettura di fase

Corbyn: la rivoluzione dei privilegiati 

Dopo l’inattesa sconfitta elettorale laburista del 2015 Pat McFadden, allora responsabile degli affari europei nel governo ombra di Ed Miliband, disse: «Saremo sempre il popolo dei meno abbienti, ma dobbiamo essere più di questo ed essere il partito della famiglia che aspira al benessere [the aspirational family that wants to do well]. Dobbiamo parlare di creazione di ricchezza e non solo di distribuzione della ricchezza».[1]

Questa ricetta sembrerebbe essere stata contraddetta dal recupero del partito di Corbyn, passato dal 30% della precedente tornata al 40% del 2017, con un programma decisamente schierato per la distribuzione.

In realtà, guardando le analisi demoscopiche del voto, si nota come il recupero del Labour, avvenuto in tutte le classi sociali, sia più pronunciato nelle classi alte.[2] Anzi, dall’inizio delle serie Ipsos nel 1979, il Labour ha il suo miglior risultato di sempre tra i dirigenti, i professionisti e gli impiegati, mentre i conservatori conseguono lo stesso primato tra i lavoratori manuali e i disoccupati.[3] Quest’ultimo dato appare dovuto prevalentemente al ritorno ai Tories del voto proletario allo Ukip, mentre la crescita laburista è correlata soprattutto all’età (definita «la nuova linea di divisione nella politica britannica»[4]), in particolare agli elettori giovanissimi e che hanno votato per la prima volta.

Se è vero che, in termini percentuali, nella coorte 18-34enni il Labour raccoglie “solo” il 52% tra dirigenti e professionisti mentre è premiato da lavoratori non qualificati e disoccupati con uno schiacciante 70%, ben diverso è anche il tasso di affluenza alle urne: 61% nel primo gruppo, solo 35% nel secondo. Annoverando anche gli astenuti, quindi, vota laburista un terzo dei giovani di classe alta ma solo un quarto dei giovani delle classi inferiori.

In termini generali, l’attrazione esercitata da Corbyn si concentra principalmente tra i giovani, e in particolare su quelli fuori dal mondo del lavoro (66% tra i 18-19enni, 64% tra gli studenti).

Perché, dunque, un Labour egemonizzato dalla sinistra socialista interna miete consensi soprattutto tra chi non lavora e, all’interno degli occupati, recupera soprattutto nelle classi abbienti?

La risposta può essere cercata in un altro fenomeno elettorale, spesso accostato ai corbynistas, ossia quello di Bernard Sanders. Questi, come rilevai in un articolo[5] di due anni fa, a dispetto di tutta la sua retorica socialista veniva premiato dai giovani già privilegiati: i bianchi istruiti. La spiegazione che ne detti fu «una “rivoluzione delle aspettative crescenti”, espressa da quei gruppi privilegiati per i quali la ripresa economica non sarebbe all’altezza delle loro ambizioni di ascesa sociale».

La visione di McFadden era dunque nitida da un occhio e appannata dall’altro: nitida, in quanto è effettivamente alle aspirazioni e alle ambizioni che Corbyn ha dato voce; appannata, in quanto ciò è avvenuto parlando di distribuzione più che di creazione – se si vuole, di consumo più che di produzione, di reddito più che di lavoro. 

Il voto “corbynista” in Italia e come allargarlo

Cosa rileva tutto questo per la sinistra italiana?

In primo luogo, l’odio nei confronti del lavoro e la mitizzazione del reddito quale orizzonte necessario e sufficiente della realizzazione umana sono due dei capisaldi ideologici del Movimento 5 Stelle.

In secondo luogo, anche al netto delle incrostazioni clientelari e corporative specifiche della situazione italiana, il consenso del M5S e della Lega viene fomentato da quello stato d’animo che La Stampa descrisse come «La ripresa c’è, ma non sembra toccare me»[6], ossia un caso tipico di “aspettative crescenti”. Nel sondaggio commissionato dal quotidiano torinese l’impatto percepito della ripresa economica risultava inversamente proporzionale alla prossimità individuale dell’insieme preso in considerazione: la famiglia (27%), il territorio di domicilio (37%), l’Italia (42%), l’Europa (59%).

In terzo luogo, l’appeal sociale di Corbyn e Sanders, che in molti chiedono al PD di far proprio per recuperare tra le classi deboli (ma che come si è visto attrae piuttosto i ceti superiori), appare già adottato dal centrosinistra. Secondo l’analisi del voto 2018 Ipsos-Twig[7], il centrosinistra ottiene i suoi migliori risultati tra i pensionati (30%) e i ceti elevati (29%). Il quadro non cambia, salvo un recupero tra studenti, impiegati e insegnanti, ove si computi nel centrosinistra anche LeU.

Per quanto riguarda il M5S e la Lega, invece, il primo è più insediato fra i disoccupati (37% contro il 18% leghista) e la seconda più fra gli autonomi e i commercianti (24%, 32% M5S), mentre entrambi sono molto forti tra gli operai (rispettivamente 37% e 24%).

La situazione italiana, quindi, rispecchia già quella britannica, in cui le classi superiori favoriscono la sinistra e i ceti inferiori invece la destra. È semmai la diversa struttura sociale dei due Paesi a sbilanciare il quadro italiano a favore della destra radicale oggi al governo. Il forte peso dell’artigianato, del commercio al dettaglio e delle piccole e medie imprese in molti settori (agricoltura, turismo, distretti industriali) favorisce infatti proposte di carattere poujadista.

La via per il centrosinistra di uscire da questo isolamento si può basare su due macro-strategie:

  1. consolidare il consenso presso le classi alte e i pensionati, ossia attraendo quanto di Forza Italia non è stato risucchiato dalla Lega;
  2. aumentare il proprio consenso nei ceti popolari o piccolo-borghesi (autonomi, impiegati, operai, disoccupati, casalinghe…), ossia erodendo il M5S e/o la Lega.

La prima strategia è fondamentale, visto il prossimo estinguersi della leadership berlusconiana, ma da sola non può bastare. Non lo può sotto un aspetto politico, perché il centrosinistra non può accontentarsi di rappresentare la borghesia illuminata, che pure deve essere mantenuta anche contando su organizzazioni specifiche come +Europa, ma non lo può neppure sotto un aspetto numerico, visto che al momento il consenso della coalizione di governo veleggia sul 60% contro il 30% della somma centrosinistra-Forza Italia.

Il vero dilemma da sciogliere, quindi, riguarda il come disarticolare l’alleanza M5S-Lega. A questo proposito manca ancora nel centrosinistra, e in particolare nel PD, una discussione pubblica; tuttavia le strategie emergenti sembrano al momento tre:

  1. separare il M5S dalla Lega e allearsi con il M5S;
  2. attrarre consensi dal M5S;
  3. attrarre consensi dalla Lega.

Allearsi con il M5S? 

Sommariamente, la prima strategia appare caldeggiata da diversi dirigenti tradizionali del centrosinistra, evidentemente legati alle operazioni che una generazione fa portarono al gioco di sponda con la Lega, all’alleanza organica con le forze centriste (PPI e Patto Segni) e all’attrazione nel centrosinistra di formazioni di centrodestra (la Lista Dini e l’UDR del senatore Cossiga). Il più esplicito in questo senso è stato Piero Fassino, già tessitore di lungo corso per Prodi e per Renzi, il quale all’inizio di maggio aveva apertamente suggerito di ricostruire il bipolarismo contrapponendo ai partiti di destra un’alleanza PD-M5S. A luglio anche Graziano Delrio ha asserito che «Con la Lega non ci sono le condizioni per un dialogo vero, sui provvedimenti. Con i 5 Stelle ci potrebbero essere. Ma dipende molto se loro non si schiacciano sulla Lega. Perché questo è il punto»[8].

Una simile strategia riflette non solo il pensiero tattico di un capocorrente di spicco come Dario Franceschini, ma anche i convincimenti della sedicente sinistra interna ripetuti all’Assemblea nazionale del PD del 7 luglio: secondo Andrea Orlando «il nostro primo problema è come si ferma Salvini. Salvini cercherà di utilizzare la disperazione, la rabbia, la paura del popolo per scagliarla contro le istituzioni della democrazia liberale»; l’ex guardasigilli ha portato ad esempio il sottosegretario alla Giustizia Morrone, leghista, che ha proposto con motivazioni dichiaratamente politiche l’epurazione dei magistrati di sinistra. Naturalmente gli è sfuggito che il collega di Morrone, il sottosegretario M5S Ferraresi, aveva minacciato nell’Aula della Camera conseguenze penali per le dichiarazioni rese dai deputati dall’opposizione. Poi Orlando ha velatamente proposto paragoni tra il fascismo mussoliniano e la Lega, da un lato, e tra la monarchia badogliana e il M5S dall’altro: «Noi ci siamo alleati coi monarchici per cacciare i fascisti […] lo abbiamo fatto perché abbiamo individuato un nemico più pericoloso». Salvo definire poi «terribile» la dichiarazione di Di Maio che l’abbinamento del MiSE con il dicastero del Lavoro punta ad annullare le “liti tra imprenditori e lavoratori”, ossia le vertenze sindacali. Insomma, il programma fascista di Palazzo Vidoni del 1927.

Cuperlo ha rincarato la dose contro la Lega, «con tutta evidenza una forza di destra, direi che è persino peggio […] Questa destra, del Novecento non archivia solamente i regimi totalitari, ma la cultura liberale e il suo bagaglio». Secondo l’ex deputato la cifra politica fondamentale della Lega è il capovolgimento del «compromesso sociale degli ultimi venticinque anni», che sarebbe stato fondato sull’unione tra i valori progressisti della democrazia e le dottrine liberiste in economia. Oggi il partito di Salvini combinerebbe invece il rigetto autoritario della democrazia con «ricette economiche e sociali in parte tipiche della sinistra». Come nel caso di Orlando, anche Cuperlo vede nell’alleanza con il M5S il mezzo per contrastare la Lega, ad esempio suggerendo un atteggiamento morbido nei confronti del decreto Di Maio, che «annuncia un contrasto alla precarietà e riceve l’attenzione del sindacato e il biasimo di Confindustria», prima di dichiarare apertamente la propria preferenza per «spezzare un legame che può saldarsi tra la lotta per ridurre povertà, privilegi, diseguaglianze e le peggiori spinte securitarie e razziste», riferendosi in tutta evidenza rispettivamente al M5S e alla Lega.

Questa linea da un lato si fonda su premesse analitiche comprensibili: su 100 elettori del PD nel 2013, nel 2018 ben 14 hanno votato il M5S mentre soltanto 2 si sono rivolti alla Lega. Dall’altro lato, appare perseverare nell’errore della Cgdl di Rigola e D’Aragona che prima, durante e dopo il delitto Matteotti perseguì una politica di coalizione con il regime, poi divenuta di accomodamento e infine di mero ossequio. La stessa Cgil si è del resto schierata in opposizione al decreto Di Maio. 

Fare concorrenza al M5S? 

La seconda strategia, ossia la calamitazione di voti in uscita dal M5S, appare difesa prevalentemente dal neo-segretario Maurizio Martina, il quale probabilmente sceglie questa via, invece di un’alleanza diretta con il M5S, per due motivi. In primo luogo, ha evidenziato la necessità di rafforzare l’insediamento sociale del partito, e quindi la sua posizione negoziale. In secondo luogo, per poter arrivare al venturo congresso in condizioni pacifiche ha la necessità di non provocare levate di scudi da parte dell’area legata al senatore Renzi, principale alfiere della chiusura netta al partito della Casaleggio Associati. La tattica seguita da Martina è prevalentemente la polemica contro il M5S sui temi del lavoro. Lungi dal raccogliere l’invito di Cuperlo e Damiano a togliersi il cappello e riverire il decreto Di Maio, Martina lo ha duramente attaccato notandone i perversi effetti anti-occupazionali e presentando un decalogo di proposte alternative. Lo stesso rafforzamento sociale del partito viene promosso dal segretario anche attraverso la decisione di riunire la segreteria in importanti periferie urbane. I luoghi finora scelti sono connotati dall’aver fornito tutti un ampio se non amplissimo consenso al M5S: Tor Bella Monaca (36% nell’intero collegio di Torre Angela[9]), lo Zen (54%[10]), Scampia (65%[11]).

Fare concorrenza alla Lega?

La terza strategia, ossia l’attrazione di voti in uscita dalla Lega, non è stata ufficialmente percorsa da alcun dirigente di spicco, ma appare la più vicina alle posizioni di alcuni esponenti di spicco degli esecutivi uscenti e, in particolare, Matteo Renzi e l’ex ministro Minniti. Essi hanno già in passato tentato l’articolazione di posizioni di Blue Labour sul tema dell’immigrazione: Minniti come ministro dell’Interno, cercando di regolamentare i flussi in ingresso attraverso il codice di condotta per le Ong e gli accordi con la Libia; Renzi, ancor di più, come leader politico, esponendosi in alcune dichiarazioni che poi i suoi canali sui social media hanno ritirato dietro la pressione della “sinistra-sinistra” (la cui posizione nelle urne non pare aver prevalso). Al momento Renzi sembra anche lanciato alla conquista del consenso tradizionale della Lega, come appare dal riferimento continuo agli «industriali del Nordest»[12]. La pronuncia di seicento di questi contro il governo[13] ha sicuramente fatto sentire l’ex Presidente del Consiglio ricompensato della propria strategia, tanto da fargli dichiarare «ho visto finalmente le prime proteste delle aziende del Nord Est. Sono certo che è solo l’inizio»[14] e «a me sembra strano che nessuno abbia ancora organizzato manifestazioni di protesta, ma capisco che siamo tutti con la testa alle vacanze. Gli unici a dire qualcosa sono stati gli imprenditori del Nordest»[15].

L’elettorato della Lega, oggi, si compone di tre tronconi:

  1. Il primo, il più antico, è quello originario aggregato da Umberto Bossi una generazione fa sui temi dell’autonomia fiscale, del regionalismo, della decentralizzazione, della protesta contro lo statalismo e contro la “classe politica” dello Stato centrale. Nel tentativo di costruire una controcultura alternativa ai partiti dell’arco costituzionale, su tale troncone si sono successivamente innestate caratteristiche neopagane e filonaziste.
  2. Il secondo è quello aggregato da Matteo Salvini fino alle recenti elezioni politiche su una piattaforma nazionalista, sciovinista e con orientamenti tipici della destra estrema del tardo Ottocento (l’odio contro la finanza, il militarismo, la xenofobia, la russofilia). Esso si sovrappone all’ex elettorato di Alleanza Nazionale, partito di cui del resto ha ereditato il personale politico (soprattutto sul territorio) e l’alleanza con il Front National francese. I due partiti eredi di AN hanno con la Lega di Salvini un rapporto di vicinanza (Fd’I) o addirittura di alleanza (Movimento Nazionale per la Sovranità). Rapporti di prossimità esistono anche con forze neofasciste come CasaPound o Lealtà Azione.
  3. Il terzo infine è quello aggregato da Matteo Salvini dopo le elezioni politiche e specialmente dopo l’insediamento dell’esecutivo ed è costituito da ex elettori di Forza Italia ormai attratti nell’orbita del principale partito di destra a scapito dell’anziano astro tramontante di Berlusconi.

La strategia di Renzi verso la Lega sembra dunque far parte di un più generale piano di rinserrare il consenso forzista anzitutto per evitare che le sue spoglie siano interamente saccheggiate dalla Lega e, poi, per riattrarre quello che alla Lega è già al momento approdato. Anche la scelta del senatore rignanese di condurre un programma su Mediaset appare da inquadrarsi in questa linea politica.

Chi è più pericoloso?

Tutte le strategie di erosione e attrazione del consenso dai partiti di governo, però, risulterebbero azzoppate se ad esse non si accompagnasse l’istituzione di un rapporto di collaborazione con frazioni interne di tali partiti. Sotto questo aspetto, è utile anzitutto chiarire con quale di essi vi è più vicinanza e quindi su quale è possibile investire di più.

Frazioni più o meno influenzate dalla sinistra vi sono in entrambi i partiti, sia nel M5S[16] sia nella Lega, in cui peculiare è la figura dello stesso Salvini. Questi si regge su una maggioranza vandeana, in opposizione all’antifascismo di Maroni, ma proviene lui stesso dai Comunisti Padani e il terreno sul quale sceglie il compromesso con i suoi sostenitori reazionari è molto vicino a quanto Marx ed Engels definivano «socialismo feudale, metà lamentazione, metà libello; metà riecheggiamento del passato, metà minaccia del futuro»[17], ossia la combinazione di integralismo cristiano e paternalismo protezionista.

Le tendenze maggioritarie in entrambi i partiti, sono, chiaramente di estrema destra. Se, a partire dall’autunno 2014 con la campagna antirom, la Lega ha di fatto preso il posto di AN nello spettro politico, il M5S ha a sua volta ereditato fin dallo scandalo Bossi-Belsito di primavera 2012 quello della vecchia Lega, ivi comprese le sfumature neonaziste che vi albergavano.

Ad oggi l’orizzonte politico delle due formazioni non è del tutto identico. Il modello salviniano è quello della “democrazia illiberale” di Orbán: uno Stato autoritario informato a politiche di intolleranza e dominato dalla destra radicale. Gli elogi del titolare del Viminale al Primo ministro ungherese sono ben noti. Il modello del M5S, invece, è quello da anni propagandato e di recente ancora esplicitato da Casaleggio: rendere inservibile il Parlamento, ossia centralizzare la decisione in un corpo ristretto, sganciato dal controllo popolare e da vincoli costituzionali, che imprime il proprio marchio a tutti gli aspetti della società.

La situazione, quindi, appare purtroppo incartata in un duplice paradosso.

Da un lato, il M5S è più pericoloso per la democrazia italiana e cova fortissime brame totalitarie, avendo però nel proprio elettorato una maggior quota proveniente dalla sinistra.

Dall’altro lato, la Lega risulta rispetto al M5S un male minore, o se si vuole un fascismo più annacquato, eppure il dialogo con suoi singoli pezzi è più difficile: primo, perché minore è il numero di suoi elettori con origini a sinistra; secondo, proprio perché la Lega a differenza del M5S non è guidata soltanto da una cieca furia distruttrice, bensì, al modo del vecchio fascismo, esprime a suo modo un’ideologia e anche un’etica, per quanto egoiste e distorte. Questo condizionamento culturale frena tanto la comunità leghista quanto gli elettori ed ex elettori di centrosinistra che ancora, nonostante tutto, sono più disposti a riconoscere il nemico nei partiti conservatori che nel M5S.

Trattandosi, come si vede, di un sentiero molto stretto, e dovendolo battere in condizioni di difficoltà e di svantaggio tattico, risulta imperativo per il PD muoversi rigorosamente a cerchi concentrici:

  1. fortificare il radicamento sociale del partito;
  2. costituire un’alleanza di centrosinistra con estensioni sia verso il centro sia verso la sinistra;
  3. presidiare il consenso moderato e di centrodestra (ad esempio tramite operazioni quale quella di Calenda);
  4. intrattenere contatti con le frange minoritarie della Lega e del M5S e fomentare il dissenso in tali partiti.

[17] K. Marx-F. Engels, Manifesto del partito comunista.


Immagine liberamente ripresa da gds.it

 

Ultima modifica il Sabato, 25 Agosto 2018 10:55
Jacopo Vannucchi

Nato a Firenze nel 1989. Ho conseguito la laurea triennale in Storia con una tesi sul thatcherismo e la magistrale in Scienze storiche con una ricerca su Palazzuolo di Romagna in età risorgimentale. Di formazione marxista, mi sono iscritto ai Democratici di Sinistra nel 2006 e al Partito Democratico nel 2007.

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