Giovedì, 20 Marzo 2014 00:00

I simboli della discordia - Intervista a Gabriele Maestri

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Cercando la definizione di simbolo su un qualsiasi vocabolario di lingua italiana, il risultato sarà più o meno il seguente:Elemento concreto a cui si attribuisce la possibilità di evocare un valore più ampio rispetto a quello che normalmente rappresenta”. Contestualizzando l'argomento nell'ambito della politica, emerge sin da subito la difficoltà nell'analizzare la complessa storia del simbolismo partitico. Sebbene la definizione di simbolo succitata si adatti perfettamente alla natura dell'iconografia politica, quella dei simboli dei partiti è una storia tortuosa e ricca di spunti per un dibattito non solo politico e sociologico ma persino antropologico.

 

Il simbolismo è forse il più antico e il più immediato dei linguaggi e quando incontra la politica non ha altro scopo se non quello di rendere tangibile un messaggio astratto, ma le modalità con cui questo compito si realizza sono sicuramente influenzate dal contesto storico e politico. Sono evidenti, ad esempio, le innumerevoli differenze tra il simbolismo politico che ha animato il dibattito dal dopoguerra sino agli anni '80, con quello che con la caduta del Muro di Berlino e Tangentopoli, all'alba degli '90 si apprestava ad aprire la stagione politica della cosiddetta “Seconda Repubblica”.

Per approfondire al meglio questi aspetti abbiamo incontrato Gabriele Maestri, laureato in Giurisprudenza, Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l’Università di Roma «La Sapienza» e autore del libro “I simboli della discordia. Normativa e decisioni sui contrassegni dei partiti”. Frutto di un anno e mezzo di studi e di ricerche, in questa opera edita da Giuffrè l'autore prova a trattare in modo completo la materia dei simboli e dei contrassegni dei partiti, sia nel loro ambito naturale (le elezioni), sia negli innumerevoli scontri extra-elettorali avvenuti regolarmente dopo le scissioni. Alla base del libro le norme dettate per i contrassegni nel procedimento elettorale e le molte decisioni dei giudici e degli altri organi preposti, a partire dal Ministero dell'Interno. Un argomento di indagine e allo stesso tempo un'importante occasione per rileggere la storia del nostro paese.

1) Negli ultimi vent'anni i simboli dei partiti conformandosi alle profonde metamorfosi degli stessi soggetti politici, si sono trasformati sempre più in veri e propri marchi. Emblematico è il caso del simbolo di Forza Italia, ideato dal direttore creativo di Mediaset Cesare Priori (già autore del biscione di Canale 5) che con la sua natura esplica al meglio il proprio compito da prodotto della società dell'immagine; apparire ed essere riconoscibile, anche al costo di non trasmettere alcun messaggio preciso. Possiamo quindi affermare che la fine della I Repubblica e la crisi delle grandi organizzazioni di massa siano tra le cause della trasformazione dei simboli dei partiti in semplici marchi?

Personalmente credo che il rapporto della domanda debba essere almeno parzialmente invertito. Nel senso che la trasformazione (o, se preferisce, lo scadimento, la degradazione) dei simboli a semplici marchi è uno dei segni del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, ammesso ovviamente che queste etichette abbiano un senso (le usiamo per mera comodità, tanto per incasellare gli anni a modo nostro). La crisi delle organizzazioni di massa (a iniziare dai partiti) invece è certamente, se non una causa, almeno un presupposto del passaggio di cui stiamo parlando. 
In quella che chiamiamo Prima Repubblica un'identità dietro ai partiti e ai loro emblemi bene o male c'era e si riusciva a farla entrare in uno scudo, in una falce con martello, in una fiamma, in un garofano... Per questo (o, per lo meno, anche per questo) il cambio di simboli nel nostro primo mezzo secolo scarso di Repubblica era un affare maledettamente serio: intervenire su quei segni non era mai indolore, erano piccoli traumi, piccoli drammi carichi di significato. E bastava il bianco e nero, nei primi tempi addirittura il tratteggio di un disegno a china a trasmettere l'identità di un partito. Oggi, quando si ritiene che un simbolo non funzioni, se ne commissiona un altro (possibilmente girellando intorno ai quattro colori nazionali) a un grafico o a un'agenzia di comunicazione e lo si cambia, spesso senza avere risultati apprezzabili in termini di consenso.   

2) Se questa teoria trova riscontro nei continui cambi di simbolo volti a cancellare le tracce del simbolismo politico classico, ha dell'assurdo la proliferazione di simboli presentanti a ridosso delle competizioni elettorali. Improponibili liste tematiche, liste chiaramente provocatorie e plagi volti al boicottaggio delle vere liste; dai simboli accettati a quelli ricusati, il suo lavoro di ricerca ha portato alla luce vicende inverosimili, ci parli dei casi più clamorosi.

Innanzitutto, due parole sul "simbolismo classico". Che in un certo senso è sì sparito (perché difficilmente sono nati nuovi simboli con la stessa forza, a parte probabilmente la bandierina di Forza Italia, che non è nata forse come simbolo ma lo è diventato), ma per certi versi è duro a morire. Perché i partiti che in qualche modo si rifanno a esperienze politiche del passato non rinunciano volentieri a quei segni (anche microscopici), a costo di andare in tribunale o di rischiare di finirci. Non si spiegherebbe, altrimenti, perché ancora oggi da ben più di un contrassegno spuntino falci e martelli (nemmeno troppo litigiosi) e scudi crociati (continuamente votati alla lite). Il tentativo è di beneficiare di un briciolo della fama e della storia dei vecchi partiti: tentativo che, di solito, fallisce. Per rispondere alla domanda, il mio lavoro ha cercato soprattutto di raccogliere, anche sul piano iconografico, un numero ampio di tentativi di piccoli e grandi colpi, nel tentativo di fare qualche sgambetto a un avversario o semplicemente di dirottare qualche voto. A volte sono riusciti, a volte no; a volte i media ne hanno parlato per giorni, a volte se ne ha notizia solo scartabellando in archivio. Certamente tutti ricordano la bagarre al Viminale prima delle ultime elezioni politiche, dopo che qualcuno aveva "clonato" e taroccato i simboli legati a Beppe Grillo, Antonio Ingroia e Mario Monti; era andata esattamente così però già nel 1996, quando qualcuno volle fare uno scherzo malefico a Lamberto Dini, presidente del consiglio uscente candidato col centrosinistra con la sua lista Rinnovamento italiano (dopo che era stato ministro di Berlusconi), presentando l'emblema quasi uguale di una fantomatica Lista Dini - Rinascimento Italiano, legata a tale "Dini Mariano detto Lamberto". Il trucco è stato lo stesso, ma nel 1996 come nel 2013 il giochetto non è riuscito. Lo stesso gruppo che aveva clonato Monti, del resto, nel 2008 aveva presentato la Lista del Grillo parlante (con l'ultima parola quasi invisibile), con l'idea di candidare un omonimo dell'attore genovese che ancora non aveva fatto nascere le prime Liste CiViche. Quel colpo del piemontese Renzo Rabellino fu in qualche modo neutralizzato (il Grillo si dovette sdoppiare in due Grilli, parlanti ovviamente), ma sempre lui alle regionali in Lazio dell'anno scorso è riuscito nell'impresa di presentare una lista a sostegno del candidato presidente Francesco Storace, con il suo cognome in paurosa evidenza, riuscendo a dirottare varie migliaia di voti (e, potenzialmente, almeno un seggio) dalla lista "ufficiale" del candidato del centrodestra. Il Piemonte, poi, sembra una terra ricca di questi episodi: è appunto piemontese Marco Di Nunzio, che tra il 2011 e il 2012 ha cercato di presentare più volte la Lista Bunga Bunga - Più pilo per tutti: lui è sicuro che quella lista potrebbe ottenere grandi risultati e, anche per questo, cercano di bocciargli il simbolo (dicendo che è scostumato) o di accusare di irregolarità le firme delle liste. In fila alla presentazione dei simboli prima delle elezioni, però, ci sono anche molte persone non classificabili tra i furbetti: per loro depositare l'emblema è quasi una missione, che certifica la loro esistenza in vita e consente loro di dare un po' di notorietà ai loro progetti. Così, per dire, spuntano i segni di "Io non voto", "Recupero Maltolto - Aqua bene comune" (e guai a dire che è un errore, è alla latina) e del Partito internettiano. Su tutti, vigila con rigore e serenità Mirella Cece, presentatrice dell'emblema del Sacro Romano Impero Liberale Cattolico, che da anni mantiene in modo impeccabile l'ordine della fila: anche i più bellicosi hanno finito per darle retta. 

3) Ci sono poi bizzarri parallelismi, storie di simboli la cui storia politica diametralmente opposta, finisce per incrociarsi nelle aule di un tribunale; E' il caso di Rifondazione Comunista e del Movimento Sociale-Fiamma Tricolore.

In effetti non sarebbe fuori luogo parlare di "falce e fiammella", perché i due simboli, pur così distanti, hanno finito per avere praticamente la stessa storia a distanza di pochi anni (e, volendo, anche la stessa fine). In entrambi i casi c'è stato un partito (il PCI e l'MSI) che ha voluto cambiare notevolmente linea e, con essa, il nome e il simbolo, pur rimanendo lo stesso soggetto; in tutte e due le vicende una minoranza non trascurabile (le future Rifondazione Comunista e Fiamma Tricolore) non ha accettato la trasformazione e ha voluto continuare la strada di sempre, pretendendo di conservare i segni di identificazione storici. Per la legge, però, si ha il diritto di lasciare un gruppo, ma non quello di conservare diritti sul suo patrimonio, compresi il suo nome e il suo simbolo: è stato lo stesso tribunale di Roma, a quattro anni di distanza (nel 1991 sull'emblema del PCI, nel 1995 su quello il MSI) a chiarire che i gruppi di dissidenti, per quanto potessero essere coerenti con la vecchia linea, dovevano trovarsi un altro emblema perché usando quello vecchio ledevano il diritto al nome e all'identità personale del partito che avevano lasciato. Così, PDS e AN avevano cambiato idea mantenendo il vecchio simbolo in miniatura, Rifondazione Comunista e Fiamma Tricolore si sono dovute arrangiare con grafiche diverse, limitandosi a interpretare con un altro disegno i vecchi soggetti, perché voler richiamare la militanza comunista e della destra missina era pur sempre lecito. Almeno quello.

4) A vent'anni dalla prima apparizione di un nome su un simbolo di partito (il nome era quello di Pannella) dopo l'IdV di Di Pietro e SEL di Nichi Vendola, assistiamo ad una lenta quanto significativa eliminazione dei nomi dei leader dai simboli dei partiti. Possiamo considerarlo un contributo alla lotta al personalismo della politica o semplicemente il congedarsi da parte dei padri storici di quei partiti nati con un forte protagonismo dei propri leader?

Il primo a togliere - anzi, a non volere dichiaratamente - il proprio nome sul simbolo è stato Pierluigi Bersani. Tutti gli altri leader grandi o medi alle elezioni del 2013 avevano lasciato in evidenza i loro nomi sugli emblemi, lui aveva voluto marcare la differenza, anche se aspirava a fare il presidente del Consiglio. Qualcun altro, come Maroni, aveva inizialmente tolto ogni cognome dall'emblema (anche per marcare le distanze dall'era di Bossi), ma alle elezioni l'ha inserito di nuovo; Salvini per ora ha scelto di non comparire sul simbolo.  Può esserci l'intenzione di passare la mano o di fare un passo indietro (per ora anche Forza Italia rinuncia a ogni nome), come potrebbe esserci un briciolo di genuina lotta al personalismo. Volendo essere concreti e realistici, però, forse è più corretto dire che in questo momento la presenza dei nomi non porta tutto questo valore aggiunto (anzi, a volte può essere una zavorra), per cui i partiti cercano di regolarsi di conseguenza. Che questo si traduca anche in un ridimensionamento o in una sparizione dei partiti personali, però, è tutto da vedere: non basta cancellare un nome dal simbolo per farli sparire.

Immagine liberamente tratta da: www.granodesign.it

Puoi trovare alcuni dati sul lavoro di ricerca di Gabriele Maestri su www.isimbolidelladiscordia.blogspot.it/

Ultima modifica il Mercoledì, 26 Marzo 2014 16:07
Calogero Laneri

Nato in Sicilia, studia Scienze Politiche presso l'Università degli Studi di Parma. Sin da ragazzo si appassiona alla politica e da allora sta cercando di smettere, senza grandi risultati.

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