Scissioni e soldi, politica e patrimonio, quel patrimonio necessario a svolgere l'attività politica, sono indissolubilmente legati: anche in epoca di “partiti liquidi” (che poi una volta si chiamavano “comitati elettorali”) e “movimenti” (parola salvifica per designare i partiti togliendoli quella che viene da molti percepita come la “puzza” del '900).
In questi giorni di frenetica attività dentro e fuori il PD, proprio per approfondire nello specifico questo tema e mettere qualche elemento di certezza, abbiamo sentito Gabriele Maestri, cultore del diritto dei partiti, collaboratore dell'Università di Parma, giornalista pubblicista (cura il blog isimbolidelladiscordia.it) nonché autore di due testi per “drogati” di politica: I simboli della discordia. Normativa e decisioni sui contrassegni dei partiti (Giuffrè, 2012) e Per un pugno di simboli. Storie e mattane di una democrazia andata a male (Aracne, 2014)
Cercando la definizione di simbolo su un qualsiasi vocabolario di lingua italiana, il risultato sarà più o meno il seguente: “Elemento concreto a cui si attribuisce la possibilità di evocare un valore più ampio rispetto a quello che normalmente rappresenta”. Contestualizzando l'argomento nell'ambito della politica, emerge sin da subito la difficoltà nell'analizzare la complessa storia del simbolismo partitico. Sebbene la definizione di simbolo succitata si adatti perfettamente alla natura dell'iconografia politica, quella dei simboli dei partiti è una storia tortuosa e ricca di spunti per un dibattito non solo politico e sociologico ma persino antropologico.
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